Avulsione ed eticità in Milo De Angelis

 

di Roberto Bertoldo

Noi lettori di professione siamo diffidenti con gli scrittori quanto gli uomini lo sono con le loro amanti, e la diffidenza cresce nei confronti dei poeti, perché l’inganno in poesia è più facile che nelle altre forme di espressione letteraria. In letteratura l’inganno richiede competenze tecniche, con le quali la poesia, a differenza per esempio della narrativa, è addirittura in grado di rivestire il nulla di presunta profondità. I narratori, per quanto bravi (la bravura non ha comunque a che fare con la vera letteratura), se non hanno niente di profondo da dire lo si nota subito, da un onirismo acceso per esempio, senza bisogno di smascherarli tanto è insipido il loro testo, ma un poeta che sappia poetare può appoggiarsi più facilmente sul fraintendimento. Mi è capitato più volte, ad esempio, di interpretare simbolicamente dei testi poetici dando loro una profondità (mi illudo sempre che si scriva in poesia per comunicare ciò che non è comunicabile in altra forma) che poi, confrontandomi con l’autore, ho scoperto avere un significato solo letterale e per di più banale. Purtroppo gli autori muoiono e i critici, soprattutto dopo, incorrono spesso in sopravvalutazioni dettate dalla loro intelligenza.
Uno dei poeti sui quali si è espressa la diffidenza dei lettori di professione, di quelli seri intendo, è Milo De Angelis. Il dubbio sull’autenticità della sua poesia non è negativo, è anzi il segno che la critica più intelligente (e non quella dei galoppini che amano tessere elogi su quei poeti che a furia di salire le scale del potere sono divenuti asfittici) ha investito su di lui.
Parliamo di De Angelis prendendo spunto da una sua raccolta antologica uscita negli Stati Uniti con versione a fronte del traduttore Emanuel Di Pasquale e per volontà del poeta Alfredo de Palchi , che vara con questo libro una collana di poeti italiani che prevede per ora Dante, Rosselli, Caproni, Sbarbaro, Spaziani, Raboni.
Un’antologia di Milo De Angelis negli Stati Uniti deve avere sicuramente il suo fascino (questa è la seconda e fa seguito a quella uscita nel 1995 a Los Angeles ), in quanto la poesia di Milo De Angelis non ha in Italia molti seguaci. Sarà per questa sua ascendenza che sa di Fortini e Bigongiari, due nomi ostici per ragioni diverse, una politica e una poetica – ma, alla fine, quanto diverse? –, sarà per il suo graduale svolgersi, da Somiglianze, raccolta del 1976, a Millimetri, del 1983, a Terra del viso, 1985, a Distante un padre, 1989, sino a Biografia sommaria, 1999, in una dizione sfuggente ma allo stesso tempo precisa, e più precisa di tante esattezze descrittive, questa poesia, per la sua corposità ritengo, non ha avuto molti imitatori, i quali avrebbero rischiato una ben magra figura. Molto più facile fare il verso a Zanzotto o a Sanguinetti, a Giudici o a Damiani, insomma. Per di più, però, Milo De Angelis è ancora giovane, classe 1951, due anni in meno di Umberto Fiori, che appartiene a quel suo filone di poeti disincantati e discorsivi.
Questa è la prima volta che leggo nel suo insieme, seppure un insieme ridotto e quindi a mio modo di vedere ancora più rappresentativo, se la scelta, come credo, è fatta dall’autore, la poesia di De Angelis, circa la quale comunque la mia conoscenza è molto recente, e devo dire che ad avermi principalmente colpito sono due cose: la persistenza dell’avulsione, per la quale un concetto si stacca sintatticamente e/o semanticamente dal suo referente per aggregarsi ad un altro spesso solo supposto, e la forte moralità.
Nella poesia di De Angelis si incontrano sovente versi che mettono in gioco l’intera persona del poeta: «A te impedirò / sia di morire sia di raccontare. / Potrai, soltanto, nel letto, / vedere la palla di ferro minacciosa / che ruota. E vuoi dirla / e nessuno vicino. / Il dramma sia puro, nascondendolo. / Nemmeno / sarai queste immagini, ma la sofferenza / non spiata. / Pagherai la mia maledizione». (Parole per il figlio, III; con l’epigrafe esaustiva «sentirai ogni battito del tuo cuore / come un piccolo dovere»). E ancora: «Qualche decisione … bisogna prenderla» (La parte), «un millennio oggi ha esitato / tra cedere e non cedere / perdendosi sempre tardi, e con intelligenza» (Ogni metafora). E poi la timidezza, il timore, sempre presente, di sbagliare, si veda Esterno, con quella bella conclusione che sa di responsabilizzazione: «sembra di tutti questa piazza / ma è terribile, è mia». E mi fermo a conclusione della parte antologica relativa al primo libro, che mi pare mantenga inalterata la sua attualità, anche stilistica.
Avulsione ed eticità rischiano di fare a pugni, perché l’allusività connaturata alla prima può sicuramente divenire un’astuzia espressiva che menzogna la seconda. L’avulsione, insomma, può cooperare a vantaggio di una dizione ermetica non filosofica. Marco Merlin, in un denso saggio apparso nel 2000 , nel quale tra l’altro a proposito della poesia di De Angelis parla di “impulso che nulla concede ai ricami filosofici”, dimostra, attraverso un’attenta analisi anche di alcune varianti, il metodo compositivo di De Angelis che fa uso tanto della reticenza quanto della ridondanza semantica ma soprattutto tonale mediante autocitazioni intervallate anche dall’altro procedimento enigmatizzante delle citazioni. Il giudizio sfavorevole che si respira nel saggio davvero illuminante di Merlin non so ancora se condividerlo, di certo la poesia di De Angelis ha spesso un fascino che non trovo in tanta poesia contemporanea.
Ma il punto è essenziale. Il non detto, che ha comunque lo stesso potere del detto di matrice non universale che sprona alla metaforizzazione (i poeti mentono anche quando celano la chiave di lettura – lo faceva pure Pascoli, e con una certa perseveranza –), in altre parole la profondità suggerita mediante tecniche riduttive richiede un’eticità che non sia essa stessa un pretesto.
La presenza dell’eticità non è dunque prova sufficiente di profondità, che è a mio avviso il solo possibile giudizio di valore. Ma Giorgio Linguaglossa , parlando, nei riguardi di questa poesia, di “disperazione esistenziale” e “simbolismo”, la sottrae al percorso di un ipotizzabile ermetismo di maniera. Insomma, la svolta di Biografia sommaria rispetto al primo De Angelis più portato alle “spezzature” e alle “perpendicolari fenditure” – anche Linguaglossa, vedendo nel poeta milanese l’uso di “formidabili accelerazioni (iperboli ed ellissi sono frequentissime nel suo dettato poetico, ma ancor più frequenti sono gli anacoluti…) seguite da brusche frenate di senso, da autentici stop and go, costruzioni di antitesi, parallelismi sghembi”, potrebbe riconoscere la presenza dell’avulsione – accresce il distacco di questo poeta non solo dalla sterilità di un postermetismo epigonico ma anche dalla povertà “parassitaria” – sono ancora parole di Linguaglossa – dei minimalisti.
Così due poeti, lontani per età e intenti – Merlin è del 1973 e attua con finezza un metodo critico che direi tanto strutturalista nell’approccio al testo quanto di natura stilistica a conclusione dell’indagine, mentre Linguaglossa è del 1950 e predilige una critica più ideologizzata e intuitiva – ma vicini per onestà intellettuale, reagiscono in maniera opposta al fascino che indubbiamente emana anche per loro la poesia di De Angelis.
L’intervista di Gabriela Fantato e Annalisa Manstretta a Milo de Angelis può gettare nuova luce su questa problematica dell’autenticità che dovrebbe riguardare ogni poeta. Ricordo il caso del Petrarca lirico, riscattato dalla propria incertezza storico-esistenziale, o di D’Annunzio, più giustificato psicologicamente di Marino nella sua adesione a volte grottesca al sublime. Ebbene, De Angelis, in questa intervista, prende le distanze dal minimalismo abbracciando una visione schlegeliana della poesia: «L’opera deve servirsi della cronaca, anche della più banale, più minuziosa e infame, ma deve andare oltre, superandola, aspirando a qualcosa di assoluto, di alto, altrimenti si diventa un poeta neoclassico, oppure un realista». E anche giustifica gnoseologicamente il proprio stile: «C’entra eccome la razionalità, deve esserci stata e potente. Tanto più c’è stata, tanto più deve comparire nel momento della scrittura dentro una parola arcaica, arcana: radicale. La razionalità è come una “pressione verso”, come una spinta d’avvicinamento. In tal senso non condivido l’idea di una poesia per libere associazioni, senza regola. La libertà dal conosciuto implica comunque che il conosciuto ci sia stato. È proprio nella frattura, nello spaccare il conosciuto che sta il “fare” poetico». E la propria eticità: «c’è un’etica socratica di coincidenza tra Giusto e Bello».
Ovviamente le professioni teoriche non sono sufficienti a determinare l’autenticità di una scrittura poetica, ma almeno evidenziano la coscienza e lo spessore di uno scrittore. Le sottrazioni a cui ci ha abituati la poesia di Milo De Angelis, anche se spesso sono avulsioni solo apparenti perché non ricostruiscono metonimicamente, sinestesicamente o analogicamente un altro significato, rappresentano un superamento del “conosciuto”, sono postrazionali, trascendenti, universalizzano la conoscenza prosciugandone la contingenza. Non sono quindi atti di un’operazione di puro nascondimento, come una fascinazione erotica, ma sono il tentativo di liberare ciò che è nascosto nell’esperienza individuale e quotidiana (il tentativo di «dare la parola / alle ossa» La buona notte): «La Doxa mi chiede per chi voterò. La voce / è di un ragazzo che, dall’altra parte, respira. Non so / quale chiarezza dentro la rovina. Tutto / ritorna qui, confine del luogo. Quel non parlato / di chiodi per terra» (Semifinale). Come «morire» è «perdere anche la morte» (Ibidem), così scrivere è perdere anche la scrittura e conoscere è perdere la conoscenza. La sottrazione salva la scrittura, salva la conoscenza e universalizza l’una e l’altra nel comprendere. Questa nostra dantesca e montaliana presbiopia consiglia dunque di tentare, come i romantici, la comprensione, che si attua nello sfinire della conoscenza: «Non abbiamo visto niente se non quel vedere / sfioriti i versi e la morte» (Storiografia) e «insieme diverremo quel pianto / che una poesia non ha potuto dire» (Cartina muta). Conclusione che ripropone la sofferta eticità del poeta, eticità che qui acquista, come in molti altri passi, quell’affettività che ne evidenzia il profondo valore poetico.

(Hebenon, n. 11 della seconda serie, Aprile 2003)»

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