Milo De Angelis: ‘Millimetri’ – una nota di Francesco Filia

 

di Francesco Filia

“Millimetri” di Milo De Angelis – Einaudi, 1983 – è un libro su cui sono tornato decine di volte a distanza di anni – la prima lettura risale a tredici anni fa, in corrispondenza della pubblicazione di “Biografia sommaria” – e che ha continuato a parlarmi in maniera sempre violenta e dirompente. I primi corpo a corpo, concentrati nel giro di pochi giorni, furono un’esperienza frustrante e dolorosa, avevo la sensazione di arrampicarmi su di una parete ripidissima che non concedeva appigli. Anzi, ad ogni lettura, sentivo solo lo scivolare sanguinoso delle dita sulla roccia delle parole, dei versi, delle cose nominate in queste poesie; avvertivo il dolore mentale e fisico di una lettura disperata ed enigmatica. I versi apparivano indecifrabili e alieni, precipitati lì sulla pagina e dispostisi in una verticalità precisa e assoluta, come se si fossero slacciati da un altrove incombente e minaccioso (“La testa cade a piombo/ e si slaccia/ nel pomeriggio strappato/ al pensiero”) per conficcarsi nel foglio bianco nel modo più lancinante e preciso possibile. Ad aumentare lo sgomento c’era la nettezza di ogni andare a capo, necessario e secco come una rasoiata. Poi, alcune settimane dopo la prima lettura, l’appiglio si è presentato, ma è stato un appiglio vertiginoso e abissale: “In noi giungerà l’universo/ quel silenzio frontale dove eravamo/ già stati”. In questi versi riconoscevo e, a distanza di anni sempre più lo vedo chiaramente, una sapienza antica e sconvolgente, la sapienza di una Grecia pre-classica (“C’è una mano che inchioda/ i suoi grammi/ nel cortile vicino alla grecia”), la sapienza del primo frammento del pensiero occidentale, di Anassimandro (« ‘Anaxìmandros…arkén èireke tôn ònton tò àpeiron…ex ôn de e ghénesìs esti toìs ûsi kài tèn fdoràn eis taûta ghìnestai katà tò khreòn didónai gàr autà dìken kaì tísin allélois tês adikías katà tèn tû krònu táxin.» « Anassimandro….ha detto…. che principio degli esseri è l’infinito (ápeiron)….da dove infatti gli esseri hanno l’origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo. »)1. L’origine, l’ápeiron, il non-finito, il tutto avvolgente in cui ogni ente ritorna, di cui parla Anassimandro, in De Angelis è l’universo, ciò che è raccolto in unità come l’ápeiron, ma questa unità è “il silenzio frontale”, l’origine muta verso cui noi andiamo, contro il quale ogni ente finito si frantuma necessariamente (katà tò khreòn). In noi giungerà, e qui il giungerà ha il valore della necessità, “l’universo” come “silenzio frontale”, ossia giungerà il nulla di ogni ente (“Così,/sollevandosi nel nulla, crescono/ soltanto alla radice”.) e il nulla, “il silenzio frontale, giungerà” secondo l’ordine del tempo (katà tèn tû krònu táxin) (“Giunge luglio per i morti/ che sentono nell’assedio/ di ogni fiore/ una giustizia remota”.) e secondo una giustizia implacabile (gàr autà dìken kaì tísin allélois tês adikías) (e ora il villaggio fa/ silenzio/ nella corte marziale.). Nelle ventinove poesie di Millimetri c’è al tempo stesso la sapienza originaria della nostra civiltà e la spaventosa contemporaneità dell’epoca in cui delle cose non ne è più niente (“Ora c’è la disadorna/ e si compiono gli anni, a manciate”). Ecco la poesia di “Millimetri” è, o meglio, è stata, una teoria, una visione, lucida e allucinata, un pensiero sul mondo e sulle cose e questo pensiero già da sempre è diventato poesia, ossia ha attraversato una regione in cui le parole non sono solo mezzi ma sono destino, sono le cose che dicono. E le parole di questo libro dicono l’essenza dell’esser cosa, ossia che tutto è tremendo, perché tutto è sacro, perché ogni singola cosa, ogni attimo, oscilla paurosamente tra l’essere e il niente (“Mentre nuotano/ a delfino o si alzano verso il nulla”). In questi versi le cose si presentano nella loro gratuità, durezza e imperscrutabilità, senza il filtro di nessun racconto, di nessuna biografia, di nessun dramma psicologico che le possa addomesticare (“guardateli quando/ scavano questa gola:/ scendi, pavimento”.). La “gola” della voce poetica, offerta alla spaventosità del nulla, non è altro che il luogo oggettivamente folle, perché folle e gioiosamente, di una gioia lancinante e mozzafiato, tragica è la radice ultima di ogni accadere (“Nati sulla terra/ che rimane/ siamo stati quel giubilo mozzafiato/ appena le menti giunsero”), del dire poetico (“e io parlo alla terra/ a una candela;/ di te e di noi, di noi soli, creati”.) il cui dettato, severo ed estraneo, comanda di ricordare ogni cosa e per far ciò pretende un rigore estremo, che è la suprema e unica forma di bellezza concessa (“Noi fermiamo lì una guerra/ con navi serene e gelide”.), in cui ogni singola parola deve essere quella precisa parola e non un’altra, perché se così non fosse, tutto, e noi cose tra le cose, crollerebbe, prima del tempo dovuto, nel vortice dell’oblio definitivo (“Ecco la pagina di quarzo/ nell’agenda, quando/ ogni uomo viene raso al suolo/ e ricorda”.). Nella pagina di quarzo, nell’ora tragica dell’impatto dell’esistenza con il muro della necessità, l’uomo non può scegliere ma è comunque giudicato, perché deve ascoltare e ubbidire alla voce ancestrale che già da sempre gli parla, anzi la sua unica libertà è nell’ubbidire. La sua libertà consiste nell’esser “raso al suolo”, nel decidere l’impossibile adesione tragica al destino, alle parole che già da sempre lo hanno descritto, nominato, a quel vedere che lo ha accecato (“Se un urlo ha visto/ la sua prima sfera/ con l’occhio estraneo dei naselli”). L’esser mortale è un’ubbidienza ad una sapienza antica ed enigmatica (“Chi genera il tempo/ ha il volto arato e con pazienza ripete/ che noi ubbidiamo”.), ma cristallina nella sua spietata disciplina, e in questa ubbidienza non c’è premio, non c’è salvezza, solo silenzio che dice la sacralità – ossia, etimologicamente, qualcosa di sancito una volta e per sempre – di ogni attimo, lo scontro vertiginoso tra l’ordine necessario del cosmo (“moscerini/ nella macchia di un immenso/ vetr”.) e l’arbitrarietà, a sua volta necessaria nella sua gracilità, del singolo destino (“voi giungete/ menti colme di luce/ con il rombo di un’estrazione a sorte/ ogni paradiso ha un capogiro/ di figli falciati e certi”). È nello scontro tra il singolo e l’ordine del mondo che va inteso il senso del titolo del libro; ciò che rende radicalmente tragica l’esistenza dell’uomo è l’impossibilità di chiudere il cerchio del destino, l’impossibilità del ritorno al principio (“fino al nudo principio/ premuto sopra le tempie”). La chiusura del circolo per i mortali è un “silenzio frontale”, un niente in cui ci annientiamo. Nelle poesie di De Angelis, “Il cerchio per i mortali”, a differenza che nel frammento anassimandreo, non è chiuso, ma rimane tragicamente aperto di pochi millimetri, che necessariamente non potranno mai essere colmati, ma solo evocati in quei millimetri di avvistamento e avvicinamento alla visione finale che ci divorerà, che sono i versi di questo libro. È la stessa lontananza abissale che proviamo quando tocchiamo qualcosa: c’è un millimetro, materiale e mentale, che ci separa e quel millimetro è un abisso di tempo e di spazio, è quell’esclusione decisiva che è il nostro esser finiti (“con una bocca/ in guerra e una bocca perfetta, vicinissime/ al pane”). Dove, in ultimo, anche la poesia se è vera poesia, cioè destino dei mortali, non può saltare fuori dalla propria ombra, non può percorrere quel millimetro che la separa dalla cosa ultima. La morte ha la parola definitiva e quella parola non potrà mai essere nostra (“La mela/ è morta”).

( a cura di Roberto Russo. Francesco Filia “Punto critico”, 27. 4. 2012 )

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[1] Simplicio, “Commentario alla fisica di Aristotele”, 24, 13. Trad. “I Presocratici”, a cura di Daniele Giannantoni, Bari, 1969, pp.106, 107.

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