Dentro la somiglianza – un intervento di Franca Mancinelli su Milo De Angelis

 

di Franca Mancinelli

Ci sono almeno due motivi per lavorare ad un incontro tra gli studenti e la poesia di Milo De Angelis. Il primo è che, tra i poeti dei nostri anni, De Angelis è quello che più di altri è stato intriso dall’adolescenza, dai suoi abbagli accecanti, dalle sue ferite cercate come marchi sul corpo, come patti di sangue. Pensare inoltre, con la sua opera, alla poesia come gesto atletico e come gesto verso la vita (anche in senso eroico), può essere utile a sfatare i numerosi luoghi comuni che fanno della poesia un referto mostrato per documentare le diverse figure retoriche, gli stili e le fasi con cui si conserva, mummificata, la lingua. Non dimentichiamo poi che addentrandoci nell’incandescenza scura dei versi di De Angelis, avremo in qualche modo toccato una delle stazioni centrali della poesia dell’ultimo trentennio, dalla metà degli anni Settanta (del ’76 è il suo esordio, “Somiglianze”), alle ultime generazioni. Molte vicende poetiche hanno transitato, sostato, quando non si sono proprio generate da questo grande e sotterraneo ganglio che è l’opera di De Angelis. Riconosciuto fin dal suo primo libro come qualcuno che si è fatto interprete delle esigenze e delle ossessioni di una generazione (quella dei nati negli anni ’50 e, in particolare, di coloro che rifiutavano sia l’imperativo dell’impegno sia le sirene dell’evasione), De Angelis non ha smesso di esercitare una funzione catalizzante nel labirinto della contemporaneità.
La sua è la voce di un carcerato che ha scelto di scontare una colpa e insieme quella di Raskolnikov nel turbine del tormento. Quello che è certo è che abita una cella che ha reso un luogo infinito. Tagliandosi le vie di fuga ha aperto al massimo grado le direzioni e le possibilità dello sguardo, ha potenziato il rigore sino a renderlo una spada spietata, sino ad esercitare un controllo assoluto su ogni particella di quello spazio. Pensiamo ad un luogo in cui la realtà è concentrata nel vivo delle sue contraddizioni, della sua ferita aperta: un luogo impregnato di sostanze tossiche, di scarichi industriali, d’inquinamento e di degrado. La sua Milano auscultata come il cuore sfibrato dei nostri anni, s’espande fino a congiungersi con la scena di una tragedia greca. In quello spazio in cui due forze opposte si fronteggiano, in un turbinio vertiginoso prima dell’evento, sta la poesia di De Angelis.

Certo, le gambe gli venivano meno e gli s’irrigidivano, ed egli provava nausea, come se qualcosa gli serrasse la gola e gli facesse solletico, non avete mai avuto questa sensazione nei momenti di spavento o di grave pericolo, quando la ragione perdura intatta, ma non ha più alcun dominio? […] È strano che i condannati, in quegli ultimi istanti, di rado cadano in deliquio! Al contrario, la testa vive e lavora intensamente, violentemente, con la violenza di una macchina in moto; io mi figuro che vi martelli dentro una quantità di pensieri estranei, tutti incompiuti, e forse anche buffi, di questo genere: «Ecco, quell’uomo mi guarda, ha un porro sulla fronte; ecco, il boia ha uno dei bottoni inferiori arrugginito…» e intanto si sa e si ricorda tutto; c’è un punto che in nessun modo si può dimenticare, e in deliquio non si può cadere, e tutto gira e turbina intorno a quel punto.

In questo brano tratto dalla prima parte dell’”Idiota” di Dostoevkij il principe Myskin, da poco rientrato a Pietroburgo, sta raccontando alle tre sorelle Epančin, una condanna al patibolo a cui ha assistito a Lione. Sappiamo, dalle interviste e dall’ultima parte di Poesia e destino che il principe Myskin è stato un “interlocutore” di De Angelis, una di quelle figure con cui, nel silenzio dei pomeriggi parlava, come fosse al suo fianco, così come accade quando ciò che leggiamo entra nel nostro sangue, s’introduce nelle fibre della nostra voce, apre un varco. Sappiamo anche, dall’introduzione di Isabella Vicentini ai “Colloqui sulla poesia” di De Angelis (il volume che raccoglie le interviste da lei curato), che alla domanda sull’aspetto del proprio carattere che avrebbe voluto cambiare De Angelis aveva risposto, prima di correggersi: «la paura della morte». Ma non c’è in fondo bisogno di citare questa frase trapelata, con il suo carattere di oralità e di innocenza. Basterà pensare alla poesia di De Angelis nei suoi momenti di più concitata visionarietà ed astrattezza, nel battito accelerato degli intervalli logici, nelle lacerazioni e nei vuoti di senso, e richiamare l’immagine del condannato che si avvicina al luogo e all’istante saputo, nello spazio-tempo da cui si genera l’evento. Ecco il ripetersi di parole, di versi o di brandelli di frasi come aggrappandosi all’unica cosa che dilata la fine, come graffiando con le unghie le pareti nude del pensiero, il vuoto che serra le tempie. In questa intollerabile e vertiginosa pressione verranno i numeri, le loro cifre semplici, il conto di quanto manca, di quanto è ancora nella vita. L’esattezza che si riverbera nel baratro, la precisione possibile ad un passo dalla follia, l’esercizio da ripetere per tenere sveglia la ragione. E poi, tra i passi che continuano ad avanzare irrigiditi nell’assenza di speranza, la pioggia violenta di minuscole sequenze e fotogrammi del reale che appartengono al presente mescolato con la memoria dell’intera esistenza, dettagli nominati in una successione in cui l’ordine e la coerenza sono sospesi, barbagli chiamati all’appello prima di sprofondare nel gorgo, in un’invocazione muta, in una supplica che avviene nonostante il condannato esegua la cerimonia sprofondato nella dignità più ferrea. È vero che, anche nei momenti di maggiore oscurità e turbine nella poesia di De Angelis permane una forza aggregante che ci fa intuire la traccia di un’esperienza, un’impronta velata, come unisse il passo appena compiuto e il fossile di un’antica presenza. Ed in questi momenti (frequenti ancora in un libro come “Distante un padre”), il lettore resta incapace di levare gli occhi, con la sensazione ineffabile che quell’immagine accoglie tutto, che interrogandola e unendola agli altri frammenti, ricomporrà un quadro tracciato con istinto e sapienza. Ma per comprendere la poesia di De Angelis, all’immagine del condannato dobbiamo avvicinare quella del principe Miskin che “inchiodato” lo guarda e che, un istante prima della morte, riceve il suo sguardo e “capisce tutto”, tanto che il suo viso bianco “come un foglio di carta da scrivere” diventa l’ossessione e l’orizzonte dell’arte, l’indicibile che andrebbe raccontato.

Questo nucleo vuoto attorno a cui gravitano le visioni e i suoni è legato ad una stagione dell’esistenza o, meglio, a quanto segue l’incandescenza luminosa dell’infanzia. È l’adolescente che si misura con la fine, che è attratto dal baratro e lo costeggia, ad un passo dall’irreparabile, in quell’andirivieni continuo dal quale si sprigiona un’energia in potenza, racchiusa e tesa verso l’atto che la veicoli e la liberi, verso l’evento; «“posso abbandonare tutto, anche ora, / in questo istante” e ci fermiamo / in un lato del viale, e fissa / una panchina, un pensiero scuro / che si muove “anche qui / da un momento all’altro: posso”» (“La passeggiata”). In questa vertigine, in questa apertura assoluta alle infinite possibilità che poi disegnano la vita e la divengono, ci immette il primo libro di De Angelis, “Somiglianze”. Un libro scritto tra i diciannove e i venticinque anni, tra il 1970 e il ’75 come indicano le date riportate accanto ai titoli di sezione (ma che, nei primi testi raccoglie intuizioni già degli anni del liceo, come afferma in un’intervista). Sin dall’esordio De Angelis dimostra la propria consapevolezza riguardo a quanto può chiedere alla poesia, a quanto a lui, come poeta spetta. Sa già gettarsi nel dramma gioioso dell’inizio, di ciò che si compie per la prima volta e insieme mantenersi sulla sponda di chi guarda, di chi dell’adolescenza può tessere il mito. «Se non c’è adolescenza senza darsi per intero all’impresa e all’errore, senza sdegno per chi agisce in penombra e tiene i piedi in due staffe, allora è vero che esistono scrittori adolescenti […] ritengo che solo tra i poeti adolescenti ci possa essere un grande poeta, se la fortuna delle cose lo permette», scrive alcuni anni più tardi, in una dichiarazione di poetica. Diciamo subito che essere poeti adolescenti significa non avvertire come concluso quel cammino che porta ad una verità riguardo a se stessi, al proprio posto nel mondo, al proprio rapporto di “somiglianza” e “diversità” con gli altri e con le cose. Un poeta adolescente non smette di cercare la propria identità, avanza nell’oscuro pronto a rimettere in gioco se stesso, ad inciampare come a raggiungere l’intensità di luce, la gioia del ritorno nel luogo «dove eravamo già stati». Nella voce fraterna che lo chiama, che lo avvicina alla propria immagine riflessa su uno specchio buio, avvertirà qualcosa di minaccioso e di ostile, come lo spingesse a sporgersi su un precipizio. Tanto più riconosce se stesso, tanto più si sentirà maturo, pronto alla morte. In questo cortocircuito tra le parole e la propria esistenza è certamente Pavese l’autore che più di altri ha significato nella formazione di De Angelis (il Pavese dei “Dialoghi con Leucò”, di “Feria d’agosto”, del “Mestiere di vivere” e delle riflessioni sul mito); un autore che ancora prima di leggere trovava nei silenzi e nell’intonazione della madre, monferrina, in quelle “terre gialle” dove alla fine degli anni ’80 tornerà cercando una sosta dal turbine delle visioni, per recuperare il racconto, un dire più piano e diretto.

“Somiglianze”, pubblicato nella “bufera” di ideologie e di idoli che imperversava negli anni Settanta, ha al suo centro il tema fondamentale dell’adolescenza: la domanda sulla propria identità. Qui, specularmente al libro più recente, “Tema dell’addio” (2005), congedo alla stagione della giovinezza e dell’amore, De Angelis tratta il “tema dell’inizio”: un ingresso nella vita rinviato e ribadito nella sua impellenza, un cominciare che avviene attraverso le parole e l’eros, tornando all’origine, alla luce dell’infanzia, e ancora prima, risalendo fino al chiarore del desiderio, al «gesto». Un vero e proprio libro fondativo in cui vibrano caldi i motivi a cui darà in seguito una forma prima più affilata ed ellittica, come in “Distante un padre”(1989), poi più composta e definita, come in “Biografia sommaria” (1999).
Intessuto attorno ai due poli della “somiglianza” e della “diversità”, il libro mantiene fino alla fine la sua natura aperta e mossa, ripetendo le scene di uno stesso dramma rallentato: quello di chi, prima di decidersi a compiere il gesto risolutivo, di costringersi a scegliere e cominciare, si sofferma sulla soglia, oscilla nella paura di diventare “diverso”, di perdere qualcosa. È un’agonia tra luce e buio: da una parte il chiaro della “somiglianza”, dell’essere nella vita, nell’armonia e nella gioia che precedono la parola, dall’altra l’oscuro della “diversità”, di ciò che è stato separato, di ciò che ha scelto e non ha più un senso a cui aggrapparsi: «Ma la somiglianza era in noi / nell’immagine di un altro, ravvicinato, nel sole»; «Essendo stati chiamati / non è mai buio, qui»; «Adesso la diversità oscura tutto». La somiglianza è propria dell’infanzia, della stagione in cui «tutto è in relazione», tutto è fraterno e legato da rapporti perché la nostra identità non si è ancora affermata come “altro” rispetto a quanto ci circonda, alle presenze umane come alla natura. Non essendo ancora usciti dall’indistinto scegliendo e riconoscendo il nostro viso, ad ogni incontro ci rispecchiamo nell’altro, vediamo ciò che ci unisce. La differenza è invece il terreno sui cui si fonda l’identità dell’adolescente: altra rispetto all’infanzia e altra rispetto al mondo degli adulti (su cui si riversa l’odio netto di chi non può riconoscersi: «si sono inginocchiati, capisci, hanno / dimenticato tutto», sentenzia la voce di “Litanie”). L’adolescente ingaggia una lotta tenace per conquistare il luogo che gli appartiene nel campo da gioco dell’esistenza. La legge che lo decide è spietata: chi viene escluso lo sarà per sempre, nella sua vita non riuscirà ad alzarsi dalla panchina, a tirare una volta dal centrocampo. «Nessuno potrà abbracciare chi non ha vinto / il doppione gettato via / nell’acquitrino, il dito silenzioso / di quelli che “non ce la fanno”». Provare compassione per gli sconfitti, fermare su di loro lo sguardo, è un segno di fragilità; si rischia di venire contagiati, di entrare a fare parte degli esclusi. Nell’adolescenza avviene la prova, l’evento che decide una volta per tutte, che non può offrire una seconda possibilità o essere rinviato. Chi lo dilata o fugge ha già perso, non fa che prolungare la propria agonia. In questo periodo le cose e gli altri ci somigliano e sono allo stesso tempo diverse; distanze e vicinanze sono intercambiabili, in un tormento che si placa soltanto quando troveremo il nostro posto nel mondo. «“Volevo che tutti si fermassero” […] “non volevo diventare diversa” dice una delle giovani voci registrata nel libro, esprimendo lo stesso desiderio impossibile e “colpevole” che compare in una poesia che s’intitola proprio “La somiglianza”:: «Domanderemo perdono / per avere tentato, nello stadio, / chiedendogli di lanciare un giavellotto / perché ritornasse l’infanzia». Il passato infatti non può ritornare se prima, nel presente, non si è accettata la sua morte. Così avviene per Orfeo dei “Dialoghi con Leucò” che, voltandosi, evita di «fare di Euridice una reliquia»: «Solo lasciando il passato nel suo tempo, esso può eternarsi, può pulsare nell’attimo presente e risplendere», ha commentato De Angelis in un’intervista. In quel secondo e finale lancio del giavellotto che, nella sua tensione sospesa conclude la poesia (certamente programmatica se rinvia al titolo del libro), c’è un tentativo di ritorno che avviene attraverso la scrittura. «Prese la rincorsa, tese il braccio…»: questo gesto atletico fermato nella massima concentrazione delle forze ad avverare l’istante presente riattingendo la luce originaria dell’infanzia, apre nel vuoto un segno, come un verso di De Angelis. La poesia è per lui la ripetizione di gesti che radunano le energie per un istante in cui si gioca tutto, in cui si decide la luce e la vittoria, oppure il ritorno nell’oscuro, prima di un nuovo lancio.
“Somiglianze” è un libro percorso da bagliori e schiarite improvvise, come se una bufera con le sue nubi impenetrabili incombesse anche nei momenti più pieni della gioia, nell’incontro dei corpi. Al suo centro ci sono due gesti, due uscite dal tempo, due ritorni all’origine. Uno, lo abbiamo detto, è il gesto atletico con cui si conclude “La somiglianza”, l’altro è quello con cui termina la prima parte di «T. S.»: il gesto che dà la vita, il gesto che inizia. È l’esperienza erotica che per prima traduce questa necessità di rompere gli indugi, di rinascere nell’istante, «battito per battito», di tornare a immergersi nella luce: «… quando si scioglie / non teme di diventare diverso / e finisce nell’amore…». Avanzando oltre se stessi, verso la realtà, ciò che si incontra per primo è il corpo di un altro, anche soltanto nell’«ingiustizia di un bisogno», di «toccamenti [che] sono un tic nervoso», oppure nel combattimento che porta il risorgere delle forze, che apre la visione al fluido di immagini che fuoriescono dalla scena urbana (e tornano nella campagna, tra le vigne e i pioppeti della terra materna, oppure scivolano tra pescatori e isole, in un paesaggio esotico, psichico e biologico insieme).
“Somiglianze” celebra il miracolo semplice e senza parole dell’essere tornati nel luogo della pienezza, dichiara il proprio sì alla vita, il proprio amore che si espande come un’energia che pulsa dentro ogni forma. Gioia, riso, esultanza tornano con una frequenza e un’intensità che non sarà più presente nei libri successivi; così come l’eros non comparirà più in maniera così esplicita e diretta e non costituirà più, insieme al dialogo con la controparte femminile, la scena topica di un libro. Qualcosa è appena cominciato, qualcosa sta cominciando e per questo viene ripetuto, festeggiato in un’esplosione di luminosità. «Eppure era per la gioia» si ripete per due volte nella poesia “La frazione” dove l’immagine di una ragazza che sceglie di sporcarsi, di buttare nel gelo il suo amore («farò della mia vita una porcheria»), si mescola con altre che dicono la necessità di affrontare la “prova”, di abbandonarsi, nonostante tutto fuori parli una lingua oscura, chiusa, della diversità. Non c’è inizio senza delusione, senza abbandono di questa gioia che rende gli adolescenti diversi da chi si è già mischiato con la vita (significativo a proposito è l’imperfetto con cui ne “La frazione” come nella conclusione di “Litanie”, viene ribadita l’origine positiva e solare della loro tensione e la scoperta recente di un reale che la disattende: «[…] noi / “noi che eravamo per la gioia”»). Le “somiglianze” non si possono stabilire con la realtà presente che ancora trema, estranea, senza un significato: avverranno nel fondo dei corpi, dove rinasce il grido e si viene alla vita, dove «forse si può ancora / separarsi dai nomi, così potenti e vecchi». E non è un caso che, in alcune delle più riuscite sequenze erotiche il discorso assuma un significato che vale anche come dichiarazione di poetica: «… ogni esempio / è un balbettio … non / parlare a metà … immergiti … / … non dare spiegazioni … distruggi qualcosa … / … non soffrire …». “Somiglianze” sono anche le proiezioni in cui prende vita il soggetto del libro che, come un adolescente, non dice io ma parla ad un altro oppure attraverso un altro: non è dentro un’identità, ma in cammino attraverso identità somiglianti a cui arriva a demandare le proprie azioni, la realizzazione di ciò che vorrebbe essere; chi gli somiglia è allora un se stesso spostato di poco nel futuro, in una frazione del reale dove la sua volontà e il suo desiderio si sono avverati, oppure nel presente, nell’istante in cui l’azione coincide con il suo pensiero: «e fissano il binario, quello / stabilito, sempre più vicino, sicuri / che sarà un altro a morire per loro»; «e qualcuno chiede chi / sei diventato, chi / ami adesso, / e sente lo stesso, e vorrebbe, vorrebbe… […] e sciupa tutto / anche la sconfitta / cantata da un altro, sempre / da un altro, che prende il posto, con pietà / e tenta di vivere: oggi /». L’identità del soggetto che parla non corrisponde mai alla sua azione, è sempre un po’ più avanti o un po’ più indietro, nel fluido delle visioni e delle associazioni. Anche tra le cose e le parole, tra i gesti e il loro significato ci sono rapporti mobili, di somiglianza e non di identità: nel vuoto di senso, linguaggio e realtà sono scissi e avvicinabili soltanto a tratti: quando questo breve miracolo avviene un abbandono gioioso lo investe, come avesse sfiorato la pienezza. Una gioia ancora calda e tremante del calore dei corpi, si diffonde insieme alla quiete, ad un allentarsi del tempo, in un attimo quasi estatico, come quello che precede il piacere (e con lui la rigenerazione, la nascita): «E, improvvisa, la quiete della vigna e del pozzo (…) una calma sprofondata dentro il grano / mentre la donna sul prato partorisce / sempre più lentamente»; «e nasce la grande quiete, dentro la quiete / dentro la / quiete // è immersa nell’aria, non fa nessun movimento».
Essere nella somiglianza significa anche essere nella metamorfosi, nella «materia che vieta e chiama / genera, estingue»; qui, dove tutto è aperto e in movimento si genera la parola, ciò che mantiene in vita, che impedisce di «ritornare ghiaccio, l’essere identico a sé / che non cammina». Ma prima di potere essere nelle parole, prima di cominciare il viaggio verso la propria identità è necessaria una scelta che lo separi dall’infanzia, un gesto crudele che tronchi la somiglianza tenera e lo ponga di fronte all’altro da sé, al diverso: «“Adesso puoi riuscire” / la forza del guerriero nudo dietro la spada, un’azione che esce per prima / e spacca, in tutti, il fratello / che hanno dentro “raccontami qualcosa / che io non posso dirti”». Questo “tu per tu”, questa frontalità in cui il libro ci conduce sin dal titolo, contiene una dinamica che è anche un’indicazione di poetica: mai fermarsi entro i limiti della propria individualità pacificando la lotta del divenire, dello sporgersi verso l’altro, perché è proprio in questa tensione aperta all’infinito che si genera la parola: «se ti togliamo ciò che non è tuo / non ti rimane niente» come conclude ne “L’idea centrale”. Così anche nell’amore, in quella dualità su cui s’intesse il libro dall’inizio alla fine, è necessaria una “vincitrice”, «un’amazzone» che con la sua decisione e forza entri nell’agone e spezzi il «plagio / di somigliarsi», «cancelli il disgusto / per chi mi assomiglia tenero». Non è un caso che il libro si concluda con una scena d’unione dei corpi in cui vengono ribadite le rispettive linee, per non perdersi e mescolarsi l’uno nell’altro: «Togliendo la sciarpa / indichiamo i confini / delle labbra / per non rischiare un’altra / analogia con figure».

(a cura di Roberto Russo)


Questo saggio, nato da un laboratorio di poesia nella scuola secondaria, è stato scritto nell’estate del 2008. E’ apparso poi, con alcuni tagli redazionali e con il titolo “Dentro la somiglianza. La poesia di Milo De Angelis tra i banchi di scuola” nella rivista “Chichibìo n.56 gennaio/febbraio 2010 e più tardi, con alcune modifiche, in “Soglie” n 1 aprile 2010 e infine nel blog “punto critico” del 24 giugno 2010.

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