Dante Maffia: I Millimetri di Milo De Angelis

 

di Dante Maffia

A differenza di “Somiglianze” (Guanda 1976), che aveva una sua circolarità inquietante e un impianto articolato in maniera dinamica e armonica, “Millimetri” (Einaudi, 1983) manca di un nucleo ispiratore e di un programma. Anche “La corsa dei mantelli” (Guanda, 1979) era ben organizzato in suo fluido andante e musicale che dava l’idea di una gincana svolta con perizia e con ansie, e ora invece De Angelis non riesce a mettere a fuoco il punto da cui partono o arrivano le immagini, i significati, le provocazioni, le esperienze. Ma probabilmente sta proprio in ciò il pregio del testo, nel non volere essere circoscritto e limitato a un qualsiasi percorso, e nell’essere, al contrario, in dati inconfutabili e non verificabili, in certezze fatte di niente, in disarmonie nelle quali la zavorra del vivere s’unisce e trova un modo di esistere, di non essere, con i risvolti del sublime inafferrabile.
Il poeta si pone dentro i testi come un lievito e tenta di farsi decifrare, nel mentre decifra, da ogni lettore a suo piacimento. Il rischio di sfarsi in parole esiste, ma De Angelis comunque percorre la strada; se non vi sarà un ritorno, avrà tuttavia goduto le metamorfosi della sua carne in suoni, che s’arrovellano per prendere forma e senso.
E’ evidente che il poeta si sente disperso nel groviglio del non essere e cerca di trovare una collocazione adeguata, ma le giunture stridono, la coesione manca, il coordinamento è una finzione del vivere. Così

Al timone di una goccia
ritorna
un calendario in
sangue di cicogne. E più tardi
– fino a chi – lo sparo risoluto
che mira.
Si conficcano lì, unghia, come
tu nella tua bianchezza
quando un rito purosangue
dichiara tempo
e ci sono sassi in un angolo
della viva.

“Millimetri”, è chiaro, è collocabile epigono d’avanguardia, ma per fortuna non rigurgita di scampoli. Assistiamo allo sfacelo del narrato in una frammentazione solo apparentemente analogica ma che invece mira a raccordarsi col ritmo degli eventi, con la vita e non vi riesce, se non per scansioni approssimative:

Ma il pane nelle fermate
del terremoto non basta più e il ladro ha
una scarpa sola.
Così sia. Nella testa
sbranata da una primavera
porge il latte a chi
posseduto e l’ha rotto.
Con tutti i denari,
soffiando pari o dispari, un capogiro tornerà
tra i ferri vecchi. Allora
noi donne lo daremo, alla luce.

Il ricorso ad Alain Robbe-Grillet sorge spontaneo, ma è chiaro che si tratta di un’affinità di temperamento. Alla “Topologia di una città fantasma” qui è sostituito l’uomo fantasma. L’integrità è un mito da rigettare, un luogo comune. Si sente in alcuni versi (vedi “Sono ancora loro”, “Non puoi tacere”) una sconsolata ricerca di se stesso. Manca alla realtà il segno che smuove, che sia l’eternità, l’assoluto. Da questa immaginata irrimediabile distruzione (le parole di De Angelis sono l’arca di Noè, anzi lo sono addirittura le sole lettere dell’alfabeto) spuntano riflessioni atroci sulla vita e la sua inconsistenza. Sembrano buttate lì, senza stupore e senza interesse, e invece abbiamo aperture improvvise, lividi negli occhi, cecità, buio, frastagliati enigmi, misteriose chimere, rimasugli di civiltà.
Bisogna ripartire. Il soliloquio-riflessione rifrange le mille facce della realtà odierna. E’ uno sfaldamento; si rincorrono suoni echi assonanze; civiltà catapultano, una nell’altra, la propria sostanza storica. Vince ancora una volta la terra, come sempre, ma intanto il poeta avrà provato a chiamarsi, a chiarirsi, a chiarire agli altri la sua inconsistenza o per lo meno gliela avrà fatta pesare come una colpa.

Toccandoli uno alla volta,
questo mattino di capodanno
li colora
con lo stesso peccato che si affratella
al sonno.

( A cura di Roberto Russo. Dante Mafia, in “Poeti italiani verso il nuovo millennio”, Ed. Scettro del Re, Roma 2002, pp 58-59 )

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