Spostare il centro di gravita’ del discorso poetico – una nota di G. Linguaglossa sulla poesia di M. De Angelis

 

di Giorgio Linguaglossa

Scriveva Franco Fortini nei suoi «appunti di poetica» nel 1962: «Spostare il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi (aggettivali) a quelli operativi, da quelli grammaticali a quelli sintattici, da quelli ritmici a quelli metrici (…) Ridurre gli elementi espressivi. La poesia deve proporsi la raffigurazione di oggetti (condizioni rapporti) non quella dei sentimenti. Quanto maggiore è il consenso sui fondamenti della commozione tanto più l’atto lirico è confermativo del sistema».

Ritengo queste osservazioni di Fortini del tutto pertinenti anche dopo cinquanta anni dalla loro stesura. I problemi di fondo, da allora ad oggi, non sono cambiati e non bastano cinquanta anni a modificare certe invarianti delle istituzioni stilistiche. Vorrei dire, per semplificare, che certe cattive abitudini di certe istituzioni stilistiche, tendono a riprodursi nella misura in cui tendono a sclerotizzarsi certe condizioni non stilistiche. Al fondo della questione resta, ora come allora, il «consenso sui fondamenti della commozione». Insomma, attraverso la lettura e l’ingrandimento di certi dettagli stilistici puoi radiografare e fotografare la fideiussione stilistica (e non) che sta al di sotto di certe valorizzazioni stilistiche; ed anche: che certe retorizzazioni sono consustanziali alle invarianti del gusto, del movimento delle opinioni, alla adesione intorno al fatto poetico… insomma.

Non c’è dubbio che nella poesia di Milo De Angelis (come nella infinita schiera di epigoni e di imitatori) si rinviene uno sbilanciamento dei rapporti poetici in favore dei «rapporti predicativi (aggettivali)» rispetto a «quelli operativi», ovvero, «sintattici», così che  il punto di equilibrio passa dai rapporti ritmici e sintattici a quelli dis-metrici, dalla funzione sostantivale a quella aggettivale. In questo senso, il primo libro di De Angelis Somiglianze (1976) è un esempio impareggiabile, e mai più eguagliato, (nonostante una quarantennale imitazione da parte di una innumerevole schiera di epigoni), di spostamento dei rapporti poetici dalla funzione sostantivale a quella aggettivale. Si direbbe che il «nuovo» modo di intendere la funzione poetica inaugurato dal poeta milanese sia stato baciato dalle labbra di un successo onnilaterale e incondizionato durato quasi trentacinque anni e, si ritiene, che debba durare almeno per altrettanti in quanto certi disequilibri di fondo delle istituzioni stilistiche novecentesche sono, di fatto, rimasti immutati. Voglio dire che certo «consenso» «sui fondamenti della commozione» (come diceva Fortini), è rimasto immutato (e destinato ad essere immutabile) perché sono rimasti immutati i sottostanti fondamenti, appunto, della «commozione»: il registro lirico di De Angelis nell’arco di un trentacinquennio è venuto così a sclerotizzarsi in una esondazione maggioritaria del principio aggettivale rispetto all’altro piatto della bilancia del principio sostanziale e sostantivale. E qui sarebbe il caso di andare ad indagare sul perché la poesia italiana del tardo Novecento abbia subito la esondazione del principio aggettivale senza neanche tentare una  linea di resistenza almeno difensiva. Non voglio dire che ci sia stata una supina e generalizzata accettazione del «nuovo» uso della funzione poetica perché una tale affermazione non sarebbe vera, ma, di fatto, tale «linea di resistenza difensiva» è rimasta inascoltata, è rimasta minoritaria. Come non pensare alla poesia di un Ripellino o a quella di una Helle Busacca o a quella di Maria Rosaria Madonna, di Salvatore Toma, di Giuseppe Pedota e di Maria Marchesi (tanto per citare soltanto poeti morti) se non come un tentativo di raddrizzare lo sbilanciamento dei rapporti tra le istituzioni stilistiche?

Di fatto, però, (lo so, forse è paradossale), è avvenuto che una poesia di indubbia caratura come quella di De Angelis abbia finito per ridurre (ulteriormente) gli spazi di manovra e di affermazione di una poesia «diversa» che si richiamasse alla via fortiniana del principio sostanziale rispetto a quello aggettivale.

Tutta incentrata sul piano emotivo e sulla commozione emozionale, la poesia di De Angelis rivela una predilezione, ed un uso asintotico, per l’impiego di una aggettivazione sghemba, che taglia obliquamente il sostantivo… una aggettivazione incantatoria, convalescenziale, febbricitante. Già il titolo con «quell’andarsene nel buio dei cortili», dove «la luce parlava. Sulla tua fronte / il prodigio. La nudità / di tutto il sangue. Un vestito…», è sintomatico di quella ricerca dell’originalità a tutti i costi… quando si sa innanzitutto che la luce non parla e non può parlare, che il sangue non può mai essere nudo, che la fronte non fa nessun prodigio e così via… i metaforismi di De Angelis sono dei travestimenti che ormai non sorprendono più nessuno, sono un linguaggio che rivela la sclerosi multipla della significazione, un impiego telefonato delle retorizzazioni, un uso abilissimo dell’abbecedario delle variazioni del principio aggettivale.

Di fatto, e nei fatti, la poesia di De Angelis ha contribuito in modo determinante a spostare il centro di gravità della poesia italiana del tardo Novecento verso, come detto, il piatto della raffigurazione dei sentimenti e delle emozioni, delle effrazioni delle emozioni mediante l’impiego di metaforismi e una imagery rigorosamente «intensificata». Scrivere che «Il citofono chiede ancora la tua voce», è una brillante ma scontata e prevedibile inversione dei nessi logici e causali del linguaggio strumentale, ma quando frasari simili invadono la totalità del testo poetico si ha, per contraccolpo, una desertificazione, un isterilimento della significazione: forse sarebbe stato più vantaggioso invertire nel modo seguente: «la voce chiede ancora il citofono», il che avrebbe avuto più senso.

Ma quand’anche, sta di fatto che questo impiego generalizzato e, ritengo, quasi inconsapevole da parte dell’autore milanese, di inversioni, ellissi, accentuazioni, iperboli, ablativi al posto di nominativi, e viceversa produce l’affievolimento della attenzione critica da parte del lettore intelligente il quale viene bersagliato e soggiogato e infine assopito da una enorme massa di inversioni logico-sintattiche del tutto gratuite ed arbitrarie e di una produzione irriflessa di espressioni aggettivali. Potrei continuare con centinaia di altri esempi ma sarebbe un esercizio scolastico e stucchevole. Sempre per restare nella stessa composizione a pag. 55 si legge:

«Un vestito. / i gialli, gli azzurri, / un colletto. Il citofono chiede ancora / la tua voce. Se non parli, / tutto si oscura. Solitudine saliente. / Solitudine innata…».

Non c’è dubbio che qui siamo dinanzi ad un fenomeno di idioletto, di sillabazione in stato semi ipnotico, di lallismo in stato di dormiveglia… la poesia è ridotta a veicolare lo stato semi comatoso della coscienza, del dormiveglia, degli irrazionalismi e delle pulsioni, di incomprensibili lacerti di memoria.

Si ha la sensazione, leggendo questo tipo di poesia, che il mondo sia diventato più lontano e incomprensibile.


Caro Giorgio,

ho letto la tua recensione a De Angelis e la trovo assai pertinente.

Penso che la questione poesia aggettivale/ poesia sostanziale che tu poni a fondamento della nuova raccolta di Milo sia la vera e profonda antinomia in cui si dibatte la poesia attuale per uscire dal Novecento. Ho già avuto modo di dirti che ormai chi scrive poesia lo fa travestendo i propri pensieri (di cui spesso non c’importa un fico secco) con tutti gli strumenti della retorica (altro che stilistica!). In questo senso la poesia attuale è una via di mezzo fra il pensare filosofico e il cascame dei rituali apotropaici: ha un ruolo pericolosamente ancillare rispetto all’uno e all’altro. “Il citofono chiede ancora la tua voce” non dice nulla di più che “vorrei sentire ancora la tua voce al citofono”. Embè? C’era bisogno di metterlo in versi? Allora davvero le scorciatoie “tecniche” servono soltanto ad addormentare il lettore e a sottometterlo.

Per altro verso la fortiniana poesia sostanziale ripropone la priorità della poetica rispetto alla poesia (il critico prima del poeta! E’ avvenuto spesso, e il risultato è rimasto puntualmente sepolto nei repertori o nei manuali della storia della critica). Non solo: di quel verso di De Angelis forse Fortini accoglierebbe appena la versione scheletrica, l’ossatura della lingua. Questo ci ha portato inevitabilmente entro il vicolo cieco del minimalismo, che tu irridi e paventi. L’indicazione fortiniana rende la poesia un affluente del grande corso della dialettica storicistica, fino all’estuario.

Eppure il Novecento non è morto. Forse non siamo riusciti a capire fino in fondo, per esempio, la lezione palazzeschiana dei Cavalli bianchi dove la parola è oggettivante e ogni sillogismo è stato delegato ad altri. Questo signore è stato così modesto da occultare nel pandemonio del futurismo quanto di fecondo e salutare rimaneva in patrimonio (ti ho anche detto come la penso, a proposito di Mele rosse). Ci sarà modo di riprendere il percorso rimasto interrotto? Ogni volta che il critico ha indicato una direzione e gli scrittori di poesia l’hanno seguita pedissequamente, la voce si è strozzata in gola. Perché allora non rileggiamo la grande poesia de Novecento (e non solo) e proviamo a farne – davvero e non frettolosamente – il punto; a rivelarne le lucentezze che ancora propagano riflessi e barbagli? Dobbiamo continuare a sostenere i borborigmi del parassitismo professorale che impiega a vanvera il tempo (e il potere) nelle università? E lasciamo a certi sacerdoti paludati la celebrazione funeralizia della morta poesia, ma che ci lascino però in pace! I “critici” dovrebbero abbandonare un po’ della loro protervia quando propongono alternative.  Io penso che spetta a loro soprattutto ripulire lo stagno con la voracità dei piranha. Sono un antimoderno?

Roma, 21 febbraio 2011

Luigi Manzi

Giorgio Linguaglossa
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175 Comments

  • Caro Luigi Bosco, credevo che la discussione si sarebbe interrotta con il suo ultimo e saggio proposito del 25 settembre. Invece vedo un ennesimo intervento della Signora Canciani, con gli stessi toni di sempre: toni da cui lei, Luigi Bosco, aveva preso le distanze. Questo metterà in atto altri interventi a difesa di De Angelis e così via all’infinito, riducendo tutto a uno sterile contrasto, proprio quello che si voleva evitare. Perché sottoporre al pubblico una ripetizione tanto stucchevole? In questo modo si finisce per paralizzare l’intelligenza critica e per ridurre tutto a un tentativo di avere l’ultima parola. Non le pare?

    Nicola Borletti

    P.S. Mi chiedo se Milo De Angelis – verso cui sono stati usati, a volte, toni molto aggressivi – è stato messo al corrente di tutto questo. Ha avuto la possibilità di difendersi?

    • Caro Nicola (e tutti),
      purtroppo il lavoro mi occupa gran parte della giornata (a differenza, mi pare, di qualcuno) e dunque non ho avuto modo di rimediare prima.
      Purtroppo, a quanto pare, è inutile cercare di essere ragionevoli con chi ragionevole non è o non vuole esserelo. Mi vedo costretto, dunque, per la prima volta dopo due anni, a chiudere i commenti ad un post che, è evidente, non ha più nulla da offrire – non certo per lo spunto critico di partenza, pur con tutti i suoi difetti.
      Ci tengo a sottolineare che più che per il “pubblico”, non mi sembra opportuno pagare l’affitto di un server per ospitare delle stronzate di tale portata.
      Ci tengo altresí a ribadire che chi parla di poesia dovrebbe, si suppone, avere una maggiore sensibilità o quantomeno attenzione alla forma. Cosa che invece non mi pare di osservare.
      L’intelligenza critica scarseggia – e non solo qui e in questo caso. È un vero peccato. Continuiamo a perdere continuamente le poche buone occasioni che la vita ci riserva per restare umani. Pazienza
      Rispetto a Milo De Angelis, credo che la voce gli sia giunta. Sinceramente, se io fossi Milo De Angelis non ci terrei ad intervenire, per due ragioni: perché il livello del dibattito non lo merita; perché riterrei che le mie poesie parlino per sé (e per me) e se c’è qualcuno a cui non piacciono, il mondo è pieno di poeti (con una particolare concetrazione nello stivale). Detto ciò, se mai Milo De Angelis volesse intervenire dicendo la sua circa le critiche mossegli (non certo con riguardo al dibattito scaturito da tali critiche), ovviamente sarebbe il benvenuto e la sua replica (o quella di qualunque altro che sotto i capelli non ha degli altri capelli) riceverebbe lo spazio e la visibilità che si concede a qualunque intervento su questo sito.

      Alla poetessa – anzi no, Poetessa con la maiuscola, visto che il suo atteggiamento lascia trasparire un per nulla velato sentimento di verità che sembra possederla – alla Poetessa Laura Canciani dico solo che l’insulto è materia di codice penale anche per lei, che mi pare abbia dato dell’imbecille un po’ a tutti quelli che sono intervenuti in questo dibattito.
      Non sono solito mettere in dubbio l’intelligenza di chi si trova ad interagire con me; nel suo caso però mi consenta perlomeno di mettere in dubbio la sua onestà intellettuale e la ponderatezza delle sue propensioni rispetto ai pareri espressi.

      Detto ciò, la festa finisce qui. Speriamo in una prossima e più proficua occasione.

      Luigi B.

  • a Maria Mattei
    che mi definisce “un’emerita imbecille”, faccio notare che l’insulto è materia di codice penale… se insiste su questa falsariga sarò costretta ad investire della questione il mio avvocato; a questa signora non ritengo di rispondere visto il livello al quale lei è abituata.

    per gli altri “tifosi” della poesia di De Angelis mi limito a far loro presente che se quella poesia è riscrivibile, modificabile e replicabile, clonabile, ciò non avviene perché io sia particolarmente malvagia o abbia preso in antipatia quella poesia o quel poeta come alcuni vogliono fare apparire o vogliano dare a intendere. Ci sono poesie di altri poeti, anche contemporanei, che non si prestano ad essere riscritte (con variazioni) o clonate o modificate con varianti. E allora, voi mi chiederete: come si spiega il fenomeno? Come si spiega che la poesia di De Angelis è falsificabile, smontabile (come i pezzi di un meccano) e rimontabile con le parti invertite? Come si spiega tutto ciò?

    Proviamo a riscrivere con variazioni una poesia di Giorgia Stecher o di Helle Busacca, o di Giuseppe Conte! Vedrete che non ci riuscirete; semplicemente, è impossibile, perché lì ogni parola ha un suo posto fisso all’interno della struttura dei versi, che non può essere mutato a piacimento.

    Provate a modificare il posto dei sostantivi o degli aggettivi in una poesia di Eliot o di Baudelaire! Semplicemente non è possibile.

    Questo è, credo, un problema reale che ritengo debba essere messo a fuoco e compreso a fondo nelle sue implicazioni di ordine estetico e filosofico.
    Se poi i tifosi della poesia di De Angelis non riescono a vedere il problema, questo è da ascrivere a una loro impreparazione culturale di base… essi respingono il problema al mittente, anzi, demonizzano chi osa mettere il dito sulla piaga, ovvero, sul problema; lo demonizzano e lo insultano. ma il problema resta, sta lì, grande ed evidente come ha indicato un critico non di parte come Giorgio Linguaglossa.

  • oh, regaz, che due coglioni…
    continuiamo a comportarci come in un asilo e chiudo i commenti (cosa che non ho mai fatto e non vorrei fare)

    Luigi B.

  • Ho trovato un capolavoro della signora Canciani, “poetessa di consumata perizia”, come scrive il celebre Linguaglossa. Qui non c’è bisogno di parodia.

    “La soglia sottratta
    genera
    omissioni ostruenti:
    è la sosta putativa che
    muove all’ alleanza inclinata
    negli spazi
    -aguzza posizione d’ esordio”.

    Laura Canciani

  • Francisci, il tuo commento è posteriore al mio, dove dicevo che non si sarebbero accettate altre stronzate ché le anteriori sono sufficienti. Se c’è una parte specifica di ciò che ho scritto dove non mi sono spiegato bene, me la si indichi che faccio un disegno.
    Adesso non cominciamo a fare battibecchi su chi cancella cosa perché non ho voglia e perché anche se non sembra sto lavorando, io, in ufficio e, anche se non sembra, mi piacerebbe investire il mio tempo in cose più edificanti.

    Luigi B. (che è Luigi Bosco, non “signori della Redazione”)

  • Scusate, signori della Radiazione, ma se cancellate me, Elena Francisci, ingenua fanciulla fiorentina , cancellate anche la Canciani e i suoi ripetuti, innumerevoli veleni!

  • E’ vero! Ve l’avevo detto! La Ciancia è sempre stata una macchietta!

    Elena

  • È grottesca la ilarità che mi provoca vedere individui con la sensibilità di una pietra pomice dibattere su e di poesia – a no, pardón, Poesia, con la maiuscola.
    Torno a dire che, indipendentemente da ciò che uno può pensare dei versi di De Angelis (ed io l’ho detto), continuare un dibattito il cui raggio andrebbe molto più in là del singolo poeta in questi termini è una vera tortura metafisica (per non dire rottura di coglioni).
    Ripicche, insulti e battibecchi; botte e risposte a difesa o contro una persona che ha scritto dei versi (belli o brutti importa una cippa) o scambi poco ortodossi (per usare un eufemismo) tra persone che dibattono si suppone di poesia rappresentano lo stato delle cose, ma non in Poesia. No, no, lo stato del livello di incivilimento piuttosto basso a cui siamo destinati.
    Certo, è giunto il momento di dire le cose in modo chiaro e netto. Il problema è che le cose da dire sarebbero altre.
    Posso non apprezzare i versi di un poeta; però non mi spingerei mai a credere di poter risolvere qualcosa continuando ad insistere pedissequamente, insidiosamente e pedantemente come se ciò potesse risollevare le sorti della poesia o della società.
    Perdio, le cose da dire sono altre perché a nessuno frega un cazzo di De Angelis in quanto De Angelis poeta, forse nemmeno a De Angelis stesso.
    Ora, se le altre cose da dire non le sappiamo dire, dovremmo tacere. Il problema, però, è che parlare (e scrivere) è gratis.
    A questo punto, se c’è qualcuno che ha voglia di dire qualcosa in merito ai presupposti teorici a fondamento delle tesi di Linguaglossa (che ha mosso una critica a De Angelis, ma il poeta potrebbe essere un altro senza che ciò cambi le cose) lo può fare inviando un intervento alla mail di redazione. Altri commenti del cazzo saranno cancellati (ma non eliminati) dal post. Siamo tutti invitati ad evitare di girare intorno al nulla se non siamo capaci di affrontare il nucleo della questione. Allo stesso modo, siamo tutti invitati a contenere le spinte agli insulti – che pure sono gratis, ma possono costar cari.
    Luigi B.

  • Laura Canciani si diverte a parodiare i versi dei poeti. A me sembra una cosa volgare. Altri ll’hanno definita una boccia di veleno oppure un’innamorata respinta di Milo De Angelis. Non lo escludo. Ma a me sembra, soprattutto, una povera frustrata che, al riparo di un computer, si aggrappa al poeta famoso per sopravvivere. Di ogni poesia si può fare una barzelletta. Di ogni poeta si può fare uno zimbello. Anche i versi più sublimi possono diventare ridicoli. Troppo facile. I versi dei grandi poeti sono grandiosi e vulnerabil. E la parodia è la cosa più schifosa che ci sia.

    Roberto R.

  • @Cianciani

    Rompo il silenzio per pura indignazione e visti i toni pervicacemente insultanti con tutti e con tutto, mi adatterò alle sue modalità, per farla contenta e darle la possibilità di proseguire questa sporca campagna di propaganda per il suo cavallo di razza, dicendole con parole lente e scandite ( forse le saranno comprensibili non trattandosi di una metafora con cui, da quel che vedo, non ha alcuna dimestichezza): lei è un’ emerita imbecille. Stia certa che la Poesia se ne guarderà bene anche dal solo accostarla. Forse per questo il suo mondo è così buio e incattivito.

  • @ Mauro Belli

    se mi permette le riscrivo quei versi di De Angelis appena riformulati dalla scrivente.

    “In noi giungerà quel silenzio frontale
    l’universo, dove eravamo
    già stati”

    come vedrà, non cambia granché la “bellezza” (a suo parere) dei versi… che mi sembrano come nel gioco del puzzle dove le tessere del mosaico sono spostabili a piacimento.

    @ Teo

    faccio umilmente osservare al signor Teo che i versi di De Angelis: “Di sera ti sanguina la bocca” (e altri centinaia di versi sparsi qua e là nelle varie raccolte)sono palesemente assordanti, sovra dimensionati ed esagerati; è esagerato quel fatto di sanguinare dalla bocca che vuole colpire il lettore (sprovveduto) con quel fiotto di sangue ridicolo che cola dalla bocca, che intende stordire il lettore (illetterato) con quella esagerazione incongrua e abnorme… e se Lei non riesce ad avvertire il tinnire di cucchiai e di forchette, l’afrore di polpette e di uova sode che promana da questa poesia, è un fatto che pertiene alla limitata capacità del suo gusto di secernere i versi ridicoli dai versi buoni… questa sua deficienza nella capacità di giudizio inoltre le fa prendere dei granchi, attiene alla sua non elevata conoscenza della migliore poesia europea… o forse, molto più semplicemente, con questa sua celebrativa celebrazione dei versi risibili di De Angelis vuole accaparrarsi qualche benignità dell’autore…
    ma certo non potete chiedere ad un critico raffinato e colto come Giorgio Linguaglossa di avallare certe locuzioni poetiche che definire cervellotiche sarebbe davvero riduttivo, credo più esatto definire certi versi di De Angelis risibili e goffi.
    Credo che sia venuto il momento di dire certe cose in modo chiaro e netto.

  • Questi sono i versi che preferisco di Milo De Angelis, tratti da “Millimetri”. Sono versi che non riesco a dimenticare

    “In noi giungerà l’universo,
    quel silenzio frontale dove eravamo
    già stati”

  • Stimolante, come sempre, la lettura che nel suo blog “guardareleggere” Daniele Barbieri ha fatto di una poesia “minore” di Milo De Angelis, “Donatella”. Non so se questa davvero sia una poesia minore, ma certamente è una poesia anomala nella produzione del poeta milanese, una delle sue poche poesie narrative, tutte raccolte in “Biografia sommaria” e indubbiamente prive di quella forza oscura e verticale, di quella velocità di accostamenti tipica di De Angelis. Io la ritengo comunque una poesia significativa, un archivio di temi cari al poeta: la giovinezza troncata, il gesto atletico, lo sfondo milanese. E se devo trovare un riferimento culturale per questi versi, più che al melodramma penso alla fiaba. Una fiaba metropolitana e contemporanea, con elementi meticci e contaminati, ma pur sempre una fiaba. La protagonista, Donatella, sembra una principessa della pista, un’atleta formidabile che “sfolgora agli ottanta metri, quasi al filo”. Ma a questa principessa è stato fatto un “maleficio”. E così la troviamo rannicchiata nella pedana del lancio del martello, quasi in trance, creatura triste che “con una mano disfa ciò che ha fatto l’altra mano”. Nessuno sa cosa le è successo. Nemmeno il custode dello stadio, che azzarda varie ipotesi, ma non riesce a trovare il vero motivo. Una malattia dell’anima, forse, che “le è entrata nella gola insieme al cielo”. Oppure ragioni più concrete, il posto perduto all’Oviesse, una malattia. Non si sa. Si sa soltanto che a un certo punto Donatella “ha deciso di ospitare tutto il gelo”. Ma ecco che entra in scena la fiaba. Il custode chiede al suo interlocutore e a tutti i presenti di “baciarla”, l’unico gesto magico che potrà spezzare il sortilegio. E più precisamente di baciare le ginocchia, la “miracolosa forza delle ginocchia” che tante volte hanno trionfato nelle gare. Così la bella addormentata potrà tornare a correre e a spezzare il filo come una volta, come una moderna Atalanta immersa nelle nebbie milanesi. E forse, concludo, è proprio l’elemento fiabesco a consentire certe rime consuete (“cielo/gelo”, “frutto/tutto”, “bella/stella, Donatella”) quasi a collocare la scena in un ritmo antico e rituale, nel luogo certo di una tradizione.

    Nicola Borletti

    P.S. Dicono che De Angelis si sia ispirato alla bella velocista bolognese Donata Govoni, campionessa degli anni sessanta, ragazza talentuosa ma anche irregolare, insofferente agli allenamenti, dalla carriera piena di alti e bassi. Come psicanalista – devo ammettere – sono molto interessato alla figura della Govoni e al suo drammatico rapporto con il padre, che non la voleva in pista e non andò mai a vederla gareggiare.

  • Pingback: Di una poesia minore di Milo De Angelis, e del suo perché « Guardare e leggere
  • Ottimo lavoro, quello che avete fatto pubblicando le recensioni a Milo De Angelis, spesso introvabili. Davvero un lavoro eccellente: mi complimento con la Redazione di Poesia 2.0. Peccato però che manchino le ultime tre (Cortellessa, Berardinelli, Linguaglossa) a mio parere importanti. Potremo leggere anche quelle? Grazie!

    Roberto Russo

  • Riporto lo scritto di Daniele Barbieri (guardareleggere) con i relativi commenti

    Daniele Barbieri Della critica prescrittiva

    5 settembre 2012 | Tags: critica, estetica, fumetto, Milo De Angelis, poesia | Category: estetica, fumetto, poesia | 4 commenti

    Visto che mi occupo di ambedue le cose, il fatto mi salta inevitabilmente all’occhio. E il fatto non è che tra l’universo della critica poetica e quello della critica fumettistica ci siano, come è ovvio, numerose differenze. Semmai è che in mezzo a queste ce ne sia una meno ovvia delle altre, su cui vale la pena di indagare.
    Non è difficile osservare che nell’universo della critica poetica è frequente un genere di critica che potremmo denominare prescrittiva, che è invece del tutto assente nella critica del fumetto. Non si tratta solo che chi scrive esprima più o meno esplicitamente delle preferenze personali: anche il critico dei fumetti è inevitabilmente schierato (chi con maggiore, chi con minore virulenza) nei confronti di un genere o di alcuni autori. Non esiste la critica oggettiva: il critico parla di ciò che conosce, giustamente; e conosce quello che gli interessa, giustamente. Persino se nutre ambizioni di esperto complessivo, o magari di storico, è naturale che finisca per propendere in qualche direzione, pur cercando di tenersi aggiornato a tutto campo.
    Tuttavia nessun critico di fumetti, per quanto schierato, si sognerà mai di dichiarare che il fumetto vero si fa in un certo modo e non in altri; e che tutto il resto è inautentico, inattuale, sorpassato e, in ultima istanza, falso o mistificante. In altre parole, a nessun critico di fumetti è mai venuto in mente di scrivere in termini prescrittivi, dichiarando quale sia il modo giusto, corretto ed esclusivo di fare fumetti; oppure (versione appena più blanda della precedente) quali siano i modi sbagliati, scorretti e da abbandonare, indipendentemente dalla qualità degli autori e delle loro opere.
    Sarà perché la critica del fumetto è giovane, o sarà perché quasi mai i critici sono anche gli autori stessi, o perché la posta culturale in gioco appare meno impegnativa. La critica poetica ha una lunga storia; molti critici sono anche autori, che si sentono in dovere di sostenere teoricamente le proprie scelte di poetica; la posta in gioco si presenta come altissima, perché, anche se i lettori di poesia in Italia sono molti meno dei lettori di fumetti, ancora, per chi se ne occupa, “quel che resta lo fondano i poeti”, come ebbe a dire Hölderlin una ventina di decenni fa.
    O sarà anche perché, data la sua giovane età, il fumetto vive un’epoca felice in cui tra le produzioni più popolari e quelle più di elite esiste una continuità di produzioni intermedie e uno scambio continuo; e se pur qualche volta è chiaro cosa sia popolare e cosa sia di elite, in altri casi è, felicemente, impossibile (e inutile) distinguere davvero. La poesia (e quella italiana in particolare) ha tagliato i ponti da secoli con la sua versione popolare, al punto di escluderla dal campo stesso che la definisce, lasciandoci persino il dubbio rispetto a che cosa, oggi, potrebbe essere definita come tale: la canzone, forse? Basta leggere i dibattiti in rete al proposito (ad esempio qui) per capire quanto problematicamente sia vissuta questa ipotesi.
    La critica prescrittiva non è ovviamente sempre così becera da dire esplicitamente “si fa così” o “così non si può fare”, ma non è, in ogni caso, affatto difficile ritrovare nel suo discorso queste morali. A titolo di esempio, uno per tutti, si può citare intervento e dibattito (specialmente il dibattito) tenuto in questa sede a proposito della poesia di Milo De Angelis. Nel dibattito vi sono anche numerosi interventi interessanti, e una lodevolissima documentazione su interventi critici di difficile riperimento, riportati interamente o in parte, pro o contro De Angelis (cui è seguita nel medesimo sito/blog poesia2punto0, nei giorni successivi, la pubblicazione di altri interventi critici su De Angelis, e sul post in oggetto, e altre polemiche ancora altrove); mi vi è anche un’interminabile serie di interventi volti a dimostrare (quasi more matematico) che la poesia di De Angelis è sbagliata, e che così non si fa, sino ad affermare testualmente (Laura Canciani): “NO, la poesia deangelisiana non può essere affatto utile all’obiettivo da conseguire, integralmente tardo novecentesca nella sua impostazione di fondo e nella sua costituzione, non ci può dire nulla di nuovo di ciò che sapevamo già”.
    Parlare in questi termini (tutto sommato piuttosto frequenti nella critica poetica) vuol dire condannare De Angelis non tanto per la qualità della sua poesia, quanto perché le prescrizioni che da essa sarebbero ricavabili non sono utili all’obiettivo da conseguire, anzi controproducenti. L’intervento è rivelatorio proprio a causa della sua rozzezza, perché esplicita quello che critici più raffinati stanno attenti a non esplicitare, o danno per scontato: cioè che ci siano degli obiettivi da conseguire, e che tali obiettivi siano sufficientemente chiari.
    Ora, è evidente che una critica prescrittiva si giustifica soltanto se ci sono degli obiettivi chiari e condivisi da conseguire. Quali sono questi obiettivi? E, per quanto riguarda il fumetto, tali obiettivi non esistono, oppure esistono ma la critica preferisce ignorarli, o non scontrarsi sul loro campo?
    Cerchiamo di far qualche luce sulla prima delle due questioni, lasciando la seconda a una riflessione futura. Quali possono essere gli obiettivi della poesia, così chiari e condivisi da poter pensare di dimostrare che la poesia di De Angelis non è adatta a dare indicazioni per conseguirli? Suppongo che siano qualcosa come: testimoniare il proprio tempo, esprimere la condizione umana nel presente (nella fattispecie nell’epoca dell’abbrutimento e dell’alienazione tardo-capitalista). Qualcosa di questo genere salta fuori in generale sempre quando si cerca di capire a cosa serva la poesia.
    Sono asserzioni generiche, anche la seconda (pur se meno della prima). Da sole non giustificherebbero né potrebbero sostenere alcun livello di critica prescrittiva. È perciò necessario che il critico, che egli lo espliciti o meno, abbia opinioni molto più dettagliate di queste. Nel post citato, per esempio, l’autore Giorgio Linguaglossa cerca di esplicitarle almeno in parte in uno dei commenti, come spiegazione a posteriori delle ragioni del suo attacco a De Angelis.
    Quello che mi colpisce, di queste esplicitazioni, o di quello che si può intuire di implicito ogni volta che la critica assume colorazioni prescrittive, è che il critico mostra di avere un’idea molto chiara di quello che è il nostro tempo, di quale sia il suo problema, e di conseguenza di come la poesia dovrebbe fare per esprimerlo. Personalmente, in questi casi, sono sempre incerto tra l’essere ammirato e l’essere imbarazzato: ammirato perché piacerebbe tanto anche a me possedere certezze del medesimo livello; imbarazzato perché ho la sensazione netta di vedere quello che il critico in questione non vede, ovvero i limiti abissali delle sue certezze.
    Giusto per fare un esempio. È un luogo comune della critica poetica che noi si viva in una società alienata e inautentica, e che la poesia che non esprima questo sia per forza necessariamente inautentica (anche di questo si accusa, per esempio, De Angelis, in molti dei commenti di cui sopra). La neoavanguardia italiana, come tanta arte cresciuta sulle teorizzazioni di Adorno, vive integralmente su questo presupposto; e vi continuano a vivere tanti suoi epigoni.
    Ora, non si tratta di negare che esista l’alienazione e l’inautenticità, perché basta accendere il televisore per accorgersene; o nemmeno di negare l’importanza sociale di questa condizione disumanante. Ma sostenere che la poesia debba necessariamente confrontarsi con questa condizione, e tacciare di inautenticità la poesia che parla d’altro, significa pensare che, poiché il centro è importante, le periferie non esistono. È probabile che nel nostro tempo l’autenticità (qualunque cosa si voglia intendere con questa brutta e oscura e intollerante parola) sia relegata davvero nella periferia dell’esperienza: ma per quale ragione la poesia non dovrebbe convivere ed esprimere questa periferia?
    Si dice anche che l’inautenticità abbia pervaso tutto, e che non siamo in grado di provare nessun sentimento autentico. Mi piacerebbe però sapere se ci sia qualcuno in grado davvero di riconoscere un sentimento autentico da uno che non lo è. Ma se non siamo in grado di operare questo riconoscimento, come possiamo permetterci di dire che l’autenticità è stata scacciata, e che la poesia, dopo Auschwitz, non può che esprimere quel male? Come potrà permettersi di parlare di autenticità chi non sia in grado di riconoscerla? Non sarà, l’autenticità, proprio quel mito oscuro e impossibile, che è utile perché ci permette di dire che il nostro mondo non è così, e che bisogna operare, di conseguenza, in un determinato modo, per recuperarne almeno l’espressione (l’espressione autentica di un mondo inautentico!)?
    In alternativa, il mito oscuro potrà trovarsi anche nel politico, anzi in una precisa concezione del politico. Poiché De Angelis, in generale, parla d’altro, De Angelis allora non ci servirà. Ammesso e non concesso che il centro del nostro tempo sia correttamente identificato in questo modo, anche in questo caso, che diritto avrebbe il centro di escludere le sue periferie dall’esercizio poetico? Mi importa assai poco, in verità, di decidere quale sia il centro. Personalmente, poiché apprezzo De Angelis, ritengo che un qualche centro le sue poesie lo colgano. E poiché apprezzo Fortini, ritengo che un qualche altro centro sia colto pure da lui. E continuo a non capire perché se l’uno è giusto l’altro debba essere sbagliato.
    Ho già difeso De Angelis altrove (qui e qui, per esempio), e non è per difendere la sua poesia che ho scritto queste righe. Il punto è che trovo qualcosa di insopportabile nel sentirmi dire che cosa sia giusto fare, senza che vengano esplicitati gli obiettivi di questo fare (e quindi senza discuterne). Con i miei versi (come con quelli di chiunque altro) io mi auguro che i lettori possano trovarsi in sintonia, e quindi giudicarli belli; mentre magari, al contrario, non riusciranno a trovare nessuna sintonia, e li riterranno brutti. I miei versi, come quelli di chiunque altro, sono belli, oppure sono brutti; ma non sono giusti o sbagliati. Quello che potrà essere giusto o sbagliato sarà un intervento critico, non un’operazione artistica – e parlare di un’operazione artistica in termini di giusto o sbagliato è perciò parlarne come se si trattasse di un intervento critico.
    La critica del fumetto, pur nella sua pochezza (quantitativa), mi sembra che resti ancora estranea a questo fraintendimento. Per quanto mi riguarda continuerò a fare il critico di fumetti anche di fronte alla poesia. Non mi piace rendermi ridicolo.

    4 commenti a Della critica prescrittiva

    • sergio pasquandrea
    5 settembre 2012 at 09:56 • Rispondi
    Intervento come al solito denso e intelligente, con cui sono d’accordo e che spiega bene anche il perché io mi sia sempre tenuto lontano dalla critica letteraria (pur essendomi laureato in filologia moderna con una tesi di critica letteraria, ho rinunciato a proseguire quella strada con dottorati et similia, e ho preso, come ben sai, altre strade).
    Aggiungerei solo due cose.
    La prima, che la critica prescrittiva di cui parli presuppone sempre un mito, quello del progresso, del nuovo a tutti i costi, che con il passare del tempo tendo sempre più a riconoscere nella sua vacuità. Non che la poesia non debba dire “qualcosa di nuovo”, per carità, ma mi sembra che i termini del nuovo si valutino spesso nella maniera sbagliata. Siamo sicuri che basti inventare un modo d’espressione nuovo per dire cose nuove? E se invece – come in molte esperienze contemporanee – quel modo d’espressione rischia di rimanere un contenitore vuoto, o almeno sovradimensionato rispetto ai suoi contenuti?
    E’ una domanda, non un’affermazione…
    La seconda cosa – che poi è più una malignità – è che forse è proprio la marginalità della poesia contemporanea, in Italia perlomeno (e che la poesia sia marginale non c’è nemmeno bisogno di dimostrarlo), a istigare questo tipo di litigiosità. Più l’orticello è piccolo, più i guardiani tenderanno ad accapigliarsi per conquistarne un pezzettino.

    • sergio pasquandrea

    5 settembre 2012 at 11:20 • Rispondi
    P.S.: ho letto la discussione su De Angelis in Poesia2.0.
    Ho trovato deliziosamente esilaranti gli interventi di Laura Canciani, con quell’anaforico “come non…” (“come non notare che…”, “come non accorgersi che…”, “come non ammmettere che…”), quasi che le sue osservazioni – oltretutto, di una banalità sconfortante – fossero non opinioni, ma fatti, netti e indiscutibili.
    Cito un solo esempio, fra i tanti:
    “La composizione inizia cosi “Di sera ti sanguina la bocca”; come non notare che questo incipit e sopra le righe? A nessuno sanguina la bocca se non per una malattia tipo gengivite o una patologia ben piu grave come un cancro, e allora, questo primo verso e manifestamente fuorviante, sopra le righe, quindi falso. Ma voi direte: ma e la liberta del poeta che qui ha luogo! E io rispondo: miei cari lettori il poeta non ha alcun diritto di accentuare i toni fino all assurdo (che la letteratura dell assurdo e un altra cosa!), il poeta non ha diritto di inventare delle situazioni manifestamente sanguinarie per ipnotizzare e abbindolare il lettore improvvido.”
    Ora, a parte la presupposizione che De Angelis voglia “abbindolare il lettore”, tu prova ad applicare questa logica a un qualunque verso di una qualunque poesia, e avrai un micidiale grimaldello capace di stroncare qualunque poeta di qualunque letteratura.
    Comodo, no?

    guardareleggere
    5 settembre 2012 at 12:18 • Rispondi
    @ Sergio
    Sulla prima osservazione sono d’accordo. Anzi, credo che fosse in qualche modo sottinteso o implicato in quello che dicevo. E anche la malignità che segue (pur se indimostrabile) ha l’aria di essere vera.
    Quanto alla Cacianti, avevo goduto anch’io della perla che hai citato. Ma mi sembrava impietoso infierire. Per fortuna c’è di meglio, anche in mezzo alla critica prescrittiva.

  • gent.le Redazione

    l’impeccabile analisi di Giorgio Linguaglossa della poesia di “Biografia sommaria” di De Angelis coglie con acume gli snodi fondamentali di questa poesia, e ne indica anche i nodi, le congiunture, le crisi interne… quella deriva verso la «narratività» e la difficoltà di fuoriuscire dalle «esperienze del post-sperimentalismo e all’esaurimento delle poetiche che si ricongiungono al minimalismo lombardo», sono accenni quanto mai espliciti alle difficoltà della scrittura poetica deangelisiana a trovare degli sbocchi indipendenti dalle catene del minimalismo e del post-sperimentalismo. E ciò è detto dal critico romano con grande rigore e onestà intellettuale.

    Dopo “Biografia sommaria”, ma io direi dopo “Millimetri”, De ngelis ha smarrito la chiave della evoluzione della sua scrittura poetica, ha perduto il filo di Arianna e si è lasciato tentare dalle sirene di una scrittura facile, scontata prevedibile.

    Detto questo, è indubbio che la successiva poesia dell’autore milanese si sia isterilita in un eccesso di tecnica compositiva, si sia «standardizzata» in un particolare genere di scrittura creativa che elegge la composizione perifrastica e l’asintattismo a binari centrali del suo modo di procedere, talché, come in un gioco di enigmistica, cambiando l’ordine delle parole all’interno delle frasi non cambia granché il registro di quella scrittura. La tecnica è diventata una professione; la sostituibilità delle parole è diventata una religione, la professione poetica è diventata una religione e la religione una professione.

    Da qui discende quella particolare attitudine della poesia di de Angelis a raggirare il lettore (ormai abituato telepaticamente alla sua tecnica di scrittura) con tutta una serie di effrazioni sentimentali e emotive che contraddistinguono la poesia di maniera (per non dire epigonica). Ecco perché De Angelis ha dei partigiani della fede, dei tifosi che si riconoscono in quella determinata religione. Paradossalmente de Angelis è diventato epigono di se stesso. Il successo della sua scrittura lo ha accecato, gli ha tirato un brutto colpo. Nessuno nega all’autore milanese la sua abilità di scrittura poetica, quello che alcuni critici gli rimproverano è che la sua scrittura è diventata professionale, standardizzata, prevedibile.
    E il fatto che un tale argomento sia applicabile anche ad altri poeti contemporanei, come dice giustamente Luigi Bosco della redazione, nulla toglie al mio discorso critico, tantomeno ne dimidia l’importanza, anzi lo rende ancor più significativo.
    Eppoi, sia ben chiaro una volta per tutte che il mio discorso critico non ha nulla di personale ma è un discorso generale sul merito delle questioni.

  • PARTES ORATIONIS ovvero “Di alcune bizzarre categorie critiche”.

    poesia aggettivale o sostantivale?

    perché non darsi alla poesia avverbiale, interiettiva, preposizionale…?

  • Ecco, finalmente, lo scritto di Linguaglossa su Milo De Angelis. Mi sembra utile proporlo per i suoi spunti originali e per l’importanza – una vera e propria “svolta” – che il critico romano attribuisce a “Biografia sommaria”, il quinto e inatteso libro di De Angelis, uscito nel 1999, dopo dieci anni di silenzio. A maggior ragione è d’obbligo proporlo in questo dibattito, che è partito proprio da una riflessione di Linguaglossa sull’opera di Milo De Angelis.

    MILO DE ANGELIS E LA POESIA COME DESTINO

    Credo che il titolo di questa nuova raccolta di Milo De Angelis, “Biografia sommaria”, sia sostanzialmente allusivo, e quindi fuorviante se ci si aspetta una sorta di “vera” biografia. Del resto, come insegna Pessoa, la biografia di un poeta è sempre fuorviante. C’è una ripugnanza da parte dei poeti a scrivere biografie “fedeli”. si tratterebbe, in tali casi, di “trascrizioni” e null’altro, ma un poeta come Milo De Angelis è troppo sapiente e sibillino per consegnarci una “biografia” tradizionale. Che poi, da un altro punto di vista, tutta la sua produzione fina da “Somiglianze” (1976), “Millimetri” (1983) e “Distante un padre” (1989) non è altro che una vera biografia traslata, molto mentale, direi quasi generazionale per quella sorta di disperazione esistenziale che contraddistingue la sua poesia. In fondo, De Angelis prosciuga il minimalismo milanese;voglio dire che dopo di lui non si può più scrivere alla maniera di, per esempio, Giovanni Giudici, Luciano Erba ed altri minori; ma non si può più scrivere neanche alla maniera dei decostruzionisti del post-sperimentalismo milanese o dei “milanesizzati” (alla Jolanda Insana, per intenderci): L’operazione culturale di De Angelis è abile e strategicamente ben piantata: annulla i due poli della precedente mappa poetica sconvolgendone la cartografia.

    Questo sul piano “strategico”. Sul piano compositivo il poeta milanese introduce delle formidabili accelerazioni (iperboli ed ellissi sono frequentissime nel suo dettato poetico, ma ancora più frequenti sono gli anacoluti, anzi tutta la costruzione poetica si regge su un montaggio di anacoluti) seguite da brusche frenate di senso, da autentici stop and go, costruzioni di antitesi, parallelismi sghembi. sarebbe interessante andare a verificare tutta la verticalità della costruzione sintattica del primo De Angelis, ma questo esula dal compito dell’estensore di queste notazioni; quel che è indubbio è il dinamismo “interno” della composizione, la “sghemba” spazio-temporalità del dettato poetico, l’aura allucinata e straniante che proviene dalle pagine deangelisiane. Se Milo De Angelis è un poeta che ha trovato udienza e ha fatto “scuola”, c’è da rammaricarsi che abbia un seguito ancora troppo di superficie e di accademia. Perché è bene dire subito che i “millimetri” di De Angelis non equivalgono ai “millimetri” del minimalismo contemporaneo, così come l’attenzione parossistica al dettaglio del poeta milanese non coincide con l’attenzione parassitaria per il dettaglio che hanno i minimalisti.

    Esaminiamo un testo:

    Milano lì davanti, lì davanti
    come un’idea a perpendicolo
    o uno sbocco di sangue
    nel centimetro più lungo tra le tempie
    guardiamo i pianeti della fortuna,
    le scatolette che ci danno un confine
    finché una strada ci conduce
    nel colloquio straniero
    mendicanti di hotel
    con l’idea e lo scisma nell’idea.

    E’ la poesia che apre la sezione “L’oceano intorno a Milano”, ma è chiaro che non si tratta di una carta geografica realistica, quanto piuttosto di una geografia simbolica. Innanzitutto “lì davanti lì davanti” ripetuto due volte si pone come un ostacolo alla penetrazione del lettore (si noti l’assenza di qualsivoglia notazione ulteriore). Milano è un nome che si erge come un muro già dalla prima parola della prima pagina; e poi “un’idea a perpendicolo” ci introduce immediatamente un’accelerazione semantica e ideativa di rara efficacia: il lettore passa dal “muro” del primo verso alla “caduta a perpendicolo” del secondo; il terzo verso riassume e condensa una situazione di vita con una notazione icastica (“uno sbocco di sangue”) per passare, nel quarto verso, a quell’assurdo logico e semantico di “nel centimetro più lungo tra le tempie”, che introduce un “raccourci”, un’abbreviazione repentina, a fisarmonica, dello spazio cubitale della composizione. e che si tratti di spazio cubitale è confermato da quelle “scatolette che ci danno un confine” del sesto verso, che segue la stramba notazione di oroscopologia “i pianeti della fortuna”. Ma il punto forte della poesia è il verso finale, davvero brillante e azzeccato nell’operare una “fenditura” nel cubogramma della composizione: “con l’idea e lo scisma nell’idea”.

    Ora possiamo dirlo a chiare lettere: poesia della scissione simbolica, questa di Milo de Angelis. E anche a pagina 31 troviamo “era l’idea e lo scisma nell’idea”. Così a pagina 13 troviamo uno scambio paronimico: “matita persa nella matita stretta”, e lo stesso verso a pagina 25, nell’ultima poesia della sezione sopra indicata, che riprende l’incipit “Milano lì davanti lì davanti” e che chiude con una circolarità geografica una sghembosità spazio-temporale.

    Comunque anche questo libro segna una “svolta”, per riecheggiare la dizione che Dante Maffia usa per le “didascalie” di Valerio Magrelli, una svolta in direzione prosastica senza le spezzature e le perpendicolari fenditure del primo De Angelis; qua e là si trovano anche in questo libro brillanti annotazioni sintetiche (“si è spenta la luce traforata del citofono”), ma si tratta di sporadiche tracce che, nel proseguo del libro, diventano sempre più rare. In questo lavoro è evidente che l’ordine logico della sintassi tende a prevalere sul disordine analogico degli anacoluti; le poesie acquistano in spessore e in densità, acquistano narratività: Le brusche accelerazioni di “Somiglianze” sono ormai un fatto del passato. Ora ciò che interessa al poeta milanese è rinserrare i ranghi, dare compattezza al narrato:

    Entriamo adesso nell’ultima giornata, nella farmacia
    dove il suo viso bianco e senza pace non risponde al saluto
    del metronotte: viso assetato, non posso valicarlo,
    è lo stesso che una volta chiamai amore, qui
    nella nebbia della Comasina.
    Camminiamo ancora verso un vetro. Poi lei
    getta in un cestino l’orario e gli occhiali,
    si toglie il golf azzurro, me lo porge silenziosa.
    “Perché fai questo?”
    “Perché io sono così”, risponde una forma dura della voce,
    un dolore che assomiglia
    solamente a se stesso….

    De Angelis porta con sé, nel suo stile inimitabile, tutta la ricchezza tecnica e compositiva delle precedenti esperienze poetiche, ma rimane accentrato, come avvitato alla tematica centrale del suo “universo”: Milano come luogo deputato dell’esperienza simbolica e luogo della scissione simbolica, che diventa scissione semantica. Molte poesie sono, nella sostanza, degli psicodrammi simbolici.

    L’andante largo di “Biografia sommaria” denota una nuova direzione, un nuovo sviluppo della sua poesia verso una rinnovata, più ricca e meno sincopata narratività, ed è significativo che questo nuovo sviluppo cada sul crinale degli anni Novanta, al termine delle esperienze del post-sperimentalismo e all’esaurimento delle poetiche che si ricongiungono al minimalismo lombardo. E’ chiaro che Milo De Angelis è poeta rappresentativo non solo degli anni ottanta: sono ormai due decenni che il poeta milanese costituisce un punto di riferimento imprescindibile, e in un certo senso l’antologia del suo lavoro poetico “Dove eravamo già stati” (2001) sembra confermare le riflessioni che abbiamo fatto sin qui.

    Giorgio Linguaglossa (“Appunti critici”, edizioni Scettro del Re, Roma, 2002, pp. 53-55).

  • Cara Laura, capisco perfettamente (o questo credo) il tuo discorso. Il problema però è che se applicassimo questa tua “tecnica” a tutta la poesia degli ultimi 10 anni (giusto per non mettere nel calderone i primi sperimentalismi dell’ ‘800) avremmo gli stessi risultati.
    È caratteristico proprio di tutta (o gran parte) della produzione artistico-simbolica del cosiddetto “postmoderno” l’evidenziare, ad un livello più “metanarrativo”, non solo il narratore (che in questo caso scompare) o la cosa narata, ma i meccanismi propri della narrazione e della costruzione del discorso.
    Al di là di tutto questo discorso che è lungo e noiosissimo, aggiungerei che se prescindiamo dal valore semantico, dal significato delle parole usate (indipendentemente dalla loro disposizione nella frase) allora ogni discorso vale l’altro, che è come dire che nessun discorso ha senso. Nemmeno quello che sto facendo io ora o che hai fatto tu prima.
    Mi sembra piuttosto “oggettivo” che l’immagine che restituisce la frase “la luce parlava” non può essere la stessa di quella proposta da “il buio parlava”. Sono immagini necessariamente differenti che evocano due atmosfere necessariamente differenti.
    Ciò che però mi fa venire in mente la tua provocazione è il fatto di pensare non solo alla standardizzazione dei modi di scrivere poesia e dell’uso di certi artifici retorici, ma anche alla standardizzazione di leggere la poesia, una specie di pre-giudizio o di pre-disposizione ad un certo tono o ad una certa forma espressiva che, indipendentemente da ciò che ci dice una frase, ci inserisce in un ambiente che già conosciamo, a cui già siamo abituati. In questo caso, a mio avviso possibile, la “colpa” non è solo del poeta.

    Detto ciò, mi pare sterile, come già ho ripetuto varie volte, insistere nell’attaccare De Angelis dopo aver espresso più che chiaramente la propria opinione a riguardo, continuando a perdere una buona occasione per parlare di ciò che interessa. Anche perché il discorso che fa Linguaglossa mi pare possa essere esteso ad una larga fascia di poeti e di poesie di cui De Angelis risulta essere solo un degno rappresentante, nel bene e nel male.

    Luigi B.

  • È importante, ripeto, riflettere su un punto: il fatto è che cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia. Nella poesia di De Angelis qualcosa suona fasullo, infatti si possono riscrivere le sue poesie con le sue stesse parole ma cambiandole di luogo (nell’ordine delle frasi) senza che il risultato complessivo ne venga stravolto. Ripeto, questo è il verso di De Angelis riportato da Teo Dolindo:

    «la luce parlava. Sulla tua fronte / il prodigio. La nudità / di tutto il sangue. Un vestito…»

    e questa è la mia parafrasi: non cambia nulla… e si può continuare all’infinito:

    «il buio parlava. Sulla tua fronte / l’allegria. Il vestito/ di tutto il sangue. La nudità…»

  • Ecco, finalmente, la recensione di Alfonso Berardinelli a “Tema dell’addio”, come avevo promesso. Considerando però l’importanza di questo libro, vorrei aggiungere quelle di Enzo Siciliano e di Maurizio Cucchi. Ciò non significa che questo sia l’opera che preferisco di Milo De Angelis. E’ solo una questione, diciamo così, di responsabilità storica.

    Marco Azzolini

    Con questo ultimo libro, ” Tema dell’ addio” ( Mondadori, pp.79) la poesia di Milo De Angelis è cambiata fino a diventare irriconoscibile. Dopo la morte prematura dell’ amata Giovanna Sicari, questo poeta ispirato da un’ adolescenza mai del tutto consumata né distante, un’ adolescenza che continuava a parlargli per mitici enigmi, ora, più che cinquantenne, incontra la maturità come si incontra un assassino. La morte di Giovanna è l’ evento davvero avvenuto che libera l’ autore dal sortilegio ipnotico della possibilità. La vita che gli sembrava eternamente futura si rivela all’ improvviso già passata. La sventura reale rende solido e fermo ciò che rimase per decenni magneticamente fluido.

    Dal suo esordio nel 1976 con ” Somiglianze” fino a ” Dove eravamo già stati” del 2001, Milo De Angelis era rimasto quel giovane poeta a cui sembrava impossibile non credere, ma che continuava a inseguire il fantasma imprendibile di una religione e mistica della vita. Era l’ unico autentico erede dell’ ermetismo, perfino più serio e drammatico di suoi padri fiorentini, perché agiva senza i conforti della cultura e ( diciamo) senza privilegi di casta. Milo si presentava come un angelo malato, un vulnerabile paria della poesia, esposto a tutte le turbe di una immaturità incurabile. L’ ultima volta che lo recensii, ricordo di essere stato preso da un’ impazienza da fratello maggiore: passavano i decenni e lui era sempre uguale a se stesso, sempre il ragazzo difficile che sulla porta di casa sta minacciando qualcosa di oscuramente definitivo, una fuga, un congedo, un atto estremo, un giudizio senza appello (ma pagato con il proprio sangue) sulla vita dei genitori e di ogni adulto asservito al principio di realtà.

    Aveva l’ aria del reduce, Milo De Angelis, reduce dall’ aver visto una verità che non si può dire, tanto univoca e irriducibile da imprimere sulla faccia del ragazzo il marchio della fatalità.
    Ma tra la cosa non detta e le parole si apriva lo spazio dell’ indeterminazione. Le sue non erano neppure metafore. Erano piuttosto conati diaristici, descrizioni lacunose, referti, perentorie approssimazioni: esortazioni a denti stretti sussurrate a se stesso per dare forma all’ informe, per ricordare tutto ciò di cui è impossibile fare cronaca. L’ermetismo di De Angelis era un fatto, un dato mentale, non un tipo di cultura. Era la poesia come malattia, come continua premonizione della felicità e della morte che abitano in ogni millimetro e globulo di vita.
    I colori della festa si allontanano dal passato

    Anche in quet’ ultimo libro si incontrano molti versi che vivono di vita propria e tendono a staccarsi dal discorso. Molti incipit, per esempio: ” Contare i secondi, i vagoni dell’ nEurostar, vederti”, ” Tutto era già in cammino. Da allora a qui. Tutto”, ” C’è stato un compleanno, all’inizio, certamente”, ” Affogano le nazioni, crollano le torri, un caos”, ” Cresce l’ ansia nei bicchieri”, ” Nessun gloria in rxcelsis, ma un groviglio”, ” Un suono di ninna nanna chiama la morte”. Colpisce, però, soprattutto nella prima sezione, la compattezza metrico- grafica dei testi, l’ energia martellante con cui riprese, iterazioni, anafore mascherate e dislocate qua e là nel corpo dei versi, segnano i punti di partenza del discorso, sostegni e sbarre a cui si aggrappa il pensiero per non sprofondare: ” Non c’era più tempo. La camera era entrata in una fiala. / Non era più dato spartire l’ essenza. Non avevi/ più la collana. Non avevi più tempo. Il tempo era una luce/ marina tra le persiane, una festa di sorelle, / la ferita, l’ acqua alla gola, Villa litta. Non c’era/ più giorno. L’ ombra della terra riempiva gli occhi/ con la paura dei colori scomparsi. Ogni molecola/ era in attesa. Abbiamo guardato il rammendo/ delle mani. Non c’ era più luce. Ancora una volta/ ci stanno chiamando, giudicati da una stella fissa”.

    Sono versi lunghi, unità ritmiche tutte più o meno della stessa misura, che vanno a comporre blocchi di scrittura simili alle Variazioni belliche” di Amelia Rosselli. E’ sparito quel movimento aleatorio, imprevedibile e iridescente tipico della precedente poesia di De Angelis. E’ come se fosse improvvisamente evaporato il liquido vitale o prenatale in cui le parole e le frasi nuotavano allungandosi e contraendosi con un’ elasticità da animale acquatico, non ancora terrestre. Ora il diario della morte che arriva deve lottare con una desertica aridità enunciativa: ” Non c’ è più tempo (…) Non avevi più tempo (…) Non c’era più giorno (…) Non c’era più luce”. Il movimento della lingua si blocca e deve ricominciare ogni volta di fronte all’ ostacolo definitivo, il limite oltre il quale tutto finisce. I colori e la festa della vita si allontanano nel passato, filtrano attraverso le persiane chiuse. Ogni promessa e possibilità diventano impensabili. Il tempo che scorre è ormai fuori e lontano, appartiene alla storia di una felicità che si annunciava spostandosi sempre più in là nel futuro. Ma ora il futuro è finito. Ogni movimento in avanti si è interrotto e anche il linguaggio è paralizzato e contratto dall’ impossibilità di pensare la vita.

    Ho l’ impressione che la prima sezione del libro sia quella che è stata scritta per ultima ed è comunque l’ ultima stazione. Il testo che la conclude, il solo articolato in strofe, somiglia a un bilancio, a un resoconto retrospettivo:” Io siedo al caffè sottocasa, – guardo il paesaggio che fu di Sironi, in un solitario- dodici agosto, inizio a convocare le ombre”. Solo la clausola, una strofa tra virgolette di tre versi, in cui compare pure una rima ( inusuale in De Angelis), riesce a dare voce a un futuro vitale. Ma come in una canora, commossa parodia, come citando le parole e la voce di un altro: ” Torneranno vivi gli amori tenebrosi/ che in mezzo agli anni lasciarono/ una spina, torneranno, torneranno luminosi”.

    Alfonso Berardinelli “Il Foglio”, 31.03.2005

  • a Teo Dolindo:

    parafraso i versi che lei ha citato. Spero che le piacciano,
    NON C’E’ NEANCHE UN AGGETTIVO!

    «il buio parlava. Sulla tua fronte / l’allegria. Il vestito/ di tutto il sangue. La nudità…»

  • 1)
    In «la luce parlava. Sulla tua fronte / il prodigio. La nudità / di tutto il sangue. Un vestito…» non c’è un solo AGGETTIVO.

    2)
    In italiano non esistono nominativi e ablativi.

  • Devo ringraziare di tutto cuore i blog “poesia 2.0” e “moltinpoesia” per il materiale critico su Milo De Angelis. Sono pagine introvabili e inestimabili. Io, personalmente, insegno Lettere nella scuola superiore e ho frequenti legami con l’Università. Ebbene, ho potuto constatare che De Angelis è un poeta molto presente sia nei manuali del biennio sia nei corsi annuali di Letteratura Moderna e Contemporanea. Non potete immaginare quanto siano preziose le recensioni che avete messo in rete! Vi ringrazio nuovamente e oso chiedere al Prof. Azzolini (che l’aveva promesso) di inviare la recensione di Alfonso Berardinelli sull’opera del poeta milanese. Notevole poi l’intervento di Daniele Barbieri che ieri avete segnalato.

    Giacomo Losi

  • gent.ma redazione

    intendevo dire che la poesia di De Angelis si pone come «religione» di se stessa, il Dio di quella «religione» sta sull’altare dell’autofagia. L’astuzia di de Angelis è stata quella di fare della propria poesia una «religione».
    E infatti tutta una generazione è caduta nel tranello, si è riconosciuta nelle tormentate ambasce adolescenziali della sua poesia. Ma sono passati circa quarant’anni dall’esordio, e nel frattempo siamo invecchiati. Adesso, a rileggerla la poesia di De Angelis mi fa ridere con tutta quella retorica di emozioni adolescenziali che mette in bella mostra.

    Poi c’è (per chi non lo sapesse) la religione del capitalismo finanziario globale. Quella sì che è vera! e non tollera i non adoratori del Dio Denaro. Volevo dire che a questa «vera» religione stanno bene le «religioni» delle ambasce adolescenziali e sentimentali così diffuse.

  • Ciò che dice Daniele Barbieri qui ( http://www.guardareleggere.net/wordpress/2012/09/05/della-critica-prescrittiva/ ) lo trovo più che condivisibile.
    Tra l’altro affronta un argomento che suole darsi per scontato: ovvero, il sillogismo genetico prestato alla logica che sovrappone in una equivalenza forzata il bene al bello, confondendo l’etica con l’estetica. Non è che le due cose siano totalmente separate; l’errore sta nella loro equivalenza, nella loro totale sovrapposizione che esclude a priori una serie di altri fattori che pure incidono – in primis, il gusto e l’etica di chi legge, sia egli critico o no.
    Luigi B.

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  • Commentiamo una risposta che Giorgio Agamben ha rilasciato in una intervista a una domanda di Peppe Savà

    (E’ uno dei più grandi filosofi viventi. Amico di Pasolini e di Heidegger, Giorgio Agamben è stato definito dal Times e da Le Monde una delle dieci teste pensanti più importanti al mondo).

    Domanda:
    Il governo Monti invoca la crisi e lo stato di necessità, e sembra essere la sola via di uscita sia dalla catastrofe finanziaria che dalle forme indecenti che il potere aveva assunto in Italia; la chiamata di Monti era la sola via di uscita o potrebbe piuttosto fornire il pretesto per imporre una seria limitazione alle libertà democratiche?

    Risposta:
    «“Crisi” e “economia” non sono oggi usati come concetti, ma come parole d’ordine, che servono a imporre e a far accettare delle misure e delle restrizioni che la gente non ha alcun motivo di accettare. “Crisi” significa oggi soltanto “devi obbedire!”. Credo che sia evidente per tutti che la cosiddetta “crisi” dura ormai da decenni e non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo nel nostro tempo. Ed è un funzionamento che non ha nulla di razionale.

    Per capire quel che sta succedendo, occorre prendere alla lettera l’idea di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce, implacabile e irrazionale religione che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua. Essa celebra un culto ininterrotto la cui liturgia è il lavoro e il cui oggetto è il denaro. Dio non è morto, è diventato Denaro.

    La Banca –coi suoi grigi funzionari ed esperti- ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e , governando il credito (persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità), manipola e gestisce la fede –la scarsa, incerta fiducia- che il nostro tempo ha ancora in se stesso. Del resto, che il capitalismo sia oggi una religione, nulla lo mostra meglio del titolo di un grande giornale nazionale qualche giorno fa: “salvare l’Euro a qualsiasi costo”. Già “salvare” è un concetto religioso, ma che significa quell’ “a qualsiasi costo”? Anche a prezzo di “sacrificare” delle vite umane? Solo in una prospettiva religiosa (o, meglio, pseudoreligiosa) si possono fare delle affermazioni così palesemente assurde e inumane».

    Ecco, io mi chiedo: dinanzi all’AGGRAVARSI DELLA CRISI ECONOMICA MONDIALE di che cosa ci parla la poesia deangelisiana? delle sue idiosincrasie personali e del suo rapporto con il mondo che è rimasto allo stadio adolescenziale? È palese che questo tipo di poesia che ancora negli anni Ottanta e Novanta poteva apparire agli occhi degli adolescenti naif e spregiudicata, oggi invece appare a quegli adolescenti diventati nel frattempo uomini e donne adulte come una fredda tecnica applicata alla scrittura che non ha più nulla di significativo da dirci.

  • Alla fine degli anni ottanta, incontrando la poesia di Milo De Angelis, ne rimasi molto impressionato. Era un autore diverso da tutti gli altri, isolato anche nella sua formazione, con un temperamento straniante, che però usava una lingua del tutto “consueta”. Andrea Inglese – poeta con posizioni molto lontane dalle sue – riassume bene questo impatto che l’opera di De Angelis ha avuto su di me e su molti della mia generazione.

    Milo De Angelis è stato un punto di riferimento per molti giovanissimi che circolavano con poesie in tasca tra fine anni ’80 e inizio ’90, anche se la sua attività di “militante” della poesia era iniziata ben prima. Dunque un punto di riferimento, ma a mio parere pericolosissimo. Da avvicinare solo con un angoscione d’influenza intenso e costante. Come ogni vero poeta forte (in senso bloomiano), attirava a sé i neoscriventi versi come un magnete possente. Tutti ne eravamo affascinati. Alcuni, purtroppo, ne sono rimasti invischiati, stilisticamente intendo. E si è fatto cattiva poesia “deangelisiana” per almeno un decennio. (Vale sopratutto per Milano e dintorni.)

    Questo fatto era anche legato a quella che è la personalità di Milo: dominato da una curiosità onnivora e spregiudicata, verso tutto ciò che gli sembrava, per altro, comportare anche un’esperienza biografica forte, irregolare, dietro l’attività dello scrivere. Sia per coloro che hanno voluto sfuggire alla sua influenza, sia per coloro che ne sono stati in qualche modo ipnotizzati, rimane uno dei personaggi che ha saputo mostrare più disponibilità e apertura verso gli esordienti. Ciò non c’entra nulla con la qualità del testo. Ma c’entra con il modo di “praticare” la poesia.

    andrea inglese il 11 marzo 2005 alle 13:57 “nazione indiana”

  • gent.mi Franz Schroeder e Ennio Abate,

    porre una schematica contrapposizione tra Fortini e De Angelis significa svuotare e impoverire i termini della questione da me posta e correttamente ripresa da Ennio Abate. È metodologicamente scorretto porre una contrapposizione tra i due poeti che appartengono a due epoche diverse della storia d’Italia, là dove il primo muore nel 1995 e l’altro è un nostro contemporaneo.

  • gent.mo Franz Schroeder,
    in un precedente post Laura Canciani (a proposito del mio libro “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010) poneva 10 domande, tra le quali:

    «3)è fondata la tesi dei nodi irrisolti della poesia italiana del secondo Novecento, affrontati nel capitolo “gli anni Sessanta”?
    4) è fondata la tesi del nodo fondamentale che né Pasolini, né Montale, né la neoavanguardia né nessun altro aveva affrontato (la deriva verso la narratività)?; e che quel nodo irrisolto sarà destinato a ripresentarsi, come un bubbone, ingrossato, ad ogni generazione, in attesa di una soluzione?;
    5)è fondata la tesi di Linguaglossa che parla esplicitamente di “modello maggioritario” che si è imposto dopo la “sconfitta” di Fortini e di Ripellino, con conseguente instradamento della poesia italiana nell’alveo del “riformismo moderato” della riforma sereniana?;
    6) è fondata la tesi di Linguaglossa secondo il quale che il più grande poeta degli anni Cinquanta è un certo Ennio Flaiano (il quale si opponeva allo sperimentalismo e al linguaggio poetico postquasimodiano)?;
    7) è fondata la tesi di Linguaglossa il quale cita un giudizio del tardo Giovanni Raboni, il quale mette in rilievo che forse la riforma sereniana, a fronte della ipotesi di riforma indicata da Franco Fortini, era una piccola riforma e che la poesia italiana che seguirà la strada aperta da Sereni si avvierà verso una poesia più facile e leggibile (e quindi più conformista)?;
    mi sembra che nel libro Linguaglossa abbia messo molta carne al fuoco… l’autore dice che sono state combattute delle battaglie, ci sono stati degli sconfitti e dei vincitori, Chi sono gli sconfitti? Chi sono i vincitori? vogliamo dirlo?»

    Il discorso critico che sto facendo in questi ultimi due decenni si può riassumere così: nel tentativo di raddrizzare (la gobba) le distorsioni che la poesia it. ha subito dagli anni Sessanta in giù. Certo, in queste distorsioni hanno avuto un ruolo fondamentale le ragioni storiche che hanno portato l’Italia alla politica del compromesso storico e poi al suo fallimento, alla nascita del CAF (famigerato), alla crescita esponenziale del debito pubblico per comprare l’adesione dei ceti piccolo borghesi alla politica della NON RIFORMA DEL RIFORMISMO MODERATO; tutto ciò però non ha impedito la fine della PRIMA REPUBBLICA che è annegata in un SISTEMA DI TANGENTI GENERALIZZATO. Di qui la SECONDA REPUBBLICA e l’accrescimento della corruzione del sistema paese (lo dice la Corte dei Conti!) e la conseguente STAGNAZIONE E RECESSIONE. Siamo arrivati ai giorni nostri. Ma il presente è sempre figlio del passato.
    La poesia ha seguito (nel bene e nel male) la traiettoria del Paese, ha continuato a far finta che l’avvento della paventata società mediatica portasse qualche buon dono alla poesia. E infatti l’ha portato con l’affossamento della linea di resistenza fortiniana per la preminenza del principio sostanziale o sostantivale in poesia e l’invasione del principio aggettivale e degli emozionalismi delle ultime generazioni. Il problema, direi, ridotto in soldoni è questo. In questo quadro la poesia di De Angelis (dei primi due libri del 1976 e del 1983) rappresenta il trionfo della poesia degli emozionalismi e della supremazia del principio aggettivale. Si badi, io non sono un detrattore della poesia deangelisiana che ho definito «di indubbia caratura», mi sono limitato a descrivere un processo storico di degenerazione della poesia it. che giunge fino ai giorni nostri, e mi sono limitato a dire che occorre un correttivo, occorre porre uno stop, degli argini a questa ESONDAZIONE della poesia dei sentimenti e delle emozioni degli ultimi due decenni. Seguendo questa via non mi meraviglia, ripeto, che si scriva alla maniera di Mariangela Gualtieri e alla maniera del post-minimalismo magrelliano e deangelisiano.
    E il fatto che un critico raffinato come Giovanni Raboni si fosse accorto dove si stava avviando la poesia it. affermando che la via fortiniana era quella giusta a fronte della riforma introdotta da Sereni, mi conforta in questa mia intuizione critica.
    È tutto il tardo Novecento che va riscritto. A cominciare dalla sua poesia. In questo quadro la poesia deangelisiana, dopo i primi due libri, mostra preoccupanti sintomi di involuzione verso facili ed esasperati emozionalismi.
    Questo si può dire senza che ciò venga recepito come un delitto di lesa maestà?

    giorgio linguaglossa

  • Ennio Abate a Franz Schroeder

    La contrapposizione sanità/malattia mi pare in generale molto rischiosa. La si può trasferire dal campo medico, dove ha un significato scientifico abbastanza preciso e limitato ad altri campi e addirittura al campo dell’ideologia?
    Cosa vuol dire che ogni marxista è “sano” (sia pur con le virgolette)? Che l’ideologia marxista rende “sani” perché dà speranza, offre alle menti un progetto, si fonda su una teoria o dottrina?
    A parte il fatto che oggi il marxismo è, come altre ideologie, compreso il liberalismo, insufficiente a spiegare cosa ci sta accadendo con la cosiddetta “globalizzazione”, c’è da dire che anche le religioni animano speranze, delineano progetti (persino per l’al di là) pretendono che la loro dottrina abbia fondamenta saldissime (nella Rivelazione da parte di una divinità) e quindi anch’esse renderebbero i loro fedeli “sani”.
    Quando poi si andasse a verificare davvero con strumenti psichiatrici o psicanalitici se e quanto Fortini sia stato “sano” e quanto De Angelis sia stato «toccato dalla malattia mentale e da determinati torbidi della psiche» le cose si complicherebbero e ne verrebbero fuori sorprese o altri rompicapi.
    Meglio perciò tenere a bada (non escludere) le indagini sulle biografie dei poeti o scrittori e ragionare sulla base di una buona conoscenza dei loro testi e del contesto storico in cui quelli sono nati.
    Nelle considerazioni finora da me fatte sul *nodo” (problematico) Fortini/ De Angelis non c’è nessun intento da parte mia di metterli in competizione tra loro o di negare ad uno di loro (nel mio caso a De Angelis) il titolo di poeta. ( E sono meno interessato dialtri a stabilire se massimo, medio o minore).
    Sono stato io, poi, a richiamare l’attenzione (citando una frase di Perlini) sulla esistenza di due tradizioni – la dantesca e la petrarchesca, che rappresentano modi diversi di svolgere la funzione poetica ( a partire dal mondo o dalla propria interiorità). E lo stesso vale per Fortini e De Angelis, che, senza qui stare a sottilizzare, possono rientrare in tradizionei “contrapposte”: epica il primo e orfica- ermetica-romantica il secondo.
    Ma fissate sulla loro carta d’identità i connotati (epico, orfico), non significa che queste loro ricerche siano equivalenti, abbiano lo stesso peso, suscitino la stessa qualità di sentimenti, rimandino a significati intercambiabili, sollecitino desideri o volontà equipollenti, invitino a guardare il mondo, la gente allo stesso modo.
    Il lettore sceglie, preferisce, accetta, respinge e, anche se “ammirasse” entrambi, non lo può mai fare in modo così neutro e asettico come se fosse una macchina misuratrice dei loro valori. Perché vive nella storia, ha da fare i conti con la storia, la quotidianità, il proprio corpo, il tempo che passa, le illusioni che si svelano tali, la fine di certe ideologie e l’apparire di altre. E quelle poesie di Fortini o di De Angelis gli parlano in modi diversi. Il lettore-critico riflette in più su tante altre cose: le diverse poetiche, le diverse tradizioni, il legame più stretto o più lasco con il contesto storico. E distingue punti di contatti e differenze e si costruisce un giudizio e dà la preferenza MOTIVATA, ARGOMENTATA ( e quindi anche rivedibile!) a Fortini o a De Angelis, a secondo del serio lavoro critico che è riuscito a condurre.

  • Perché mai fare obbligo a questi due poeti, il Fortini e il De Angelis, di una specie di competizione? Sono poeti tradotti, riconosciuti e aprezzati in Germania. Ma nessuno si immagina di prescegliere il migliore! Goethe e Brecht sono dentro le parentele del Fortini. Kleist e Rilke s’imparentano al De Angelis: come progenitori spirituali, intendo per ambedue, non per similitudine vera e propria. Ognuno di ambedue ha riuscito a rappresentare ottimamente una sua tradizione, epica nel Fortini, orfica nel De Angelis. Lo storico, se di vero storico qui argomentiamo, non dichiara simpatie ma prende atto della loro rispettiva forma innovante e li ammira ambedue.

    Franz S.

  • Non entro nel merito dei battibecchi perché non mi interessano, mi risultano noiosi e quello che dovevo dire l’ho detto.
    Entro invece nel merito della discussione sottolineando ancora una volta che, a mio modo di vedere, qui non si sta parlando di se De Angelis è un bravo poeta o no; se Fortini è meglio di De Angelis; se la poesia di De Angelis è vera poesia etc. Non si sta nemmeno facendo a gara a chi ha il senso critico o quello poetico più sviluppato. “Solo” ci si sta chiedendo se non sia giunto il momento di cominciare a considerare anche quella poesia che non parla di “intervalli di una sola e grande morte” e di “profumo di uva passa e la neve”. Ci si sta chiedendo se esiste la possibilità, in poesia (ma il discorso può essere esteso ad altri campi), di cominciare a rappresentarci la realtà anche sotto altre forme.
    Come mi diceva qualcuno tempo fa in una conversazione privata che nulla ha a che vedere con questa,

    “dunque non col fantasma di Orfeo abbiamo a che fare ma con le stranezze del quark”.

    più che farne una questione (personale o meno) di poesia o di poetica, io ne faccio una questione di possibilità – per me la poesia è questo: un ventaglio di possibilità. E la domanda è dunque: ce ne stiamo dando di possibilità oppure ce le stiamo precludendo?

    Questo, secondo me, il senso dello “spostare il centro di gravità del discorso poetico”.

    Luigi B.

  • La disparità di maggiore rilevanza tra Franco Fortini e Milo De Angelis non è stata fino ad ora posta in essere. Il Fortini è un poeta “sano”, come lo è ogni marxista, magari con tratti sofferenti, Franco Fortini, ma pur tuttavia in una tradizione di speranza e progettualità e di conoscenza della Storia e trasformazione dello stato materiale delle cose. Il De Angelis è un poeta toccato dalla malattia mentale e da determinati torbidi della psiche che potevano aver esperito un Artaud o un Benn o altri di consimile temperamento, alterati nelle cose più comuni della vita e in quell’altre non comuni. Entrambi, il Fortini e il De Angelis, scandagliano con pregevole fattura formale questi mondi, ma i mondi sono tra di loro inconciliati.

    Franz Schroeder

  • @ maria greco
    Forse può interessarLe questo brano di Adriano Napoli su De Angelis, tratto dalla sua ottima antologia della poesia contemporanea appena uscita da Marcos y Marcos. E’ molto utile – sia il libro di Adriano Napoli sia quello del quasi omonimo Francesco Napoli, intitolato “Poesia presente 1975-2010” e pubblicato da Raffaelli Editore – per conoscere ciò che accade nel periodo attuale e ciò che si prospetta in futuro. Lo dico anche per non rimanere imprigionati in quest’ultima vicenda di botta e risposta tra fazioni.

    Marco Azzolini

    “Scrivere equivale dunque a combattere? Vi è certamente un legame inscindibile tra l’agonismo della scrittura e le performances di Paoletta, “fanciulla campionessa” di arti marziali; o la “divina falcata adolescente” di Stefania Annovazzi, la “ragazza dei baratri e dei bar, dei giochi/di destrezza, dei campionati studenteschi/vinti in scioltezza: nove secondi/con sei metri di distacco”, e per questo ribattezzata “Atalanta” (Per quell’innato scatto); la velocista Donatella, che suscita desiderio in chi la osserva per la sua bellezza, e più ancora per la luce che emana dalla sua corsa “puntata al filo”. L’esercizio atletico è del resto un antidoto alla fantasticheria, educando all’armonia i corpi e le menti, orientandole a correre incontro alla luce (Zolla; 1964).

    Quanta impassibilità, agli occhi del poeta (innamorato dell’impassibile) nel senso della misura e della forma che si disegna nitidamente in ogni movimento atletico, in cui l’emozione pare assente, e invece si compie nell’esecuzione del gesto perfetto, bruciando dentro la rigorosa geometria delle forme. “Io, signore, sbaglierò, le potrà sembrare strano/ma dico a tutti di baciarla, anche se in questo/quartiere è difficile, ci sono le carcasse dell’amore/c’è di tutto dietro le portiere. Si, di baciarla,/come un’orazione nel suo corpo,di baciare/le ginocchia, la miracolosa forza delle ginocchia/quando quando sfolgora agli ottanta metri , quasi al filo/ e così all’improvviso si avvera, come un frutto” dice infatti, a proposito di Donatella, l’anonimo interlocutore- forse un custode dell’Arena, o “un’ombra, un indovino…”- che come il corifeo di una tragedia classica, nella distanza evocativa del racconto, delimita lo spazio sacro tra il poeta-spettatore e la tragica consapevolezza della vita di fronte al mistero, di cui la ragazza,sospesa tra la dimensione eterna del mito e la misera realtà quotidiana, assurge ad emblema.

    Gli attrezzi e gli accessori (le ginocchiere, le scarpette chiodate) che come attributi di divinità decadute corredano il profilo delle atlete; allo stesso modo che gli umili oggetti grezzi del paesaggio industriale (le “carcasse dell’amore”), su cui indugia il poeta nelle sue passeggiate, introdotti a forza nelle composizioni, conservano “ l’inizio e la fine, nel bozzolo originario, e in questo dettato che, privo di fughe elegiache, lo rappresenta, teso al rinnovamento piuttosto che alla scoperta, secondo la convinzione antinovecentesca dell’assoluta coercizione dell’atto creativo.(Affinati; 1997).
    Quegli oggetti non sono tuttavia da confondere con l’oggettualità referenziale di tanti esemplari del realismo lombardo, ma si prolungano come ombre di un’ inquieta essenza metafisica che, al pari delle nature morte di Giorgio Morandi, si nasconde dietro la rassicurante parvenza della realtà fenomenica”.

    Adriano Napoli da “Vola alta, parola – Poeti italiani 1967-2010” – ed. Marcos y Marcos, 2012.

  • Gent.le Sebastiano Aglieco,

    lei, con espressioni allusive e indirette, scrive:

    «E che dire di tutta la metacritica espressa in queste pagine, dove, più che parlare della poesia, si imbastisce un monumento alla critica e una tomba alla poesia? Senza badare bene, poi, che monumenti e tombe si assomigliano grandemente.».

    Posso chiederLe a chi (quali nomi e quali interventi) si riferisce con espressioni così sprezzanti nei confronti di chi fa critica?

    Badi che glielo chiedo con tutta la gentilezza possibile. Grazie.

  • @ Franco Loriga

    Gli «appassionati di poesia» non solo di per sé una eletta schiera di gentiluomini e gentildonne. Sui blog s’incontra di tutto (e questo è il bello e il brutto del Web) e l’aggressività è spesso il tono dominante. I più saggi si attrezzino e facciano sentire di più il loro peso. Buoni interventi scacciano o ridimensionano l’effetto di cattivi interventi. Ma la repressione e la rimozione no! Il battibecco infinito di gallie e gallinelle, no!
    Con questo non dico di porgere l’altra guancia o di accettare o spalleggiare i toni che *noi* giudichiamo sprezzanti. Ma ci sono modi (anche eleganti) per non farsi intrappolare dai provocatori veri o presunti. E quello migliore è sempre non scandalizzarsene e non farsi distrarre dai temi e dai problemi da discutere.

    @ Sebastiano Aglieco

    Non credo sia solo lei a fare «per la poesia» del «duro lavoro» e a vederlo non compreso o travisato. Rispetto anche i suoi sentimenti e ammetto il suo diritto all’irritazione o la «libertà del sentirsi offeso».
    Ma fermarsi al botta e risposta su questo? E poi dare l’impressione che lei non ha tempo per discutere con noi “contestatori” del suo maestro De Angelis o squalificare («…diciamo conversazione…»; « Non aggiungo molto perchè non c’è molto da aggiungere»). tutto il lavoro di chiarificazione che si può fare discutendo insieme tra “diversi” e non tra “simili”?
    È questo che non va.
    Se poi prendesse davvero sul serio la sua domanda («Cos’è, la critica, un blocco di cemento per cui tutti debbano esprimersi allo stesso modo?») dovrebbe ammettere che c’è spazio sia per la sua a favore di De Angelis, ma pure per quella a sfavore. E che a sentirsi offeso può essere ora lei ora Laura Canciani. O altri.
    Come ne usciamo? Evitando, se ci riesce, le personalizzazioni eccessive. E argomentando nel merito anche quando si è attaccati.
    Comunque per me, invece del “mordi e fuggi”, è consigliabile il dantesco «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa » ( Vero, Elena Francisci?)

  • Cari Signori del contenzioso,

    più volte degli interlocutori mi hanno citato brani di miei pezzi critici chiedendomi, anche in modo irriverente e tendenzioso, lumi su una mia affermazione anche di venti anni prima, ed io non mi sono mai sottratto a, diciamo, questo dovere del critico (o di chi fa critica) di spiegare, ragionando, che cosa significavano certe locuzioni (che a volte a un lettore possono apparire oscure e astruse). Anche in codesto blog e in questa discussione qualcuno, non ricordo chi, ha citato un brano di un mio articolo pubblicato nel mio libro “Appunti critici” del 2002 (che risaliva a diversi anni addietro) dove esaminavo positivamente (e problematicamente) la poesia di De Angelis, ed io mi sono sentito in dovere di spiegare le mie posizioni (di critico) di allora e di ora. È, credo, un preciso dovere del critico spiegare il proprio linguaggio critico a chi ce lo chiede, in ciò non riconosco nulla di male. Conosco la Canciani quale persona preparata e integerrima (forse troppo!) per dubitare della genuinità delle sue richieste.
    Ma anche se vi fosse un filo di ironia (o di supponenza) nelle richieste dei miei interlocutori, io non mi sottrarrei alla sua legittima richiesta di delucidazioni, cercherei di ragionare dialogando e non esecrando e tacciando l’interlocutore di partigianeria o di eresia.
    Il critico, o chi fa critica, ha sempre il dovere di spiegare le proprie proposizioni ragionando.
    Questa almeno è la mia convinzione.

  • @ sebastiano aglieco @franco loriga

    Concordo con voi e vi do il mio pieno appoggio, fisico e spirituale: la Canciani è solo una grafomane che, tra un blog e l’altro, ha scritto più di venti messaggi rancorosi e ora aspetta un pretesto per aggiornare la sua tabella di marcia.

    Ma anche Ennio Abate, con la sua aria conciliante da vecchio zio difensore del popolo, può diventare un prepotente, come dimostra la reazione stizzita a quelli che non amano il “suo” Fortini. Andate a leggervi “moltinpoesia” del 28 agosto, con relativo predicozzo.

    Che bella cosa sentire il nome di Giordano Bruno! Mi riempie d’infinito, come lo spirito di ogni sua pagina, mi riconduce all’anima del mondo. Ah, se fosse qui tra noi, il grande Giordano, se ci impedisse le nostre misere superbie, se ci innalzasse nei suoi eroici furori!

    Elena

  • E’ veramente incredibile, cari signor Abate e carissima signora o signorina…non so , Canciani, parlare a vanvera del lavoro degli altri, del duro lavoro che gli altri fanno per la poesia, credo sia la questione più urtante di tutta questa…diciamo conversazione…Per giunta in un contesto vacanziero in cui si parla degli interessati insultandoli…perchè non mi dica, caro Abate, che le parole della Canciani sul mio lavoro, siano parole degne di chi vuol imbastire un ragionamento. Esiste ancora la libertà del sentirsi offeso, oltre che quella di offendere? Inoltre, caro Abate, il fatto che i contenuti della mia “critica” a De Angelis possano risultare a suo favore, questo è non capire come procede una persona quando si mette a fare critica. Cos’è, la critica, un blocco di cemento per cui tutti debbano esprimersi allo stesso modo? E che dire di tutta la metacritica espressa in queste pagine, dove, pi+ che parlare della poesia, si imbastisce un monumento alla critica e una tomba alla poesia? Senza badare bene, poi, che monumenti e tombe si assomigliano grandemente.Non aggiungo molto perchè non c’è molto da aggiungere. Solo un ringraziamento a Franco Loriga, che non conosco personalmente, e uno a Luigi Ballerini, che invito a scrivermi, magari per una conversazione più pacata, e non certo per tirarsi i coltelli in faccia. ([email protected]) E poi, carissimi, c’è sempre il mio blog dove ci si può specchiare nel lavoro.dei libri letti e accolti come compagni di viaggio, o lasciati nel mutismo quando l’incontro non avvenga. E De Angelis, amico e maestro, e chi lo può negare! – e poi ognuno prende, e ha la responsabilità di prendere la propriua strada – è uno dei tanti, dei molti tanti letti e accolti.

  • Preciso che la mia considerazione precedente era riferita a Canciani.
    A lei signor Ennio Abate consiglio di rileggere la sequenza degli interventi con mente libera e si accorgerà che non sono state poste solo delle domande, e anche di quanto si sia proceduto con violenza, arroganza, presunzione, nel confronto con gli altri. Fulminante da questo punto di vista la perentorietà della risposta all’ insegnante Greco. Toni così sprezzanti non sono condivisibili nè accettabili, tanto meno in un blog di appassionati di poesia. Fossi stato nei panni di Sebastiano Aglieco, critico e poeta che stimo molto, avrei fatto nello stesso modo, costretto da tanta ottusa propaganda populista.
    E penso anche a Giordano Bruno: Che senso hanno più i generi letterari se ci si muove nella prospettiva dell’ infinito? Il genere letterario suppone una ripetizione, la possibilità che l’ esperienza dell’uomo venga, una volta per tutte, inquadrata in un modulo tipico. Questo concetto è del tutto estraneo a Bruno. L’ uomo si muove all’ interno della creatività con assoluta libertà, e i generi della poesia sono tanti quanto sono i poeti; non sono i generi che generano i poeti, ma sono i poeti che generano l’ uomo. Queste sono alcune delle grandi conquiste di una filosofia che fa dell’ infinità e della scoperta dell’ infinità il centro di se stessa.
    Franco Loriga

  • @ maria greco

    Gentile Professoressa Greco, provo a risponderle, sia pure in ritardo, sui versi in dialetto di Milo De Angelis. Ho amici milanesi e posso dirle che l’Arena è un campo sportivo vicino al Castello Sfozesco. “La sta semper de per lé” significa “sta sempre da sola”, “sta sempre per conto suo”, come nella famosa canzone di Enzo Jannacci sul barbone con le scarpe da tennis. Ma certo “de per lé” (letteralmente “da per lei”) in traduzione perde la sua rapidità di pronuncia, il suo guizzo. “Donatella” è poesia di De Angelis piuttosto nota, ma ignoro se sia mai apparso un vero e proprio commento su manuali scolastici. Di più non saprei dirle, mi dispiace. Meglio di me sarà certamente documentato Eraldo Affinati, che è anche insegnante. La Mondadori potrà darle i suoi recapiti.

  • Mi ero dimenticato di segnalare alla Redazione che la riflessione di Andrea Cortellessa si intitola “Orfeo lombardo” ed è uscita su “Alias” – supplemento de “il manifesto” – il 19 febbraio 2005. Invito tutti a leggerla o rileggerla, perché mi pare che contenga su De Angelis significativi chiarimenti..

    Marco

  • continui pure a fare la vittima. Ma prima di fare critica, sarebbe meglio esercitasse l’ autocritica.
    f. loriga

  • Ennio Abate a Sebastiano Aglieco

    Ma è possibile che i poeti italiani si debbano confrontare solo con i loro vicini o i più prossimi per frequentazione o ideali e mai con quelli più distanti?
    In tutta onestà anch’io, mi permetto di dire che lei con questa sua risposta a Laura Canciani non dimostra affatto di essere persona mitissima. Posso capire la sua irritazione per commenti che non la lodano o travisano il suo lavoro. Ma minacciare di cancellarli è atto al contempo di repressione e rimozione. E poi come fa a dire che chi la contesta non legge poesia e non ne legge tanta? E perché uno/a che improvvisasse non dovrebbe avere diritto di parola su un blog che prevede lo spazio-commenti?
    C’è sempre da imparare qualcosa anche da chi ci morde (ammesso che ci morda o non colga anche confusamente qualcosa che non va).
    Meglio sarebbe stato entrare nel merito anche di una sola delle accuse sgradite per smontarla e arricchire la discussione a vantaggio di tutti
    Salutandola, concludo, per sua e nostra riflessione, con una citazione a me cara:

    «Questa nostra dottrina sarà forse accolta con un sorriso da coloro che, riservando alla massa del popolo i vizi propri di tutti i mortali, dicono che il volgo è in tutto sregolato, che fa paura se non ha paura, che la plebe o serve da schiava o domina da padrona, che non è fatta per la verità, che non ha giudizio, ecc. Invece la natura è una sola ed è comune a tutti… è identica in tutti: tutti insuperbiscono del dominio; tutti fanno paura se non hanno paura, e ovunque la verità è più o meno calpestata dai cattivi o dagli ignavi, specie là dove il potere è nelle mani di uno o di pochi che nell’istruire i giudizi non hanno di mira la giustizia o la verità, ma la consistenza dei patrimoni
    (Baruch Spinoza, Trattato politico)

  • Gent.le Sig. Aglieco,

    si, ha ragione: chi sono io? che voglio con le mie domande? ha ragione, lei mi è davanti di parecchie centinaia di anni… seguirò il suo consiglio di leggere tanta poesia e imparare. Lei dice che «è facile sbattere i pugni in faccia a De Angelis?», io invece credo che sia molto più facile incensare una persona influente; avevo rivolto delle domande a lei e non ho sbattuto i miei pugni in faccia a nessuno. Sì, forse io sono una dilettante del linguaggio critico e ho molto da imparare da persone come lei. Senz’altro farà molta strada con il suo linguaggio critico. Auguri.

  • gentile signora Canciani, in tutta onestà. la smetta. sono persona mitissima ma posso diventare pessima persona. faccio critica come mi pare e piace, e ci lavoro da anni, chi mi conosce in rete sa bene il lavoro che faccio e le parole che uso. quindi non le permetto di usare certi toni. i suoi commenti possono essere tutti cancellati, sa? sono presuntuosi e non apportano niente alla conversazione. lei è di parte, non vuole ragione. ha gli occhi bendati come le sibille. sibillina sarà lei. in quanto al mio stile lasci stare. le sono avanti di parecchie centinaia di anni. ma chi è lei? che vuole? spalancate la bocca solo quando sentite odore di polemica? leggete poesia, e leggetene tanta, e parlatene. facile sbattere pugni in faccia Milo De Angelis. si vada a leggere il mio blog e quello di altri serissimi più di me che la critica la fanno veramente prima di improvvisarsi come fa lei. Sebastiano Aglieco

  • caro Nicola Borletti, leggo solo ora e rispondo brevemente. I materiali pubblicati su questo sito non non sono il frutto un confronto redazionale. Forse il termine Redazione, in effetti, non esprime il modo di procedere di questo sito, quindi come lei leggo e commento. Sebastiano Aglieco

  • Ma di quale Ennio Flaiano si tratta? E’ quello della dolce vita romana, quello delle battute e delle arguzie? Scriveva poesie? Oppure è un omonimo?

    Jean

  • Lasciamo ora da parte le teorizzazioni di estetica (la funzione poetica di Jakobson ha lasciato sul terreno molti cadaveri!) e restiamo un po’ terra terra. E torniamo a De Angelis. Ebbene, parlando della poesia di “Somiglianze” (che poi è il suo libro migliore) io ho rilevato in più occasioni come quel linguaggio poetico sia uno «sperimentalismo interiorizzato», intendendo con questa categoria il fatto che la poesia deangelisiana è impensabile se scollegata dalle acquisizioni dello sperimentalismo della neoavanguardia. Basta confrontare, come in un testo a fronte, una o più poesie di Alfredo Giuliani con una o più poesie del primo De Angelis (fino a “Millimetri” del 1983), per accorgerci che il procedimento linguistico, lessicale, sulla «parola» sia nella sostanza il medesimo. De Angelis dunque è un parente stretto della neoavanguardia, una sua coda, una sua filiazione ma mutata di segno, con un correttivo significativo, che lui capovolge l’impostazione sperimentale (aperta, propria della neoavanguardia) in una «chiusa» nello spazio e nel tempo (Milano, luogo dell’anima, e l’interiorità, luogo dello struggimento dell’anima, c’è sempre un io e un tu tra i quali scocca la scintilla della disperazone e dell’angoscia. Ma io mi chiedo: è un’angoscia di posizione? è un’angoscia lessicale? è un’angoscia che prende dalla grammatica o dalla sintassi? Domande aperte alle quali ognuno darà la sua risposta).
    De Angelis accetta (prende, sottrae) dallo sperimentalismo quel che lo sperimentalismo può dare e lo riconverte in termini, come tu dici, «romantici». Ma qui siamo ben lontani da una filiazione «romantica», come tu affermi perentoriamente!
    In sostanza, voglio dire che l’operazione del primo De Angelis (quello che ci interessa visto che l’ultimo è una riproposizione esausta del primo), è ben lungi dall’essere una «resistenza» allo sperimentalismo, che anzi di questo ne eredita la procedura tecnologica, infrastrutturale per convertirla, con un colpo di bacchetta magica, in termini di introiezione, di espressionismo, di struggimento (tra un io e un tu), di catarsi… in una parola nei termini di quel «fondamento della commozione» che tanto irritava Fortini (e che irrita anche me), fondamento dei fondamenti di una poesia di tipo conservativo, che vuole conservare (mutata di segno) la «parola» scissa e disarticolata dalla norma della sintassi, quasi che l’anima avesse più libertà di espressione, appunto, in quella dis-articolazione, in quella liberazione (falsa e illusoria). Quando invece il discorso poetico così intrappolato (tra un io e un tu diventa un tropo di facile emozionalità, diventa luogo di facili emozionalismi) viene ad esserne depauperato, impoverito, la significazione isterilita. Questo posso dirlo senza il pericolo di essere lapidato?
    Di fatto, la poesia deangelisiana diventa un «tropo» modello, diventa presso le giovani generazioni un prototipo della poesia di emozionalismi, una poesia giovanilistica ante litteram. Ecco perché raqccoglie oggi tra i suoi fans le masse del Ceto Medio Mediatico Poetico giovanile.
    E questo è un «nodo» della poesia it. degli ultimi 40 anni. Questo posso dirlo senza essere accusato di essere un critico con una griglia «pre-eventum»?

    gent.mo Marco Azzolini, tu scrivi:

    «Gentile Linguaglossa,

    Seguo il suo lavoro sulla poesia italiana da molti anni, dai tempi della rivista “Poiesis”. Ho subito apprezzato e condiviso il tono fermo con cui Lei iniziava a criticare una certa idea di poesia “minimalista” nei suoi vari aspetti, tutti comunque di piccolo cabotaggio: diaristico o quotidiano, vezzeggiativo o freddurista. Le sue letture impietose dei vari Magrelli, Lamarque, D’Elia, Frabotta, Zeichen mi sono sembrate nell’insieme efficaci e ben argomentate, convincenti.

    Poi qualcosa si è inceppato nel legame di simpatia con le Sue posizioni. Innanzitutto i poeti che Lei dichiarava e continua a dichiarare importanti (Madonna, Stecher, Stace, Pedota, ecc) a me non sembrano tali, tutt’altro. In secondo luogo mi hanno allontanato da Lei sia l’uso sempre più libero di un termine come “minimalismo” sia le Sue prese di posizione polemiche verso alcuni poeti che stimo, tra cui Vittorio Sereni (a mio parere ben più nuovo e difficile del brechtiano Fortini), Mario Benedetti, Milo De Angelis, Antonella Anedda: su quest’ultima Lei, mi perdoni, ha scritto alcune pagine che ritengo tra le Sue meno felici, per il tono sprezzante che le percorre (“Appunti critici”, ed. Scettro del Re, pp. 97-98)».

    Che la «riforma moderata» introdotta dalla procedura della poesia di Vittorio sereni con “Gli strumenti umani” del 1961 sia stata, appunto, una riforma moderata, l’ho illustrato nel mio libro “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010)”. È questa la mia tesi di fondo su cui si basa la RILETTURA DI UN PEZZO DELLA STORIA ITALIANA che ha portato al trionfo, in poesia, di una visione, direi, piccolo-borghese con la imposizione della poesia di Giovanni Giudici con “La vita in versi” (1965), vero e proprio incunabolo del minimalismo epigonico romano-milanese. È una TESI DI FONDO che riguarda la storia della poesia italiana (e non solo), è la tesi attraverso la quale io ho letto la parte terminale del Novecento che ha visto l’instaurarsi di una egemonia di un parametro poetico e critico che è arrivato fino ai giorni nostri. È la tesi di fondo con la quale io leggo l’instaurazione di un «riformismo moderato» che ha preso il sopravvento nella poesia it. del tardo Novecento. È una tesi, lo so, anti convenzionale, che mi ha fruttato molte antipatie e inimicizie, molti anatemi… mi hanno dipinto come un untore, come un critico dogmatico, etc. chi più ne ha più ne metta. Ma, ripeto, ci sono dei «nodi» nella Storia di un paese che, prima o poi, occorre sciogliere. Altrimenti è inevitabile che quei medesimi «nodi» tendono a ripresentarsi tali e quali sotto mutate spoglie.
    E il «minimalis mo» che cos’è? Nella mia visione non è una categoria contenitore tipo scatola vuota che devo riempire, è un pendio declinante di post-poetiche (acritiche) che seguono il corso di poetiche non-innovative, che hanno ripercorso e riletto la poesia it. con la lente del riformismo moderato. Si è andati così a finire nel secchio senza fondo della poesia di intrattenimento, dello struggimento del cuore, dell’infermità dell’anima condita da espressionismi gratuiti e risibili. Il resto è storia dell’oggi.

    gent.mo Marco Azzolini,

    ti prendo alla lettera: e adesso facciamo un gioco, proviamo a sostituire i poeti da te nominati (De Angelis, Mario Benedetti, A. Anedda) con un’altra «griglia di nomi» (come si dice oggi), diciamo A.M. Ripellino, Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna, Maria Marchesi, Giuseppe Pedota, Giorgia Stecher, tutti poeti morti!) e vediamo che tracceremo un’altra storia, una storia diversa di un’altra Italia. Ma siamo sicuri che nel confronto con quelli dell’ufficialità i poeti da me indicati ci perderebbero? Siamo sicuri che sostituendo la poesia di Sereni con quella di Fortini, ci rimettiamo in qualità? – io non ne sono tanto sicuro. E mettiamoci anche che il più grande poeta degli anni Cinquanta sia stato un certo Ennio Flaiano, siamo sicuri di dire delle corbellerie? Io non ne sono tanto sicuro.

    giorgio linguaglossa

  • Ho finalmente trovato lo scritto di Andrea Cortellessa sulla poesia di De Angelis e su altre importanti questioni, con un accenno a Fortini. Eccolo, con un saluto a tutti…

    “Da sempre la poesia di Milo De Angelis possiede la misteriosa proprietà di apparire, a un tempo, inattesa e necessaria. La sua irruzione, a metà degli anni settanta, segnò la più traumatica discontinuità col visibilismo oggettuale ‘ lombardo’, lo sperimentalismo ‘ realistico’ di ” Officina”, la gestualità intellettuale della neoavanguardia: tutti d’ accordo nel liquidare l’ obscurisme post-simbolista dell’ ermetismo fiorentino come l’attrezzo più impresentabile d’ un Novecento precocemente invecchiato. Figuriamoci quanto potesse apparire eversiva una parola, come quella di De Angelis- che riattizzava l’ incendio dell’analogismo puro, della verticalizzazione più esilarante. Non stupisce che si guadagnasse, più che lettori, un manipolo di fanatici. Ma la sua assoluta alterità, non era solo diacronica. Mentre altri si reincantavano dell’ “io” che la neoavanguardia (almeno nei programmi) aveva ” ridotto”, la poesia di “Somiglianze” e dei tre libri seguenti non lasciano margini ad alcuna indulgenza narcisistica.

    Nel saggio “Poesia e destino” De Angelis si poneva agli antipodi rispetto all’ orfismo, fumosa categoria alla quale subito la sua poesia era stata ricondotta. Perentoria la sua definizione di Rimbaud e Campana (phares, certo, altamente indiziati come ” due tra le posizioni più matematiche del furore mediterraneo”. Perentoriamente: ecco una categoria- chiave di questa poesia, che forse spiega la contrastata passione, per essa, di Franco Fortini. Dove la metafora matematica traduce il proprio stesso inconfondibile “tono tra gnomico e iussivo”, che contrassegna- ha scritto Paolo Zublena- “l’ inesorabilità del fato”.

    E’ la morsa spietata dell’ ananke a guidare questa parola: verso un approdo che è, infatti, inequivocabilmente tragico. Questi caratteri disegnano una figura d’ indubbio valore storico. Eppure, con tutta l’ ammirazione per il talento dispiegato in quei primi libri, quel De Angelis non mi ha mai convinto del tutto. E’ stato detto (da Giovanni Raboni) che nella sua scrittura albergava, più che una sintesi, un cozzare continuo tra sospensione del senso e “ricerca di una folta e dolente concretezza espressiva”: ” contrappesi terrestri” alla sua ” ardita e a volte ( per rastremazione o accelerazione) inafferrabile tensione analogica”. Verissimo. Ma mi appariva deontologicamente ingiustificato, per così dire, che determinati catalizzatori di senso venissero ostinatamente celati, per essere offerti solo all’ esterno del testo: pratica ‘esoterica’ alla lettera cara all’ ermetismo di tutte le epoche e latitudini. Penso, per esempio, in “Somiglianze” a un episodio come “T. S.”: fuga a ritroso nel tempo nella quale si susseguono immagini di bruciante bellezza. Ma tutto acquista senso ‘narrativo’ ( tra molte virgolette) solo una volta che si sappia che quella sigla va sciolta in “Tentato suicidio”.

    Segnano una soluzione di continuità i due ultimi libri, “Biografia sommaria” del ’99 e questo “Tema dell’ addio” (Specchio’ Mondadori, pp.85 ). Nei due titoli occorrono termini – biografia, tema – che alludono proprio a una qualche forma di narratività, denotata anche dai tempi verbali: mentre nei primi libri prevaleva il presente assoluto ( con lampeggiamenti di futuro ‘ apocalittico’), negli ultimi due si fa strada la più sfumata tavolozza dei passati e, in particolare dell’imperfetto. Tuttavia sarebbe un errore interpretare tale ‘svolta del respiro’ nella chiave di un memorialismo ‘ chiarista’, à la page.

    La forza di questi componimenti (soprattutto nella prima è folgorante, ma anche nelle altre cinque sezioni dell’ ultimo libro, troviamo una decina tra le poesie più belle degli ultimi anni) continua a consistere nell’ arduo equilibrio tra figuratività ( ispessita col ricorso alla toponomastica lombarda e al “paesaggio che fu di Sironi) e suo contrario. ” abbiamo visto l’ aperto e il nascosto di un attimo”, recita un verso del primo componimento ed è una sigla che vale per tutto De Angelis ( per questo appaiono maiuscoli i suoi versi più lunghi nei quali i due versanti hanno modo di congiungersi, sprizzando scintille: mentre quelli più brevi tornano, talora a posture vaticinanti). La vera novità del libro è nel “tema” enunciato nel titolo.

    L ‘ addio è quello dato alla fine del 2003 alla moglie, la poetessa Giovanna Sicari. S’ intuisce che alcuni testi sono stati scritti prima, forse durante il terribile decorso del male, ma la brutalità del dato ( ribadito dalla dedica a “Giovanna”) non può che ingiungere la lettura dell’ intero libro alla nera luce del lutto. Proprio Questa, in ogni caso, cambia la prospettiva di De Angelis. Specie nella prima sezione martellano i versi ossessivi indicatori di realtà, applicati con lancinante volontà ‘ documentaria’ a segmenti sovrilluminati della biografia condivisa ( ” E’ avvenuto, certamente/ è avvenuto”; ” C’è stato un compleanno, all’ inizio, certamente. / (…) C’ è stato, quello c’è stato”; ” Il luogo era quello. Era lì / che stavi morendo”). Questa percussività dell’ Erlebnis adotta lo strumento dell’ iterazione: come nella squassante terza poesia ( forse la più bella di tutte),dilacerata tra l’ anafora dell’ incipit, ” Non è più dato”, e l’ eco che strangola gli ultimi quattro versi: ” Non è più dato. Uno solo è il tempo, una sola / la morte, poche le ossessioni, poche/ le notti d’ amore, pochi i baci, poche le strade/ che portano fuori di noi, poche le poesie”. Così, en abîme, i singoli componimenti riproducono la funzione strutturante del “tema”: cioè la sua tendenza a saturare tutti i luoghi del libro, a ricondurli a un’ unica chiave ( interna, dunque, oltre che esterna. La spietata letteralità della morte colma il verso, lo satura delle sue lucenti stimmate negative ( Non è più dato… Non c’ era più tempo…).

    Viene da pensare a Campana, all’ incanto allucinatorio dei Canti Orfici ma soprattutto ( per l’ esplosivo incontro di catatonica iterazione e tragica negatività) alla terza poesia per Sibilla Aleramo ( ” In un momento / sono sfiorite le rose / (…) le rose che non erano le nostre rose/ le mie rose le sue rose”. Si veda, qui , la formidabile poesia sull’ asfalto di pag. 26. Allora è questo il primo, vero libro orfico di De Angelis: beninteso ove s’ intenda, l’ominosa categoria ( come per il Campana più essenziale), in negativo. Cioè, appunto, tragicamente. Non l’ ontologia della parola ma la sua schiacciante necessità e, insieme, il suo scacco ineluttabile. E’ per questo che le poesie sono poche. Non nel numero, bensì in quanto costitutivamente insufficienti: nell’ operazione di richiamare a sè coloro che non sono più. Poesia e cure mediche, così, si sovrappongono- ma entrambe sconfitte: ” queste poesie tornano nella loro grammatica. (…) / Sono morte. Si radunano lì. Hanno sbagliato,/hanno sbagliato l’ operazione”; ” non si trova la via per la sorgente, ma/ non si trova la vena, dio mio, non si trova. ” Cecidere manus . Così recita l’ incredibile finale di un’ altra poesia di colore stigio, d’ aere perso ( vi torna, infatti, il Leitmotiv dell’asfalto: ” torna, non tornare più/ qui, nella nostalgia dei viventi,torna/non tornare, ritorna, mai più. “Il destino di Orfeo è in sé contraddittorio e insufficiente, è lui stesso che, voltandosi ( come, etimologicamente, fa ogni verso…), decreta la fine del suo sogno d’ onnipotenza- cioè d’ eternità. Per condannarsi alla strage del tempo”.

    Andrea Cortellessa

  • Evitando d’inserire di Poesia 2.0 inutili doppioni e il rischio di un’antipatica concorrenza, avverto che la discussione sulla poesia e la figura di De Angelis ( e in particolare del suo rapporto con F. Fortini) prosegue ANCHE sul blog Moltinpoesia a questo link:

    http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/08/ennio-abate-appunti-sul-nodo-franco.html

    • Nessun rischio di antipatiche concorrenze, Ennio: per fortuna siamo al di fuori delle leggi del mercato. Grazie per la segnalazione!
      L.

  • 1) Credo che le regole che esistono in uno stato di diritto debbano valere anche per i rispondenti di un blog. Laura Canciani si è limitata a fare 10 domande e ha chiamato in causa due critici, non mi sembra un atto inverecondo. Le questioni sollevate sono molto complesse che esulano i limiti spaziali e tempo rali di un blog ma tentare di ragionarci su si può, anzi si deve, credo.

    2) a chi ha rispolverato la recensione di Fortini a “Terra del viso” (1985) di De Angelis vorrei dire alcune mie impressioni di lettore.

    3) ho l’impressione che la recensione di Fortini a “Terra del viso” sia un omaggio che l’anziano poeta rende a quello giovane e nuovo. E tale impressione la deduco dal tipo di critica che Fortini fa, direi di tipo impressionistico, con quell’epiteto «bellissima» addebitato all’«ultimo verso» di una poesia, dove si ha «un giuramento solitario» «di una podista sovietica che già morta taglia il filo di lana»; poi Fortini parla della «contraddizione tra ira e pietà» a proposito di una «poesia di pochi versi», etc. e via di questo passo. Ho l’impressione che l’analisi di Fortini è rivolta a qualche verso (riuscito) di qualche poesia, colto però nella sua episodicità e dis-continuità. È stato senz’altro un bel gesto di magnanimità critica quello di Fortini, oggi completamente caduto in disuso nella disparita società letteraria dove vanno di moda gli anatemi e le esclusioni. In un altro luogo Fortini scrive: «la sua (di De Angelis) solitudine è tanto più vera quanto più recitata»; ecco mi sembra un’altra locuzione di Fortini che lascia ad intendere un pensiero interrotto, e interrotto per non incalzare l’analisi critica oltre a un certo punto, oltre quel limen dopo il quale si deve passare alla analisi delle soluzioni poetiche aperte e/o discutibili.

    In fin dei conti, io direi che non dobbiamo fare neanche di Fortini un santino da adorare qualunque cosa abbia detto, fatto e scritto. Personalmente non sono un fortiniano, ma penso che tra Fortini e Sereni lo sconfitto sia stato il primo… e si badi che quanto dico io è stato scritto 30 anni fa da Giovanni Raboni in un pezzo che ho citato nel mio “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010)” che chiunque abbia dubbi lo può andare a spulciare. Dunque, è Raboni che a un certo punto intuisce (capisce) che la poesia it. ha iniziato un pendio declinante, un pendio epigonico, che quella strada aperta da Sereni (e da lui stesso) forse non avrebbe condotto la poesia it. che a un vicolo cieco. Perché, per chi non lo sappia, ci sono dei vicoli ciechi anche in letteratura. Una certa tradizione non equivale ad un’altra.
    Per tornare a De Angelis e alla sua poesia, direi che il suo modo di fare densità poetica attiene al modo più semplice, si affida alle capacità della «parola» scissa e disarticolata dalla sintassi tanto per colpire il lettore con effetti semantici dis-torcenti, anti-aderenti, sempre però nel quadro di una visione nostalgico-retorica che si richiama e si affida agli dèi e agli atleti dell’antica Grecia, che ammicca a un certo Nietzsche in una vulgata molto riduttiva, direi. Nella poesia deangelisiana il singolo lessema collide e frigge con altri che l’autore ammassa e accatasta in una rissa babelica e abnorme. Di qui un certo espressionismo quale volto del «dolore» (con annessa tutta la retorica compiaciuta degli stilemi di una certa critica accademica e celebrativa). Come ho già scritto più volte, nella poesia deangelisiana dopo i primi due libri “Somiglianze” del 1976 e “Millimetri”, questi difetti diventerano sempre più vistosi man mano che diventa manifesta la sclerosi multipla della significazione che quel tipo di procedura comportava.
    Oggi, a distanza di 30 anni rilevare questo fatto non mi sembra uno scandalo, non mi sembra una bestemmia. Oggi, quel tipo di «massimalismo» del dolore è diventato obitorio della significazione, isterilimento del discorso poetico.
    Sì, la poesia deangelisiana non rientra nel «minimalismo» (ma io non l’ho mai accorpata al minimalismo romano-milanese!), ma appartiene a una certa epoca della poesia it. da cui dobbiamo prendere le distanze (criticamente e operativamente). La mia è una valutazione critica, credo, non una bestemmia, non intendo offendere nessuno dicendo quello che dico, tantomeno De Angelis come persona. E, in un certo senso, viene incontro all’autore (e al lettore) indicandogli i limiti di una certa impostazione di poetica. A questo ritengo debba servire la critica intellettualmente libera che non sia solo celebrativa.

    giorgio linguaglossa

  • a dire il vero e considerando solo la pura nuda semplice umile & utile apparenza dei testi – la signora ha formulato 10 domande, nemmeno così assurde, tutt’altro. è stata più severa in altre parti, ma non qui: qui ha solo fatto domande. e una risposta di Cortellessa on line… chissà. a volte è accaduto. quanto a Berardinelli – dopo il pamphlet einaudiano… le risposte sono lì, credo.

    essere epigoni rispetto all’umano: AB docet (e nella sua bocca l’errore ha sapore, appunto: anche quando AB sbaglia).

  • Lei ha ragione, Signor Davide Sepe, ma non dia troppo peso a questi personaggi. Vivono di blog e non si staccano da lì. La suddetta grafomane avrà scritto una ventina di messaggi, tra un blog e l’altro, e ora aspetta un’ occasione per iniziare il ventunesimo.

    Signor Sepe, lei sembra appartenere al tempo eroico delle Riviste, quando c’era un direttore che sceglieva gli interventi. Direttore”responsabile”, appunto. No, no, no, qui tutto è permesso! Il blog è peggio di una trasmissione della De Filippi. E’ il regno della democrazia assoluta, del popolo al potere, del microfono aperto e spalancato, della signora grafomane che corregge le poesie!

    Perciò Davide, anima nobile, non perda più tempo con la signora. Glielo consiglio di cuore, perché lei mi è caro e perché sento che ha qualcosa di importante da dire… e poi perché ci sono cascata anch’io, lo vede, da toscana litigiosa quale sono!

    Elena

  • Ritengo che, giustamente, così com’ è accaduto nel dibattito avvenuto nel sito di Lietocolle, non si debba rispondere ad una persona faziosa e maliziosa come lei. Perchè mai due critici seri, Berardinelli e Cortellessa, con i loro dubbi e interrogativi a volte senza risposta o con risposte parziali e comunque aperte, o con le loro contraddizioni a volte, in ogni caso nutritive, dovrebbero regalare la loro opinione alla Santanchè della critica nei blog, che si esprime come autentica figlia dell’ odio? Il suo non è desiderio di confronto, nè mi interessa sapere di che si tratta, so di certo che non fa del bene a nessuno, tantomeno alla poesia e al dibattito che ruota attorno alla sua fragilità e e delicatezza. Non si fa critica mettendo al rogo, dando in pasto alla folla assetata esigendo consenso e plauso.
    Impari con umiltà e garbo da chi sa far critica.
    d.s.

  • il 5 ottobtr 2011 scrivevo questo commento in un dibattito avvenuto sul sito Lietocolle ma da allora non ho ottenuto nessuna risposta. Lo ripropongo:

    … Alfonso Berardinelli afferma di nutrire stima soltanto verso 10 poeti del Novecento ma omette di farne i nomi, a suo dire, per non crearsi antipatie e inimicizie tra coloro che non sono segnalati… a sua volta Andrea Cortellessa afferma perentoriamene che la poesia oggi è qualitativamente superiore alla narrativa (ma anche lui omette di indicare chi siano i beneficiari della sua stima in poesia)…
    di questo passo si rischia di andare avanti all’infinito a parlare, tra censure e autocensure, di un bel nulla…
    io invece ritengo che la poesia la si trova nei libri di poesia scritti da persone in carne ed ossa…
    A scanso di battute e di facili effetti giornalistici, mi piacerebbe conoscere l’opinione di Cortellessa e di Berardinelli sul libro di Giorgio Linguaglossa «Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010), recentemente uscito per EdiLet di Roma.
    Sarei curiosa di conoscere la loro opinione sulle questioni sollevate da Linguaglossa che qui riassumo:

    1)sul concetto di “Bellezza” che negli anni Ottanta e Novanta ne hanno dato i mitomodernisti;
    2) il loro pensiero su concetti quali: “l’esistenzialismo milanese”, il “minimalismo” il “modernismo”; le categorie storico-temporali: “gli anni Settanta”, “gli anni Ottanta”, “gli anni Novanta”, “verso gli anni Dieci”, etc.;
    3)è fondata la tesi dei nodi irrisolti della poesia italiana del secondo Novecento, affrontati nel capitolo “gli anni Sessanta”?
    4) è fondata la tesi del nodo fondamentale che né Pasolini, né Montale, né la neoavanguardia né nessun altro aveva affrontato (la deriva verso la narratività)?; e che quel nodo irrisolto sarà destinato a ripresentarsi, come un bubbone, ingrossato, ad ogni generazione, in attesa di una soluzione?;
    5)è fondata la tesi di Linguaglossa che parla esplicitamente di “modello maggioritario” che si è imposto dopo la “sconfitta” di Fortini e di Ripellino, con conseguente instradamento della poesia italiana nell’alveo del “riformismo moderato” della riforma sereniana?;
    6) è fondata la tesi di Linguaglossa secondo il quale che il più grande poeta degli anni Cinquanta è un certo Ennio Flaiano (il quale si opponeva allo sperimentalismo e al linguaggio poetico postquasimodiano)?;
    7) è fondata la tesi di Linguaglossa il quale cita un giudizio del tardo Giovanni Raboni, il quale mette in rilievo che forse la riforma sereniana, a fronte della ipotesi di riforma indicata da Franco Fortini, era una piccola riforma e che la poesia italiana che seguirà la strada aperta da Sereni si avvierà verso una poesia più facile e leggibile (e quindi più conformista)?;
    mi sembra che nel libro Linguaglossa abbia messo molta carne al fuoco… l’autore dice che sono state combattute delle battaglie, ci sono stati degli sconfitti e dei vincitori, Chi sono gli sconfitti? Chi sono i vincitori? vogliamo dirlo?
    9) e poi, la domanda più pressante al quale il libro tenta di dare una risposta, che ne è rimasto del minimalismo romano-milanese?
    10) c’è per la poesia italiana contemporanea un futuro? C’è concretamente la possibilità che qualcuno dei balbettanti autori di oggi buchi la cortina fumogena del tetragono conformismo quale si è instaurato in Italia (anche grazie ai silenzi dei critici opportunisti)?

    grazie, attendo una risposta.

    Laura Canciani

  • il Potere! aaah!

    dal punto di vista del prâgma, cioè della realtà dei molti: ha più potere un avvocato che collabora con un carrozziere per liquidare danni; ha più potere un amministratore di condominio (per la parte… come dire?… *non visibile* del suo operato); e ha più potere chi chiedeva (e otteneva) 70 milioni per farti passare il test d’ingresso a Medicina. tra l’uomo-della-strada e il Cefis di ieri o il Monti di oggi c’è un tessuto di micropoteri *decisivi* sul tuo destino, vere e proprie *autorità karmiche*.

    [e per inciso: è uno dei motivi per cui non ci sarà mai una rivoluzione]

    Milo De Angelis ha – semmai – autorità. solo che la sua autorità riguarda un gruppo umano tanto piccolo da poter entrare *tutto* nel giardino di Leopardi, quello delle api che succhiano *crudelmente* i gigli. niente di meno, niente di più.

    il problema è un altro, e questo dibattito me lo ha fatto ricordare: la poesia, chi se ne DEVE occupare? dico sul serio (e non rispondo: i lettori; i lettori sono altri poeti, colleghi in poesia – e non è questo che conta). la poesia è un’arte UMANISTICA per gli UMANISTI – e quindi ha il *successo* medio di un’operazione *umanistica*? o ha legàmi – io NON li vedo – con la société du spectacle? forse leggiamo un fenomeno umanistico con la nostalgia e/o la deformazione visiva di uno spettacolo che la poesia non può avere.

    rispetto alla società dello spettacolo la poesia *è un’arte applicata* (ricordo che scandalizzai Fantuzzi, quando glielo dissi… “per favore, non mi dire che la poesia è un’arte applicata”). sì: applicata ad un certo cinema (i commenti off alla Bocca del lupo o al Cielo sopra Berlino), applicata ad un certo modo di cantare (da Lindo Ferretti agli Anni Zero di Ottavia Fusco), ad un certo tipo di teatro (le canzoni-poesie di Emma Dante). pura, applicata al rettangolo di carta editoriale, la poesia non regge. cioè: regge come cosa privata, ma la Société non se ne occupa. e De Angelis fa parte di questo sistema. piaccia o non piaccia, il pubblico non c’è, dunque non c’è potere; c’è autorità, sì – ma non conta VERAMENTE nulla, oggi, l’autorità. [e questo NON libera De Angelis da una responsabilità *morale* nei confronti di ammiratori ed epigoni, se epigoni ci sono – lui lo nega]

    la S. du S. si occupa della poesia quando la poesia diventa servile – o collaborante. (o Dio, ho immaginato una poesia *collaborazionista*!) (sarà per questo che provo un certo disgusto per nome-ruolo-parola *poeta*; lessi in Buber qualcosa di simile sul santo nome di Dio, ex santo). è shabbàt – giorno di discussioni dolci.

  • Scusi, signor Rossi, ma non capisco quale potere avrebbe mai Milo De Angelis. Non scrive sui giornali, non lavora nell’editoria o nel mondo accademico, non dirige festival, convegni o trasmissioni. Si guadagna la vita, a quanto mi risulta, insegnando tutti i giorni in un carcere, con il favoloso stipendio di un professore di lettere. Non capisco proprio di quale Potere lei stia parlando.

    Robi

  • @linguaglossa

    Ma quale consenso diffuso? Io in questi anni sono entrato in diverse giurie popolari e non ho mai visto premiare Milo De Angelis. E’ difficile e anche astruso, illeggibile da cima a fondo. I poeti premiati da queste giurie sono di un altro tipo e si fanno capire, ciascuno a modo suo e col suo stile. De Angelis, colla sua poesia “misteriosa”, ha anche qualcosa di aristocratico che mi dà fastidio. Deve essere, a naso, uno di destra. Non so perché la critica se lo coccola tanto e i blog gli danno spazio. Sarà perché è uno di Potere?

    Rossi

  • Nel 1912 il “Manifesto Tecnico della Letteratura futurista” afferma che non bisogna più usare gli aggettivi: “tolgono dinamismo alla parola”. Aggiunge che occorre liquidare Pascoli e D’Annunzio, poeti sentimentali. Si è visto poi chi è rimasto e chi no. Nel 1962 Alfredo Giuliani, poeta e teorico del Gruppo ’63, scrive che Bassani e Cassola, Pavese e Pasolini, rappresentano il patetismo: “saranno dimenticati!” Si è visto anche questo. Nel 2012 un nuovo critico sbandiera attraverso i blog che i vari Cucchi, Anedda, De Angelis, Benedetti sono “sentimentali”. Insomma, ogni cinquant’anni escono dalla tomba gli avversari del sentimento, quelli che scambiano il patos con il patetismo. Patetici!

    Luigi

  • Caro Ennio Abate,
    credo che siamo d’accordo sulla denuncia del degrado della poesia italiana post-fortiniana quando un De Angelis viene acclamato dai suoi tifosi come il più grande poeta degli ultimi 40 anni. Ma si tratta di tifo, e di fede. E, notoriamente, con i tifosi e con i credenti non si può discutere. Il problema centrale l’aveva già visto Fortini con quella frase che anche tu hai riportato:
    «La poesia deve proporsi la raffigurazione di oggetti (condizioni rapporti) non quella dei sentimenti. Quanto maggiore è il consenso sui fondamenti della commozione tanto più l’atto lirico è confermativo del sistema».
    Tu dici: Linguaglossa «non si è fermato a sufficienza sulle ragioni politiche che fanno dell’atto lirico (deangelisiano, in questo caso) una conferma del sistema. (Quale sistema? Solo quello poetico?)».
    Ma caro Ennio, qui il problema non è stilistico, non è solo estetico ma politico in senso generale; il consenso sui fondamenti del patetismo (fondamento del consenso del Ceto Medio Mediatico) è il fondamento che tiene insieme i ceti sociali più disparati. In chiave politica questo fenomeno è trasversale a tutti i ceti, e non fanno eccezione i ceti cd. delle professioni intellettuali e degli stessi letterati. In chiave politica il patetico, il sentimentale, l’ambascia dell’io con i suoi problemi con il tu della poesia post-deangelisiana (due nomi per tutti Mariangela Gualtieri e A. Anedda) formano il quadro, diciamo, politico-estetico, lo zoccolo di un gusto, di un modo di sentire, di vedere il mondo. È il fondamento dei fondamenti che produce consenso e omologazione a vari livelli, nel politico e nell’estetico «diffuso».
    In questo fenomeno macro culturale, ovviamente, la poesia di De Angelis passa in secondo piano.
    Il fondamento del gusto estetico diventa la Moda.

  • Alcune postille in margine agli Appunti di Ennio Abate:

    La lettera-saggio di Hugo von Hofmannsthal, conosciuta come Lettera di Lord Chandos, venne scritta nel 1902. Nella lettera, Lord Chandos si rivolge al suo vecchio amico, Francesco Bacone, per spiegargli perché ha tanto amaramente deluso le speranze del defunto Lord Cancelliere, interrompendo la propria attività di poeta (la lettera riepiloga l’abbandono da parte del giovanissimo Hofmannsthal della poesia, dopo aver composto poesie eccezionalmente belle). La lettera concerne il linguaggio e il suo assottigliarsi nel silenzio, il dire e l’indicibile, la tradizione e il suo dissolvimento.
    Hofmannsthal, nelle vesti di Lord Chandos, confessa che le parole che la letteratura è solita adoperare per trattare i temi tradizionali non dicono più nulla al suo spirito. Al contrario, esse gli appaiono false, poiché simulano il mito di un significato al quale si dichiara incapace di reagire. Egli ha perduto «ogni facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento». Ormai, soltanto accadimenti in apparenza del tutto trascurabili sono in grado di suscitare in lui forti emozioni, spesso irresistibili, anzi una sorta di entusiasmo mistico, ineffabile e incomunicabile dal momento che l’intensità del sentimento è del tutto indipendente dalla banalità della sua causa accidentale. Non sono la bellezza di Elena, la fondazione di Roma, o l’omicidio di un re a costituire la «datità» che T.S. Eliot avrebbe in seguito chiamato il «corelativo oggettivo di una potente emozione». Non sono, in realtà, null’altro che «cose da nulla» escluse per sempre dal repertorio della poesia elevata: «Un innaffiatoio, un erpice abbandonato su un campo, un cane al sole, un povero cimitero, uno storpio, una piccola casa di contadini, in tutto ciò mi si può palesare la rivelazione {e} ciascuna di queste cose… può assumere un colore nobile e toccante, che nessuna parola mi pare atta a rendere».
    Un aristocratico dell’epoca elisabettiana non avrebbe mai redatto una lettera come questa, la problematica dibattuta per la prima volta in modo compiuto ed esauriente, è tipicamente novecentesca, e d’ora in avanti nessun poeta degno di questo nome non potrà non assumerla con tutto il carico di conseguenze in sede estetica che ne deriveranno.
    Come si è già ricordato, nel 1905 appare la prima opera poetica di Aldo Palazzeschi; nel 1908 la prima raccolta di Ezra Pound; l’anno seguente compaiono i primi versi di William Carlos Williams, l’Image à Crusoé di Saint-John Perse. Il manifesto del Futurismo è del 1907. Nel 1907 e nel 1908 Rilke pubblica i due volumi delle Neue Gedichte. Nel 1910, con lo Sturm e l’Aktion, entra in scena in Germania l’espressionismo; nel medesimo anno in Russia Chlébnikov dà alle stampe le sue poesie; le prime poesie di Osip Mandel’stam appaiono nel 1910 su «Apollon», la rivista letteraria intorno alla quale prendeva corpo una nuova scuola poetica: l’acmeismo che contava tra i suoi adepti l’Achmatova e Gumilëv. Nel medesimo anno Kavafis stampa le sue prime poesie ad Alessandria. Il 1912 fu l’inno di Guilllaume Apollinaire, di Gottfried Benn, di Max Jacob, di Vladimir Majakovskij. Il 1913 vede l’esordio di Giuseppe Ungaretti e di Boris Pasternak. Sono date di eccezionale importanza: in pochi anni la questione del fare poesia moderna non sarà più faccenda di singole opere ed autori isolati che vivono estranei in un tempo loro estraneo. La poesia moderna è diventata contemporanea. Le opere che vengono alla luce ormai si inseriscono necessariamente in un contesto internazionale. Un mutamento qualitativo che non ha precedenti che va oltre le singole barriere nazionali. Nei pochi decenni che seguono il 1910, la poesia moderna si è ormai internazionalizzata. Il concetto di letteratura mondiale è ormai un dato di fatto incontrovertibile, le barriere nazionali non si frappongono più alle novità. Alcuni poeti, fra i più rappresentativi, coscienti di questo fenomeno di internazionalizzazione della poesia, vi contribuiscono con una assidua opera di traduzione e mediante saggi critici ed informativi. Tuttavia, al di là dei rapporti di reciproca dipendenza ed informazione, quello che colpisce è la spontaneità e la contestualità temporale del fenomeno. La vera novità del fenomeno non è data dalla eventuale conoscenza reciproca dei poeti, dalla reciproca conoscenza dei rispettivi testi, ma, al contrario, dal fatto che, nelle più diverse zone del mondo, autori che mai avevano sentito parlare gli uni degli altri, si pongono le stesse problematiche, risolvendole in modo analogo.

    la retroguardia postuma degli anni Novanta

    Durante gli anni Novanta del Novecento si verifica un fenomeno del tutto nuovo nella poesia italiana contemporanea, viene svolta una riflessione sul concetto del carattere postumo della poesia e della letteratura in generale. La poesia, regina delle sorelle arti, viene deposta dall’altare laico della letteratura e cade nella polvere. Corrono al suo capezzale stuoli di critici e poeti a tentare di farla rinsavire o riprendere, ma con raccapriccio scoprono che non si tratta di un semplice svenimento ma di un coma profondo. È a questo punto estremo della crisi che vengono poste le basi di una poetica di matrice modernista: si pensi alla speculazione di un filosofo-poeta come Roberto Bertoldo il cui primo lavoro filosofico Nullismo e letteratura è del 1998, al quale seguirà nel 2003 il determinante Principi di fenomenognomica con applicazione alla letteratura; si pensi al Manifesto della Nuova Poesia Metafisica pubblicato su «Poiesis» nel 1995. Le riviste che speculano intorno alla problematica della «retroguardia critica» del discorso poetico sono: «Poiesis» diretta da Giorgio Linguaglossa e «Hebenon» diretta da Roberto Bertoldo. Teorizzazioni che intendono introdurre nella poesia italiana uno zoccolo correttivo, un plantare critico, un dispositivo estetico che si pone il problema della rifondazione del discorso poetico mediante la presa d’atto dell’ineluttabile eclisse della poesia del Novecento. La poesia di Alfredo Rienzi già da Oltrelinee (del 1994) prende le distanze da una poesia che costeggia i linguaggi della media-sfera per concentrarsi su un discorso poetico che ha fatto i conti in tasca alla condizione del proprio essere postuma, per una poesia in posizione di retroguardia critica rispetto ai processi di modernizzazione del linguaggio poetico. Rienzi comprende che non c’è più nulla da modernizzare, tantomeno il linguaggio poetico, che il problema non è più quello di chi sta più in avanti o più indietro, quanto piuttosto nel trattamento di una tematica. Con l’ingresso del tardo Moderno siamo diventati tutti postumi, non soltanto come condizione esistenziale ma come condizione ontologica, storica ed epistemologica. E il poeta è un porta-voce, colui che, semplicemente, porta la propria voce dentro una sottilissima e fragilissima teca di cristallo, che parla una sua lingua incomprensibile.
    La fine del Novecento in Italia vede un proliferare di poetiche epigoniche in fase di dissoluzione. Eclissatasi la generazione dei «padri» (Andrea Zanzotto, Giovanni Raboni,), sono rimaste in vita, in un clima di generalizzata adeguazione alle istituzioni stilistiche, le poetiche post-orfiche, nel versante mitomodernista (Giuseppe Conte), i post-manieristi (Patrizia Valduga, Eugenio De Signoribus), i dialettali che sopravvivono in un asfittico recinto culturale (il solo Dante Maffìa, con la sua trilogia nel dialetto di Roseto capo Spulico: A vite i tutte i jùrne del 1987, U ddije poverille del 1990 e I ruspe cannarùte del 1995, libri editi da Scheiwiller, sembra uscire dalla norma dell’hortus conclusus). C’è poi la fase epigonica delle post-avanguardie: il Gruppo ‘93. Resterà impregiudicata l’egemonia della principale istituzione stilistica: l’area milanese (Giovanni Raboni, Maurizio Cucchi e Milo De Angelis, Mario Benedetti, Antonio Riccardi e altri minori), con spunti di esistenzialismo, seguita da una nuvola gassosa, nei suoi versanti epigonici, quale espressione involutiva di una impostazione culturale nostalgico-restaurativa.
    «Nell’alternarsi delle scuole letterarie – afferma Sklovskij – l’eredità non passa di padre in figlio, ma dallo zio al nipote». Così accade che un poeta di stampo squisitamente modernista come Alfredo Rienzi si volga all’indietro con uno sguardo strabico e sincipitale: è a poeti russi come Mandel’stam e Arsenij Tarkovskij su cui si appunta la lettura del poeta piemontese, ai maestri della poesia del modernismo europeo che giunge già «postuma» dopo il vittorioso ingresso della rivoluzione d’ottobre.
    Così, la causa che ha determinato l’epidemia del minimalismo e delle poetiche deboli della fine del Novecento in Italia, è la medesima che ha determinato il sorgere da noi di una poesia di impianto postumo-modernista. A monte c’era l’assenza di un simbolismo italiano, a valle era visibile un vuoto stilistico che bisognava colmare. La crisi del simbolismo, che in alcuni paesi d’Eurolandia fu proficua, in Italia produce lo «sperimentalismo consapevole» della neoavanguardia. Montale è l’ultimo poeta che utilizza il traliccio pascoliano per edificare una poetica metafisica (un po’ come in pittura De Chirico prosciuga la tradizione dei paesaggi urbani inventando una pittura metafisica con l’innesto di icone significative della cultura che segue alla crisi del simbolismo). Montale, ma dopo di lui, Lorenzo Calogero, Franco Fortini, Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca e, negli anni a noi più vicini Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Maria Marchesi fanno una operazione culturale straordinariamente utile: traducono la crisi del simbolismo europeo importando questa crisi nei rispettivi dispositivi estetici. Farà scuola, invece, il secondo Montale, di Satura (1971), quello, per intenderci, che edifica uno stile alto-borghese un agile stile da esportazione, giornalistico, che abbassa, con le dita macchiate d’inchiostro, la costruzione poetica al livello della utenza di massa.
    Per Umberto Saba il discorso è diverso: la sua estraneità alla tradizione italiana del primo Novecento, con annesse le estreme propaggini ermetiche, lo costringe ad una posizione di marginalità e inattualità. Saba vede con chiarezza la crisi della filosofia idealistica del Croce senza riuscire peraltro ad individuare un dispositivo estetico che traduca in «rappresentazione» la crisi dell’idealismo. Le parole di Saba riescono ancor oggi le più chiare che un poeta italiano dell’epoca abbia pronunciato in proposito. Scriverà Saba in quegli anni: «Ultimo Croce. In una casa dove uno s’impicca, altri si ammazzano fra di loro, altri si danno alla prostituzione o muoiono faticosamente di fame, altri ancora vengono avviati al carcere o al manicomio, si apre una porta e si vede una vecchia signora che suona – molto bene la spinetta».
    Tutta la poesia italiana del Novecento resta così impigliata in una contraddizione: saltare il Pascoli all’indietro o tentare la costruzione di un nuovo linguaggio poetico saltando, in avanti, il modello pascoliano. Dino Campana opterà per la prima soluzione, riuscirà ma resterà un isolato; Sandro Penna costruirà dei cammei, dei nitidi ed eufonici «quadretti» ma nulla di più. Una vera rottura la si ha con il Pavese di Lavorare stanca (1936), ma anche qui si tratta di un prestito forzoso, il tentativo di recuperare il respiro largo di Witman e la necessità di abbassare il linguaggio poetico sono direzioni divergenti non componibili all’interno di uno stile. Così, il suo stile appare più il frutto di una traduzione dall’inglese in italiano piuttosto che il risultato di una operazione di poesia in italiano.
    Ancora una volta, all’aggravarsi della crisi economica e politica del tardo Novecento, anche in Rienzi, come in altri poeti italiani, si ripresenta il problema rimosso: saltare il guado dei linguaggi dell’inconsapevolezza del nesso che lega l’estroflessione dell’io al minimalismo. Dal punto di vista della de-psicologizzazione del discorso poetico, possiamo considerare il percorso poetico di Alfredo Rienzi come uno dei più seri tentativi di costruire una poesia modernista con un impianto stilistico di stampo pre-sperimentale; vale come prova a suo discarico la nettezza con cui rigetta la poesia dell’immediatezza del minimalismo per un discorso poetico filtrato al vaglio della mediazione simbolica. Non a caso man mano che la consapevolezza di questi nessi problematici si affina (durante gli anni Novanta) la poesia di Rienzi acquisisce la maturità del grande stile. Anche il verso si allunga come per abbracciare una più grande quantità di mondo, assume una posa «imperiale», un sussiego del passo per la «visione alta» del nibbio, dell’aquila.
    Nella storia non c’è mai ripetizione, nulla scompare, tutto ritorna ma con una forma mutata, irriconoscibile. È così che si presenta la poesia della maturità di Alfredo Rienzi, uno dei maggiori esponenti dell’arcipelago degli anni Novanta, di quella generazione invisibile che ha preso sulle proprie spalle l’ultimo atto della crisi novecentesca della poesia: quella poesia che ha dichiarato in modo plateale e manifesto il proprio essere postuma.

    Nella «nuova poesia» ritorna l’immagine, l’«oggetto» colto nella sua fisiologia, nella stratigrafia della metafora, la fenomenologia della «supercifie» dei linguaggi dell’ipermoderno; ritornano il «quotidiano», la «cronaca», il «privato», il «tema» visti attraverso un filtro nuovo; ritorna l’estraneazione di una «distanza» o di una «vicinanza» agli «oggetti». Ad esempio, nella poesia di Aldo Nove abbiamo il trattamento della superficie dei linguaggi dell’ipermoderno come squadernato davanti al lettore, con effetti di lacerante umorismo; nella poesia Roberto Bertoldo l’immagine è la forma dell’assenza e, al contempo, forma della presenza, forma della presenza dell’assenza. Sorge, per la prima volta nel corso della poesia italiana del Novecento, una corrente metaforica, un modo di fare poesia e di intendere la lettura del mondo attraverso la lente di ingrandimento dell’immagine e della metafora. Detto così, sembra una novità trascurabile, ma se si guarda con attenzione al secondo Novecento, la scelta di un discorso poetico privo di immagini e di metafore, sostenuta dagli opposti versanti dell’area lombarda e dello sperimentalismo, ha finito per condurre la poesia italiana di fine secolo verso il collo di bottiglia della riproposizione di una poesia-colloquio di derivazione narrativa, una koiné pseudo-narrativa, uno stile da esportazione, un dettato marcatamente privo di stile, verso la commistione di «quotidiano» e linguaggio del quotidiano.
    La poesia degli anni Novanta pone invece con forza un problema che era stato disconosciuto e anche dileggiato nel secondo Novecento: il problema dell’«interlocutore» e di un diverso modo di concepire il rapporto con il pubblico. Si ricomincia dall’«oggetto», dal «soggetto», dal «tema» e dal «reale». Si torna al problema del «chi parla?», si ritorna a riflettere sul rapporto dialettico che lega, per usare categorie marxiane, lo stile al «tema», il «soggetto» all’«oggetto»: «l’oggetto artistico – e allo stesso modo qualsiasi altro prodotto scrive Marx nei Grundrisse – crea un pubblico sensibile all’arte e capace di godimento estetico. La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto». Si ricomincia daccapo. Ma è un inizio che avviene in ritardo, quando ormai le condizioni del fare poesia in Italia sono particolarmente sfavorevoli.

    verso gli anni Dieci

    «Tirare con l’arco al bersaglio» (dal greco stochazesthai) è la locuzione che Bateson sceglie per descrivere l’evoluzione biologica e il processo di apprendimento, ambedue processi stocastici, che dipendono cioè da un meccanismo selettivo e da una componente casuale. Direi che nel tardo Novecento avviene che l’arte assume su di sé una marcata connotazione stocastica, si pone il compito del tiro al bersaglio come ultimo tentativo di sopravvivenza. Affiora, nella «nuova poesia», una spiccata sensibilità per il tragico, vengono abbandonate, e per sempre, le parole d’ordine della «parola innamorata» e della «poesia della contraddizione» in voga negli anni Settanta-Ottanta, si ritorna alle origini, ai poeti dell’alba della modernità: Hölderlin e Leopardi, ai giganti di una poesia in rotta di collisione con l’ideologia del progresso e dell’accumulo del capitale ma senza più il retaggio di alcuna impalcatura idelogica, senza alcuna prospettiva di alcuna utopia. I referenti europei sono: i polacchi Milosz, Herbert, la Szymborska e i russi Mandel’stam e Brodskij. Cresce la consapevolezza che realmente atopico è il discorso poetico, situato in un «altro» versante rispetto al «reale», o piuttosto, non nel «mondo» ma nell’antimondo. Avviene che la generazione degli anni Novanta non riconosce più alcune «autorità», non quella dei «padri» ma rivolge la propria attenzione ai «maestri» in ombra.
    È una generazione che non ha più nulla da chiedere ai «maestri in ombra». Franco Fortini è diventato un estraneo, Angelo Maria Ripellino è considerato lontano ed inutilizzabile, Ennio Flaiano non esiste, è scomparso; Lorenzo Calogero appare invecchiato ed infungibile. Tra i grandi, resta Mario Luzi, ma un po’ come il Colosseo, un monumento cui si getta un’occhiata e si va via. La tradizione si presenta agli occhi della generazione che produce opere significative negli anni Novanta come un cumulo di detriti e di macerie. È di qui che prende le mosse la poesia di Simmetrie (2000) e Custodi e invasori (2005) di Rienzi, dalla riflessione sulle cause che hanno originato l’orizzonte del postumo.
    È un parlare alla luna quello de La parola postuma (2005-2011) gli inediti in calce al volume.
    Mai come nel momento attuale sembra inverarsi quella frase di Adorno secondo cui la tradizione «si trova oggi davanti a una contraddizione insolubile: nessuna è attuale né da resuscitare, ma quando ogni tradizione è spenta, la marcia verso la disumanità è cominciata».

    Ma l’ora è valicata:
    nessun accadimento ha scosso i fili d’erba e i crochi bianchi
    più della luce che li benedice
    o la fibra contrattile del cuore, la retina, il midollo, la rete neuronale e
    lo scisto carbonioso, la roccia con il muschio
    il corvo ravveduto di passaggio

    l’ora era errata?
    resta il presagio, cupo e disperante. (versi di Alfredo Rienzi)

    Giorgio Linguaglossa

  • @ Laura Canciani,

    Signora, ma sa che lei è una prepotente? Vuole salire in cattedra al mio posto? Se un insegnante inserisce un autore nel suo programma, è perché lo
    ha studiato da anni ed è convinto di quello che fa. Crede di saperne più di me?

    Maria Greco

  • @Maria Greco
    mi scusi professoressa ma le devo dire che la poesia che lei trova bella io la trovo patetica, ampollosa e retorica, con quella triplice rima interna da brivido «bella», «stella», «Donatella», con l’invito a baciare le ginocchia della morta (perché la DOnatella è morta, vero? anche se nel testo non lo si dice), tutto il climax della composizione fa leva sulla povera morta, un’operaia della «Oviesse» che fa la bella rima con «piangesse» (terribilmente annunciata e patetica). tutto il componimento è spostato sull’asse del tenero e del cuore, vuole intenerire il lettore palesandogli (con abili e retorici fotogrammi che scorrono) la povera morte della Donatella. Ma, furbescamente, nella composizione non si dice come è morta Donatella, se per un incidente sul lavoro, un incidente stradale, un collasso, se le ha sparato qualche malavitoso milanese, se è scivolata in un burrone, etc. Il Male aleggia, il destino aleggia misterioso e terribile, tutto avviene per forze misteriose esterne, eterne, imperturbabili, incomprensibili… e così il reale viene accolto feticizzato e impacchettato all’interno della poesia… con il retro pensiero sottinteso di quel brutto «reale», quel brutto «destino», quel brutto «mondo» e via cantando.
    A me il tema sembra terribilmente banale e la resa poetica rabberciata con il peggior sentimentalismo. Ma davvero, prof.ssa Greco, vuole ammannire ai ragazzi questa modesta poesia? Ma De Angelis ne ha di meno peggiori! Gliel’assicuro! – oppure potrebbe passare alla lettura di qualche poeta di maggior spessore, diciamo, un certo poeta svedese vincitore del Nobel per la letteratura del 2011, Tomas Transtromer, che è tutt’altra cosa, li non ci troverà effevescenti sentimentalismi, tenerume e patetico da brivido!
    Se no ci sono i classici del Novecento, che so, Eliot, che so Wallace Stevens, C.W. Williams, i ragazzi avrebbero qualcosa da imparare…

  • @Linguaglossa: ora ho più chiaro il senso del “centro di gravità poetico” e, sinceramente, mi sento sollevato (ma non avevo dubbi fosse così) che si stesse parlando di focalizzare l’attenzione anche su ALTRI modi di fare poesia e non SUL MODO VERO di fare poesia. Il piccolo dubbio che avevo è stato dissolto – è che a me i canoni piacciono, IL CANONE mi piace meno.

    Per quanto riguarda il conoscere anche “altri poeti” ripeto: P2.0 è apertissima ad accogliere il lavoro degno di attenzione di tutti i poeti- Almeno questo è ciò a cui aspira. Senza volere per forza stabilire UN CANONE, ma sicuramente con la voglia di esplorare I CANONI esistenti e quelli a venire. Con la curiosit`di un bimbo che vuole capire cos’è esattamente che gli succede attorno e, soprattutto, dentro.
    Invito dunque chiunque volesse, a mettersi in contatto con la redazione: le porte sono aperte – anzi, non le abbiamo mai messe.

    Luigi B.

  • Scusate, chiarisco meglio. Il mio libro di testo (De Simone- Gusmini, ed. Le Monnier) è eccellente e ben aggiornato, però contiene una sola poesia di De Angelis. Vorrei spiegare in classe quel breve poemetto “Donatella” indicato da Affinati, che anch’io considero un piccolo capolavoro. Ma di quale “Arena” si parla? Cosa significa “la sta semper de per lé” e via dicendo. E ancora una piccola informazione, se non chiedo troppo. Come mettersi in contatto con Eraldo Affinati?

    Maria

  • Riporto integralmente un brano del pezzo critico di Sebastiano Aglieco dedicato alla poesia di De Angelis:

    «È in questa urbanità periferica che si situa ogni nostra storia. Si tratta, più umilmente, di una cronaca, priva dei vessilli alti e lusinghieri dei grandi accadimenti; e il tono delle parole, quelle che tutti i giorni pronunciamo senza le formule della retorica, delle ricorrenze e delle parate, è la nostra intima lingua che ci lega al sentire. È solo in questa lingua bassa che possiamo trovare la formula della preghiera. Ma in un teatro moderno gli spettatori non sono accomunati dall’antico rito dell’Assemblea; non possono assistere allo stesso racconto in un tempo e in un luogo identico per tutti. Non sono più capaci di rimandare, in coro, la stessa domanda a uno stesso dio silenzioso.
    La preghiera dei moderni è un atto semplice, personale, che solo un dio benevolo, nostro fratello, potrebbe accogliere. E così non è. Il luogo e il tempo sono quelli del nostro personale dolore, ma questo corteggia, o desidera, l’unione in una rosa, quel simbolo, altissimo dell’assoluto che ha attraversato tutte le culture. Nella contemplazione di una rosa c’è la richiesta di un pensiero immobile, fermato, «il luogo del fiore senza età» in cui l’ignoto non può che inchinarsi allo splendore del non accaduto, del mai donato al mondo».

    E mi chiedo: di chi e di che cosa si sta parlando? A chi è indirizzato questo «pezzo» di squisita retorica? Che cosa significa (dico in termini critici) questa sublime apoteosi? Si vuole forse adombrare l’ingresso al sacro recinto delle Muse? Che significa tutto questo insistere sul «dolore», sul «simbolo altissimo dell’assoluto»? Che cosa significa questa fraseologia: «l’ignoto non può che inchinarsi allo splendore del non accaduto»? Che cosa significa, in termini critici, la fraseologia «è la nostra intima lingua che ci lega al sentire».? E via cantando.
    È ovvio che qui Aglieco sia scivolato sulla buccia di banana delle frasi fatte per piacere al Poeta-vate. Ma non è un linguaggio critico, è un linguaggio liturgico, appunto, da carbonari, da indiziati ad un rito misterico, orfico, in onodre del Dio simbolico.
    E vorrei dire, con tutta la semplicità possibile ad Aglieco che quel suo linguaggio ierofanico non conduce ad alcun luogo, non significa nulla. È un linguaggio che fa il pieno di formule liturgiche buone per tutti gli usi apotropaici e magici (per intimidire il lettore digiuno di cultura), è un linguaggio di accompagnamento al rito nuziale, al talamo nuziale dello sposalizio con la poesia numinosa e virginea di De Angelis. Insomma, non è una cosa seria da prendere in seria considerazione. È, al massimo, un’offerta votiva al Numen.
    Il linguaggio critico è altra cosa. E lo dico io che non mi permetto di definirmi una critica. Il mio rispetto per il vero linguaggio critico è massimo. Il fatto è che è talmente diffusa la carenza di cultura critica presso i più giovani che essi non riescono neanche a fare un elementare distinguo tra un pensiero critico e un pensiero di«corteggiamento», di «accompagnamento», con la conseguenza di fare una terribile confusione tra i linguaggi della persuasione e della rettorica.
    Ma la critica è un’altra cosa. Non me ne voglia il Sig. Aglieco.

  • Buon giorno. Sono un’insegnante di italiano del biennio. Vorrei domandare a Roberto Russo (o altri competenti) se esiste un commento scolastico delle poesie di Milo De Angelis, che le affronti parola per parola, come fa Daniele Barbieri nel suo blog con la poesia “A volte, sull’orlo della notte” . C’è qualche libro di testo che fa questo genere di analisi? Grazie.

    Maria Greco

  • @ Abate.
    Si, hai ragione, io rispetto De Angelis, sono cauto nel valutarlo e non rigetto quanto di buono ha fatto nel tentare di non farsi schiacciare dallo sperimentalismo. Del resto Bigongiari e Fortini sono stati per lui, inizialmente, una buona palestra. Se penso a Bigongiari, persona splendida, intellettuale finissimo nonostante fosse poeta manierista – e purtroppo questo mio giudizio espresso nel 1980 mi fece perdere la sua amicizia –, ci trovo qualcosa di De Angelis.
    Aggiungo alla risposta che ti ho dato in Moltinpoesia, che tu hai ragione a parlare di “concordanza di fondo” tra me e De Angelis, però ciò che a me più preme, in poesia, non è l’eticità, ma l’affettività, dentro la quale non possono non entrare la socializzazione in tutte le sue forme e i valori vitali, e il pericolo dell’affettività è il sentimentalismo. Per questo sono cauto. Il sentimentalismo trova spazio in genere nell’abuso della retorica sintagmatica, mentre l’affettività privilegia il simbolismo, nelle sue varie sfaccettature. Non sempre la poesia di De Angelis è immune da queste costruzioni sentimentalistiche.

  • Questa la mia riflessione sul post di Linguaglossa e i successivi commenti (fino al 70°):

    Ennio Abate
    Appunti sul nodo
    Franco Fortini/Milo De Angelis
    su Poesia 2.0

    Vorrei riprendere su questo nostro blog ( in più spirabil aere spero) la questione che Giorgio Linguglossa ha sollevato sul Poesia 2.0 (qui). Per approfondirla e diradare l’offuscamento ideologico abbondante tra i commenti letti. Un certo mio dissenso si rivolge anche a Giorgio, ma so di potermelo permettere. Del resto egli ed altri/e sanno che possono permetterselo con me. Vediamo se ci si intende di più …Mi scuso se negli appunti ci sono refusi e qualche incongruenza, ma ci tengo a pubblicarlo subito. [E.A.]

    1.
    Ha avuto coraggio Giorgio Linguaglossa a sollevare il nodo in questione.
    E specie in questo momento, in cui Milo De Angelis è presentato come “il più grande poeta vivente italiano” e a Fortini viene negato persino un Meridiano della sua poesia, concesso invece a molti altri.. (Cfr.qui)

    2.
    È un grande nodo generazionale ( tra un “padre del ‘68” e quei “Fratelli amorevoli” che ebbero prima a che fare col ’68, poi col il “ritorno al privato” e alla “parola innamorata”), politico e di storia della poesia, che andrebbe indagato al di là dell’aneddotica apologetica che vorrebbe Fortini mentore del giovane De Angelis e poi maestro superato dall’allievo più giovane e geniale (quasi un ricalco del rapporto tra il giovane Nietzsche e il suo maestro filologo evocato da Fortini in uno scritto di Insistenze…). Ma sollevarlo oggi in un post, presto invaso da fans più o meno agguerriti di De Angelis, è stato controproducente e insoddisfacente – credo – per lo stesso proponente. Perché la sua proposta critica e ben presto stata affondata e deviata in una sterile diatriba tra fans di De Angelis (molti) e qualche obiettore.

    3.
    Linguaglossa, contrapponendo nettamente Fortini a De Angelis, notava in quest’ultimo un prevalere di «rapporti predicativi (aggettivali)» rispetto a «quelli operativi», ovvero, «sintattici». Detto in parole meno tecniche, riprendeva una tesi di Mengaldo, che appunto ha sottolineato come elemento distintivo di Fortini rispetto alla lirica novecentesca italiana proprio questo suo “ascetismo aggettivale” (controllo della soggettività del linguaggio) per dare il massimo risalto alle cose, ai sostantivi. (Andrebbe ricordato, cosa che Linguaglossa in questa occasione ha forse dato per scontato, lo sfondo teorico marxiano che corroborò tale poetica fortiniana).
    Linguaglossa ha dato un giudizio nettamente negativo di questo successo nell’ultimo trentennio presso poeti più giovani e presso il “pubblico della poesia della poetica deangelisiana. Se confrontata poi con l’eclisse di quella fortiniana (minoritaria, va detto, già lui vivente), vuol dire che essa risponde bene ( come quella della Merini per fare un altro esempio) al pathos sentimentale coltivato dal pubblico ampio della poesia (dal ceto medio poetico). In poesia esso vuole – semplifichiamo un po’ – aggettivi e non sostantivi, emozioni e non pensieri (o, con Linguaglossa, si ritrova più a suo agio nel principio aggettivale che nel principio sostanziale e sostantivale).

    4.
    Certo, per non apparire critici bacchettoni e “invidiosi”, questo successo di De Angelis andrebbe spiegato più a fondo e inquadrato appunto nel clima postmoderno dominante ma anche nelle sue lontane radici culturali (un certo niccianesimo, l’orfismo, l’ermetismo) che in Italia sono profonde. Come andrebbe spiegato perché ««linea di resistenza difensiva» fortiniana ( e non solo) sia «rimasta inascoltata».
    Linguaglossa non lo fa a sufficienza (in questa occasione) ed è un punto debole del suo discorso. Ma i suoi interlocutori e avversari giocano davvero duro ( e a volte sporco) e sembrano non avvedersi che egli giuidichi quella di De Angelis una «poesia di indubbia caratura». Non gli basta. Voglio l’inchino al nuovo Vate.

    5.
    Linguaglossa non lo fa a sufficienza, perché, a mio parere, a lui preme di più fare un discorso critico generale sulle poetiche (cioè su quella somma di suggerimenti, espliciti o impliciti, che influenzano la produzione poetica e la ricezione dei lettori). Ma insiste troppo sulle “responsabilità” del solo De Angelis lasciando in ombra la complessità delle cause che hanno portato alla crisi attuale della poesia.
    Certo in una ottica “militante” è anche un segnale chiaro denunciare chi, con la sua poetica “aggettivale”, ha ridotto « gli spazi di manovra e di affermazione di una poesia «diversa» che si richiamasse alla via fortiniana del principio sostanziale rispetto a quello aggettivale». Ma così la discussione si restringe al piano estetico-lingustico; e sottolineare con troppa insistenza quanto l’aggettivazione di De Angelis sia «incantatoria, convalescenziale, febbricitante» o una «ricerca dell’originalità a tutti i costi» o che siamo di fronte ad un abuso di «metaforismi» (o più semplicemente delle metafore) non intacca lo spirito “superstizioso” con cui gli estimatori innamorati di De Angelis reagiscono. Essi in lui vedono e vogliono vedere ben altro (non valendo per lui le categorie che valgono per gli altri poeti, come appare bene nell’intervento di Azzolini).

    6.
    Attenzione. Linguaglossa non si spinge a dire che la poesia non debba raffigurare sentimenti e emozioni. Non può farlo. Sarebbe un errore se lo facesse. Ma se ha giustamente citato Fortini («La poesia deve proporsi la raffigurazione di oggetti (condizioni rapporti) non quella dei sentimenti. Quanto maggiore è il consenso sui fondamenti della commozione tanto più l’atto lirico è confermativo del sistema».) non si è fermato a sufficienza sulle ragioni politiche che fanno dell’atto lirico (deangelisiano, in questo caso) una conferma del sistema. (Quale sistema? Solo quello poetico?)

    7.
    E questo mi pare un’altra debolezza della sua critica. Egli trova «piatto» il modo con cui De Angelis raffigura sentimenti e emozioni, trova, «scontata e prevedibile» e abbondantissima ormai la « inversione dei nessi logici e causali del linguaggio strumentale» ( l’es. del verso «Il citofono chiede ancora la tua voce») , che ha come effetto indubitabile «un isterilimento della significazione». Ma questo isterilimento della significazione, che gli sta a cuore (e stava a cuore anche Fortini) non è un fenomeno che riguardi solo la poesia e gioverebbe estendere lo sguardo alla politica, alla società, all’industria culturale, alla società dello spettacolo per vederne la tremenda portata. De Angelis, insomma, a me pare uno che ha ceduto a questo clima, vi si è adattato e le sue responsabilità di poeta, secondo me, andrebbero indagate anche sul piano etico, ma soprattutto politico.

    8.

    Capisco che quello che è diventato uno stile «quasi inconsapevole da parte dell’autore milanese», l’abito fisso che De Angelis indossa in poesia, fatto di «inversioni, ellissi, accentuazioni, iperboli, ablativi al posto di nominativi, e viceversa» possa non piacere al «lettore intelligente», che così respinge « un fenomeno di idioletto, di sillabazione in stato semi ipnotico, di lallismo in stato di dormiveglia» e perché è vero che «il mondo» così diventa «più lontano e incomprensibile». Ma questo non basta a spiegare il successo di De Angelis e rischia di non vedere che esso si fonda su ben altro. Direi su una Tradizione.

    9.

    L’obiezione che farei a queste osservazioni di Linguaglossa sulla poesia di De Angelis è la seguente: esse reggono se oggi (in poesia e non solo) l’unico «mondo» possibile fosse quello che raggiunge sempre e immediatamente la significazione.
    Non è così e non è più così da molto tempo.
    Non si può trascurare che un secolo di psicanalisi ci ha mostrato, l’esistenza di un mondo psichico, in cui i parametri logici non sono dominanti, che segue altri parametri. (Si ripensi a quel che Francesco Orlando diceva su Matte Blanco e ho riportato in un vecchio post…) Non si deve trascurare che, comunque, con un faticoso e intelligente lavoro d’interpretazione (dal pionieristico L’interpretazione dei sogni di Freud) certi segni ellittici, invertiti, ecc. possano significare.
    Si può cioè considerare che esiste, se non un rapporto stretto (o addirittura deterministico) tra notturno e diurno, tra sogno e quello che comunemente chiamiamo realtà (quella del senso comune pratico, che ci guida nella vita quotidiana; ma anche quella delle scienze, che di fatto anch’esse sono spesso in rottura con questo senso comune …), una sorta di indefesso tragitto di un pensiero “da contrabbandieri” dal notturno al diurno e viceversa. Esso riporta alla luce i segni del sogno e, grazie al lavoro dell’interpretazione, può arrivare ad un certo tipo di significazione ( starei per dire anche di nuova significazione), non limitiandosi più alla netta bipartizione razionale/irrazionale.
    Per cui – ne deduco – anche quello che in De Angelis ( e non solo in lui o nei poeti di questa tradizione) si presenta effettivamente ed è forse senz’altro « un fenomeno di idioletto, di sillabazione in stato semi ipnotico, di lallismo in stato di dormiveglia», non solo può affascinare o attrarre poeti e lettori, ma può e deve essere sottoposto ad una lettura che ne rilevi i significati a prima vista reconditi o solo “irrazionali”.
    Tutto un discorso teorico andrebbe qui fatto, scomodando Lukács, denigratore ad es. dell’”onirico” Kafka e Adorno estimatore delle avanguardie storiche…
    10.
    Linguaglossa, insomma, fotografa ottimamente la differenza tra Fortini e De Angelis. E se si vuole la sua proposta di poetica è un ritorno alla significazione fortiniana (ma non so se ne accoglie anche l’impostazione marxiana, che ne è il fondamento di pensiero..).
    Ma non riesce a fare il passo avanti successivo e spiegare perché De Angelis ha avuto successo e Fortini è in eclisse.
    Il suo discorso dovrebbe cominciare da qui. Altrimenti si blocca di fronte a questa “deviazione” dalla giusta “linea fortiniana”, senza capire che cosa essa può significare di per sé ( e non dico solo in bene, magari anche in male…).Certo una poetica come quella di Fortini sarebbe “migliore”, ma perché un autore pur dotato come De Angelis l’ha respinta? Solo per “odio del padre”? Solo perché ha annusato i tempi cambiati ( da La parola innamorata in poi)
    11.
    Linguaglossa constata il “cambio d’epoca” («…noi oggi sappiamo di poter scrivere soltanto frammenti. Noi sappiamo che nell’epoca del declino delle «Grandi narrazioni» è avvenuta la moltiplicazione delle piccole narrazioni in una miriade di racconti miniaturizzati. La «Grande narrazione» si è risolta in una «Piccola narrazione», nella narrazione di piccoli mondi: il mondo dell’affettività privata, la rammemorazione del vissuto e la rivivibilità del «privato») ma sembra non poterlo spiegare e la ripresa della significazione fortiniana appare nostalgica e volontaristica. Come se non tenesse conto delle condizioni “reali” che hanno favorito l’imporsi della poetica di De Angelis, come se ne sottovalutasse il potere suasorio, l’aderenza maggiore al QUESTO presente, ma anche la forza che gli viene dall’appoggiarsi ad una secolare e maggioritaria tradizione.

    12.
    Il commento di Manzi mi permette di chiarire questo punto. Considerare fondamentale ( cosa su cui facilmente sorvolano gli “innamorati” di De Angelis «la questione poesia aggettivale/ poesia sostanziale» dovrebbe significare anche prendere atto di una spaccatura in poesia tra poesia più “soggettiva” e che pone al centro l’io autointerrogantesi e poesia tendenzialmente più “oggettiva” e che pone al centro un noi possibile(altrettanto ma diversamente autointerrogantesi).
    Non è una spaccatura recente. Se vogliamo possiamo risalire alle famose due linee presenti nella storia della poesia italiana: quella petrarchesca e quella dantesca, continuamente ripropostesi fino ai nostri giorni.
    Non è affatto, dunque, una questione recente, una «antinomia» in cui si dibatterebbe soltanto «la poesia attuale».
    Avendo lavorato in queste settimane agli Atti del Convegnodi Siena «Dici inverni senza Fortini 1994-2004»), ho a portata di mano una citazione di Tito Perlini che mi pare pertinente. E la ripropongo qui. A proposito della contrapposizione tra Leopardi (ma si potrebbe sostituire con Petrarca…) e Dante, su cui Fortini aveva tenuto una conferenza al Piccolo Teatro di Milano ( negli anni Ottanta, data da recuperare…), Perlini così riassume:

    «Questa contrapposizione lui [Fortini] la spiegò così: preferiscono Leopardi coloro che sono convinti che per conoscere il mondo – si ( p. 271) badi bene che qui c’è un modo per alludere a tutta la figura del lirico moderno – bisogna prima conoscere se stessi. A questo contrappose invece la convinzione, che emerge dall’opera sterminata di Dante, secondo cui bisogna conoscere il mondo per conoscere se stessi»

    Ora si può, a proposito di De Angelis,dimenticare che egli in quel filone petrarchesco e poi ermetico in fondo si è immesso?
    Non mi pare esatto che Manzi scriva che « la fortiniana poesia sostanziale ripropone la priorità della poetica rispetto alla poesia (il critico prima del poeta!». Qui, come giustamente ha messo in luce Linguaglossa, abbiamo, semmai, due poetiche contrapposte. E non «la poetica» da una parte e la poesia dall’altra. E, tra l’altro Fortini è poeta ( magari poeta-critico in modo diverso da come lo è anche De Angelis, che mica è *soltanto* poeta) e non ha mai proposto a nessuno di essere critico «prima» del poeta.

    13.
    I commenti successivi a me paiono del tutto appiattiti su questioni secondarie: non mi pare che sia il solo De Angelis il responsabile addirittura dell’avvelenamento dei «pozzi della poesia italiana», anzi della interruzione delle «sorgive» (Ludovici); non mi pare che sia il solo ad essersi “spaventato” della «civiltà industriale in fase avanzata» (Luciana Sanguigni); non mi pare interessante, come è stato notato da vari, prendere una poesia di De Angelis, esercitarvi sopra una critica “impressionistica” per dimostrare che vale o non vale; E a proposito della “discussione da blog”, oltre a non condividere i toni da tifoseria o vipereschi, c’è da notare secondo me l’inefficacia dell’inserimento di testi di riflessione ( quello di Bertoldo, quelli successivi di Linguaglossa, quelli inseriti in abbondanza da Nicola Borletti ( di Verdino, Aglieco, Casadei, Isella, Antonio Porta): ciascuno di essi richiederebbe un’attenta riflessione e discussione, ma in un contesto da blog e di scontro tra estimatori e critici di De Angelis rischiano di essere buttati sulla bilancia solo per averla vinta, non per ragionarci su. E del resto non sono una risposta che abbia una qualche influenza sui commenti più accessi, viscerali o tendenti all’attacco personale.

    14.
    Anche i commenti pacati e apprezzabili di Bertoldo rischiano di smarrirsi nell’intrico dei commenti “da rissa”. A me pare che Bertoldo sia giustamente cauto nel giudizio sulla poesia di De Angelis. La sua produzione non è liquidabili in quattro e quattr’otto. Credo pure che abbia posto corrette questioni ( il dubbio sull’autenticità della poesia di De Angelis), ma sia estraneo alla questione posta da Linguaglossa, anche perché condivide con De Angelis la “fonte romantica” come quella più autentica («La sottrazione salva la scrittura, salva la conoscenza e universalizza l’una e l’altra nel comprendere. Questa nostra dantesca e montaliana presbiopia consiglia dunque di tentare, come i romantici, la comprensione, che si attua nello sfinire della conoscenza». Qui c’è un punto di vicinanza o di concordanza di fondo, più che di cedimento al fascino di De Angelis. Bertoldo, in fondo, privilegia (come De Angelis) il legame eticità-poesia («quel vedere / sfioriti i versi e la morte» (Storiografia) e «insieme diverremo quel pianto / che una poesia non ha potuto dire» (Cartina muta). Conclusione che ripropone la sofferta eticità del poeta, eticità che qui acquista, come in molti altri passi, quell’affettività che ne evidenzia il profondo valore poetico») ed è meno propenso ad accogliere il legame poesia-politica che Linguaglossa pur affronta su un piano, a mio parere, ancora esclusivamente, estetico.

    * La discussione prosegue, dunque, anche su questo link:
    http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/08/ennio-abate-appunti-sul-nodo-franco.html#more

  • …chiedo ancora una volta il permesso di commentare la poesia citata da Eraldo Affinati nella prefazione al libro di poesie di De Angelis uscito per Mondadori nel 2008, poesia contenuta in “Biografia sommaria”. Se l’ha scelta il prefatore ciò significa che la ritiene una composizione riuscita, e in tal senso farò dei commenti senza volare sulle nuvole e tirare in ballo Dioniso o Nietzsche o non so che altro ma cercando di rimanere con i piedi per terra, volando basso basso. Ecco la poesia:

    … “C’è Donata De Giovanni?
    Si allena ancora qui?” “Come no, la Donatella,
    la velocista, la sta semper da per lé.”
    Mi guardava fisso, con l’antica dolcezza milanese
    che trema lievemente, ma sorride. “Eccola, guardi,
    nella rete del martello… la prego… parli piano…
    con una mano disfa ciò che ha fatto l’altra mano.”

    “Chi è costui? Un custode, un’ombra, un indovino…
    quali enigmi mi sussurra?” Si avvicinò
    a Donata, raccolse una scarpetta a quattro chiodi.
    “La tenga lei, signore, si graffia le gambe…
    … povera Donata… è così bella… Lei l’ha vista…”
    “Forse il punto luminoso della pista
    si è avvitato a un invisibile spavento, forse
    quest’inverno è entrato nella gola insieme al cielo:
    era sola, era il ventuno o il ventidue gennaio
    e ha deciso di ospitare tutto il gelo”

    “O forse, si dice, è successo quando ha perso
    il posto all’Oviesse, pare che piangesse
    giorno e notte… per non parlare di suo padre…
    i dottori che ha chiamato… mezza Milano”
    “Io, signore, sbaglierò, le potrà sembrare strano
    ma dico a tutti di baciarla, anche se in questo
    quartiere è difficile, ci sono le carcasse dell’amore
    c’è di tutto dietro le portiere. Sì, di baciarla
    come un’orazione nel suo corpo, di baciare
    le ginocchia, la miracolosa forza delle ginocchia
    quando sfolgora agli ottanta metri, quasi al filo
    e così all’improvviso si avvera, come un frutto”

    “Lo dica già stasera, in cielo, in terra, dappertutto
    lo dica alle persone di avvicinarsi: ne sentiranno
    desiderio – è così bella – e capiranno che la luce
    non viene dai fari o da una stella, ma dalla corsa
    puntata al filo, viene da lei, la Donatella.”

    È un raccontino, in chiave patetico-mielosa. C’è una «Donatella» che lavorava alla «Oviesse» (che fa rima con quella rima telefonata del verso successivo «piangesse»), ed è una operaia che è stata licenziata. Pare che questa signorina di Milano fosse brava nella corsa a ostacoli o che altro non si capisce, ma, insomma che fosse una velocista, e che fosse «bella». Insomma, ci sono tutti gli elementi del patetico e del nuovo feuilleton che tanto piace alle masse femminili che si abbeverano alle rubriche femminili dei rotocalchi femminili.
    È un compitino da scolaretto, con quella inserzione oleografica del vernacolo milanese che mi fa letteralmente rabbrividire per il cattivo gusto di voler a tutti i costi intenerire il cuore del lettore e delle lettrici. E poi c’è l’istanza della «morte» che giganteggia in quanto non nominata ma soltanto evocata indirettamente ma in modo direi elementare con un procedimento da Sveva Casati Modignani… una morte in diretta che avviene fuori quadro.
    Un compitino povero povero. E scontato. Con tanto di operaia per ammiccare al cuore tenero dei progressisti e con allusione alla crudele civiltà del capitalismo avanzato.
    Davvero, non si poteva scegliere un compitino più infelice e modesto di questo. E qui, paradossalmente, sono costretta a prendere le difese di De Angelis il quale ha scritto cose migliori di questa, ma il fatto che il prefatore prenda questo compitino come exemplum della poesia del Nostro la dice lunga sul suo gusto e sulla sua qualità di critico.
    Piena di retorica e di patetismo la poesia deangelisiana è magistra nel nostro tempo di straordinaria povertà intellettuale. Forse i giovani non se la sentono di dire pane al pane e vino al vino per non inimicarsi le gerarchie ecclesiastiche che fanno capo alla Mondadori ma io, alla mia età, non ho nulla da perdere e non posso certo unirmi al coro dei critici che acclamano questa poesia come uno dei vertici degli ultimi 40 anni; io vorrei suggerire un distinguo: sì, è uno dei vertici ma in basso della poesia italiana contemporanea.

  • “Tema dell’addio” esce nel 2005 ed è una meditazione sulla morte, a partire da quella di Giovanna Sicari, moglie del poeta e a sua volta poetessa. Sono uscite recensioni di grande livello. Vorrei segnalare tra queste “Versi di una vita eternamente futura scoperta d’improvviso già passata” di Alfonso Berardinelli (“Il Foglio”, 31.3.2005) e “Orfeo lombardo” di Andrea Cortellessa (“Alias”, supplemento del “Manifesto”, 19.2.2005). Purtroppo non ho potuto fotocopiarle, per un problema alla sezione periodici della Biblioteca Nazionale di Roma. Ho trovato invece questo studio (uscito in Dissidenze.com) di Sebastiano Aglieco, che è redattore di Poesia 2.0 e ottimo conoscitore di De Angelis.

    Concludo così la mia ricerca. Ho presentato critici “storici”, come Fortini, Affinati, Pagnanelli, ma anche delle voci più giovani (Mancinelli, Filia, lo stesso Aglieco) e delle voci più critiche nei confronti del poeta milanese (Maffia, Manacorda, lo stesso Berardinelli, se qualcuno andrà a leggerlo).

    Ho ritenuto giusto – come è stato anche chiesto nel corso del dibattito – scegliere un certo tipo di approccio al testo, quello che non lo ingloba in un giudizio prestabilito, e tenta di “ascoltarlo” nel modo più attento e sensibile. E’ un lavoro incompleto e lacunoso, me ne rendo conto, ma in questo momento non potevo fare di più. Spero che qualcuno lo riprenda e gli dia compimento.

    Un saluto a tutti

    Roberto Russo.

    P.S. A proposito dell’ultimo libro di De Angelis. In questa sede non aggiungo contributi critici, considerando i numerosi già pervenuti. Vorrei solo avvisare il gentile signor Domenico Ludovici che Daniele Barbieri – nel suo blog “Guardare e leggere” – ha fatto una puntuale lettura della poesia da lui citata ieri: “A volte, sull’orlo della notte”.

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    Milo De Angelis, “Tema dell’addio”

    Può ingannarci la copertina del libro. L’immagine descrive nitidamente un paesaggio caro al poeta: una periferia sconsolata; l’architettura dimessa, quasi monocromatica, di una strada di Milano. Potrebbe sembrare una fotografia, e invece si tratta di una pittura ad olio (1).Per capire questo libro si potrebbe partire da qui; dal senso, tutto simbolico, di un paesaggio – ritratto, non oggettivamente rappresentato, e quindi a suo modo rappresentato. Colpisce, se semplicemente si analizzano gli incipit dei testi, i fitti riferimenti alle visioni scomposte di una urbanità che non protegge; i vagoni dell’Eurostar; Milano e l’asfalto; una camera; le torri e il caos; i cavi sospesi; una strada di Roserio; l’estate; il traffico; un groviglio; una corsa a Villa Scheibler… Si tratta di paesaggi dell’anima – nel senso che il dolore li ha reinventati, alimentandoli di una mancanza di senso: le linee di quel tram sulla copertina del libro, non convergono, umanisticamente, nel punto che origina l’illusione della prospettiva. Quei fili ci suggeriscono piuttosto le trame della tela di un ragno; le infinite direzioni verso una meta sconsolata o un illusorio luogo in cui riposare; qualcuno ci obbliga, e la nostra destinazione è sconosciuta; dobbiamo andare, ogni cosa può mostrarci solo la sua viandanza.

    È in questa urbanità periferica che si situa ogni nostra storia. Si tratta, più umilmente, di una cronaca, priva dei vessilli alti e lusinghieri dei grandi accadimenti; e il tono delle parole, quelle che tutti i giorni pronunciamo senza le formule della retorica, delle ricorrenze e delle parate, è la nostra intima lingua che ci lega al sentire. È solo in questa lingua bassa che possiamo trovare la formula della preghiera. Ma in un teatro moderno gli spettatori non sono accomunati dall’antico rito dell’Assemblea; non possono assistere allo stesso racconto in un tempo e in un luogo identico per tutti. Non sono più capaci di rimandare, in coro, la stessa domanda a uno stesso dio silenzioso.

    La preghiera dei moderni è un atto semplice, personale, che solo un dio benevolo, nostro fratello, potrebbe accogliere. E così non è. Il luogo e il tempo sono quelli del nostro personale dolore, ma questo corteggia, o desidera, l’unione in una rosa, quel simbolo, altissimo dell’assoluto che ha attraversato tutte le culture. Nella contemplazione di una rosa c’è la richiesta di un pensiero immobile, fermato, «il luogo del fiore senza età» in cui l’ignoto non può che inchinarsi allo splendore del non accaduto, del mai donato al mondo.

    Il testo manoscritto riportato nella quarta di copertina, ci suggerisce espressamente una traccia: «Quell’ignoto che in pieno giorno / ci porta via, quella rosa / affranta che appare nell’unione, / sua orbita segreta, siamo noi. / Siamo noi il luogo della cronaca / e il luogo del fiore senza età» (pag. 56). Conservo di questo testo, una rara versione in copie limitate con alcune varianti (2), in cui il poeta ha voluto suggerire con il suo testo, l’idea di un giardino d’inverno. E il pittore vi ha aggiunto i suoi colori, i freddi e splendenti colori di una lamina d’alluminio, sfocata nel nero del carbone. Un giardino, un luogo di sosta da cui contemplare l’idea di una rosa che è sfiorita, una rosa dimessa, che non splende e non profuma, ma che, appassita, ci sta accanto e ci suggerisce un senso. Questa rosa non si alimenta di tutti gli splendori e della pienezza, è piuttosto la luce che ci è stata sottratta, la visione che abbiamo ritardato e che non può più ritornare. L’estremo saluto e l’estremo dono che Orfeo può offrire alla sua Euridice è «una semplice / poesia, quel sorriso umano / e trascorso che vedevi in ogni / sillaba, a te una sola/dedica, cenere che si fa / respiro, atto unico» (pag. 69).

    Cos’è, dunque, questa offerta, se non la speranza che la parola possa raccontare la storia di qualcosa che è già avvenuto e che chiede di essere fermato, per avere senso, nel tempo immutabile del respiro? Tempo immutabile e cronaca. Com’è possibile conciliare questi due opposti? È lo stesso poeta che, nel nostro non sapere, nella nostra irrisolvibile ignoranza, osa tentare una risposta. «Tu / non ci sei. Resta la tua assoluta / voce nella segreteria, questa / morte che non ha luogo» (pag. 23). I cimeli dei morti non sono oggetti; sono, piuttosto lacerti aurorali, macchinari che sostengono il corpo. È la prima funzione metafisica che gli antenati hanno attribuito alle pietre luccicanti, ai denti degli animali, alle spirali osservate nella sabbia. È la prima “téchne”.

    Per noi moderni, essa riveste piuttosto la funzione di un pensiero altro, dislocato dal senso primigenio del “guardare oltre”, del cercare la faccia di un dio attraverso il suo totem, i suoi oggetti, la sua naturale parvenza nel mondo. Per i moderni è diventata il luogo della mera riproduzione. Ma cos’è la parola, se non téchne, voce, capace di riverberare il suo senso e di donarcelo nel tempo assoluto della dizione?

    Dei morti, dunque, ci rimangono le voci come prolungamento di un corpo che non capiamo più, che dobbiamo relegare in un’idea di metafisica. I loro oggetti, i cimeli, ci dicono che essi sono ancora qui, vicino a noi; che non abitano una terra lontana e irraggiungibile. Tra il cielo e la terra, tra la riva di un fiume, un mare e la soglia della nostra casa, i morti rimangono a osservarci nel freddo che improvvisamente invade la nostra mente ed è in questa maniera misteriosa che si siedono vicino a noi. Questo è il loro modo di essere apparenti e presenti. Noi non possiamo far altro che vivere nell’illusione, o nella speranza, di tenerli vicini il più possibile, di conservare e percepire quell’aura che emana da questa téchne, da questo prolungamento significante del loro senso: «Nella stanza, nel modo esatto/di disporre gli oggetti, c’era la tua attesa» (pag. 50). Reggiseno, forcina, cuffia, rimmel, paltò. Luoghi, cose, parole a volte urlate, a volte sussurrate, pensieri che non si possono dire. Ecco tutta la nostra vita: una brezza di vento, il rigore imperturbabile di una estate cittadina, l’indifferenza di un buio e di un silenzio.

    C’è questa lotta nel libro, tra la constatazione di un non senso, del totale nulla al quale le parole, infine, si arrendono, e la costrizione a invocare, a pretendere da esse la descrizione di un tempo che sia infinito; perché i gesti, le immagini, per sempre possano dire della morte che non ha più tempo: «Ora si è spezzato l’ordine. Ora / ti avvicini alla stanza e resti / nuda per tutta l’estate, con la mano / che gira all’infinito la maniglia» (pag. 77).

    Le parole pretendono di superare la cronaca; vogliono cogliere l’attimo in cui tutto si è fermato, e quindi, forse, non è mai avvenuto. L’unico modo di neutralizzare il dolore, è forse, relegarlo nel tempo del suo accadimento, un presente congelato, togliendogli storia e passato, la speranza di un immensurabile futuro. Non si tratta di un’illusione. In questo poeta, il cui pensiero si nutre della lezione della Necessità, è certamente presente l’autorità degli antichi dei; la speranza cristologica è solo lo sfondo della modernità. Questo testo ce lo dice: «Negli estremi atti di forza, nelle labbra sensitive, / nell’impeto che non si fa parola, ti cerchi / e ti consumi, affiori, graffi, ti aggrappi / urlando che questo è il bene eterno, che le stelle / s’incendiano sulla fronte, che rimarremo / qui per sempre. Ti rispondo che ogni dimora / si allontana da chi l’abita, che è la nostra / ultima recita» (pag. 62). Questo testo ce lo dice: «Negli estremi atti di forza, nelle labbra sensitive, / nell’impeto che non si fa parola, ti cerchi / e ti consumi, affiori, graffi, ti aggrappi / urlando che questo è il bene eterno, che le stelle / s’incendiano sulla fronte, che rimarremo / qui per sempre. Ti rispondo che ogni dimora / si allontana da chi l’abita, che è la nostra / ultima recita» (pag. 62).

    Ciascuno di noi, nel proprio estremo e infantile tentativo di dare senso al mondo, alle cose che deperiscono, alle persone che perdiamo, potrebbe pronunciare quelle stesse identiche parole «nell’impeto che si fa parola». Ciascuno di noi potrebbe tentare la discesa negli inferi, supplicare Ade perché ci restituisca la nostra Euridice, pur nel rischio di perderla per sempre. Ma questo Orfeo moderno, questo Orfeo senza la grazia di un pensiero salvifico, di un senso che rimandi alla speranza di un altro tempo e di un altro luogo, non può che rispondere indicando la distanza e l’allontanamento: un tram, un taxi, i nostri passi sull’asfalto durissimo, un tempo che ci appartiene solo nella distanza del presente.

    Se un dio ci parla, la sua voce è confusa, impercettibile. Le presenze estranee, queste misteriose direttrici dello sguardo, non sono altro che forze misteriose, ostili; epifanie del mezzogiorno, in quell’ora del giorno in cui gli umani possono intuire, negli sfondi di un paesaggio abbagliante, i segni enigmatici dell’esistere. Sdoppiamenti, presenze innominabili nella loro sostanza. Null’altro ci è dato di scoprire o di sperare: «una parola che fu intera assedia la testa, / fruga tra le macerie, fissa incredula / quella luce sovrumana» (pag. 40). «tra i quattro cantoni, silenzio / di fate e di foglie, finché il giallo / si fa scuro, / si fa minaccia nel cielo» (pag. 39). «quel niente / che tiene freddo il pensiero, quel tremito / di lampadine ed aghi, qualcosa / che s’incarcera dove grida.» (pag. 37). «Un istante / in equilibrio tra due nomi avanzò verso di noi, / si fece luminoso, si posò respirando sul petto, / sulla grande presenza sconosciuta» (pag. 12).

    Il dono di una parola che sappia cogliere l’essenza delle cose, è il prezzo da pagare a un dio oscuro; è l’offerta per tutti, per le antiche parole di un patto: quello in cui il nostro nome fu pronunciato mentre venivamo al mondo, firmando. «Non ha più contorno / la ferita che abitava nel seno, / preme sui vetri e sulle pentole, / esce tra i semafori / della Prenestina, grida che niente / diventerà parola, che tutto / era scritto» (pag. 75). Quella ferita, che improvvisamente ha perduto il suo tempo, e si è fatta oggetto del dolore di tutti, è diventata il sigillo stesso dell’inadeguatezza del mondo; il dolore ritorna alle sue origini, ha portato a termine il suo compito; è diventato semplicemente il soffio della città che lo consuma tra i vapori di un’estate torrida. Il suo niente può diventare parola, perché tutto era già scritto. Tutto questo avviene nello sfondo di una stagione assoluta, tra l’asfalto e i centimetri di un spazio angusto in cui due persone, gli sposi promessi, affidano il senso a parole assolute, a gesti semplici: gli ultimi. In questi momenti, le cose ritornano al loro vero nome. Le parole si riducono all’osso, all’estremo loro senso. In un piccolo recinto, qualcuno ci chiama, ci giudica ancora, per l’ultima volta, e ci riconduce alla terra da dove siamo venuti.

    Non c’è altra verità nelle parole: l’azzardo della vita è trovare la vittoria su un tatami, a tre secondi dalla fine. Ma questo avviene molto raramente, questo avviene in un tempo che non ci è dato di conoscere. La nostra visione abituale non può essere che fermarsi «Dove ondeggiava il sangue, dove il perfetto / insieme era più nostro» (pag. 26). La stagione assoluta di questo libro è l’estate, un’estate terribile, come un volto cattivo che appare tra le nuvole. Una bocca che secca tutto, che ingoia tutto. Una nomenclatura, quasi ossessiva, fin dalle prime pagine: «Milano era asfalto, asfalto liquefatto» (pag. 12). «Da allora a qui. Era il primo giorno dell’estate» (pag. 14). «Nell’estate del tempo umano, nell’ultima estate, / c’erano tutte le strade» (pag. 16). «un metro di asfalto e di nulla // e il respiro è d’asfalto, le labbra d’asfalto» (pag. 26). «L’ultimatum, anche quello, / ce l’ha dato l’asfalto, l’asfalto» (pag. 26). «resto accanto / a te, ai tuoi sandali / che l’asfalto bruciava» (pag. 30). Fino a questi versi bellissimi: «Noi che abbiamo conosciuto / il cuore di ogni giorno e il cuore senza età, / l’idea che illumina la carne, / la sapienza delle misure / e il lampo, noi ci lasciamo / qui, in due metri di cemento, con un atto / di presenza, un battito / estivo, uno scambio di persona» (pag. 31). Non ci sono ombre: o un indefinito buio, o una luce accecante.

    Questa mancanza di chiaroscuro, è in fondo, la sostanza stessa di questa poesia. Le parole ci appaiono crudeli proprio perché quella scansione, quell’indagine di aghi nelle vene che non si trovano, realizza la coincidenza tra il dolore e la sua rappresentazione. «queste poesie tornano nella loro grammatica, / nella stanza d’albergo, nella baracca / di ciò che non si unisce, anime senza sosta, / labbra invecchiate, scorza strappata al tronco. / Sono morte. Si radunano lì. Hanno sbagliato, / hanno sbagliato l’operazione» (pag. 18). «Tutto chiedeva / di essere atteso, di tornare nel suo vero nome» (pag. 14). Il suono e la materia del suono sono la stessa cosa.

    È come se tutta la poesia di Milo De Angelis, in questo libro, si fosse aperta per mostrare i suoi ingranaggi. Leggiamo ancora le parole che conosciamo: esattezza, misura, secondi, giudizio, compito, costruzioni. Leggiamo le sue ossessioni e i suoi punti fissi, ma improvvisamente ci accorgiamo che il discorso riguarda/riguardava tutti. Quell’estate «è follia di tutti… Ognuno / è lo stadio terminale, ognuno è l’estate…Ognuno chiede dov’è / la vena, presto, la vena » (pag. 36). Ogni perdita è, insomma, l’azzeramento di ogni senso. Nell’esperienza della perdita, incontriamo un dio maestro di giustizia e di nuove parole; un maestro di accadimenti che ci sferzano la faccia perché noi non abbiamo compiuto le azioni giuste, le azioni necessarie. È così che egli ci riporta indietro o avanti di millenni.

    Certamente ci ritroviamo in un altro posto. È come se dovessimo rifare i conti, controllare, da un nuovo altrove, dove abbiamo sbagliato: «cosa / è accaduto, amore mio, come / mai,come mai» (pag. 28). Nella corsa sconsiderata che ci porta a inseguire linee, direzioni, a intrecciare il filo dei pensieri con le azioni di tutti i giorni, quelle che compiamo senza mai pensare che di tutto questo il tempo si sta alimentando, il poeta, noi stessi, perdiamo il senso della nostra vita. Spostamenti, corse affannose, illusorie soste nelle stanze per fermare i pensieri. Tutto il libro è percorso da un andare e venire, da un frenetico rincorrersi per le strade d’Italia. I corpi si agitano, scompostamente lasciano tracce, muovono oggetti, percepiscono l’assenza del sangue, sentono che il tempo va riconsegnato al suo ordine naturale, alla logica delle parole.

    Ad un certo punto finiscono per coesistere due ordini: quello del tempo bruciato dell’istante, doloroso, che ci assale alle spalle, che non ci lascia scampo, e quello di un tempo che è già avvenuto, dove le persone, miracolosamente, si mostrano nella loro immanenza, consegnate ai tratti di un antico bassorilievo. «Il cancello si apriva, erano le undici, / venivi qui ogni sera, varcavi il limite / del dolore e riposavi su un’intatta / panchina, riposavi ed eri l’arcadia / delle tue mani, quell’essere ombra, quel / luogo senza età» (pag. 78). È già il tempo, il tema dell’addio. È già presentirlo, riuscire a comporlo con precisione, con naturalezza, in brevi momenti in cui la mente riposa, i rumori della città vengono allontanati dalle alte mura di un recinto. Un giardino o una stanza respirano in un tempo più buono e più sincero; mostrano un altro paesaggio, la stanza d’attesa prima di una luce, o di un immenso buio; prima dell’appello totale: «All’appello totale, all’appello / che conduce al sorriso, che conduce / e fa nostro ogni globulo, / manchi soltanto tu.» (pag. 79).

    È qui che è possibile percepire una voce che già ci parla da un luogo inimmaginabile. Da un’altra stanza della stessa casa, chiusa per sempre a chiave, possiamo sentire le parole di un augurio: «Noi saremo liberi, amico mio, dimenticheremo / questo fluire premendo il pulsante d’addio, lo stesso / di un fax o di una segreteria che incessantemente / ripete il nostro nome in direzione di bocche e orecchi, / freme, scivola nell’orbita di un tutto o niente che intrappola / la mente, il sangue, le vertebre, quel / niente che non dà pace» (3). Dunque le azioni sono riconsegnate, la voce è intrappolata per sempre, la porta è richiusa. «Si muore così, all’ingresso / di una scuola, un cerchio perfetto» (pag. 29).

    Note:
    1. Luca Guaitamacchi, “Luci verso sera”, 1989, olio su tela, collezione privata
    2. Quattro poesie per il giardino Oldofredi, con poesie di Sebastiano Aglieco, Alessandra Giappi, Alessandro Catà, Milo De Angelis e opere originali del pittore Rinaldo Turati, Edizioni “Il fiume”. Giardino d’inverno: “Quell’ignoto che in pieno inverno/ci porta via, quella rosa affranta/ che appare nell’unione, sua orbita/segreta, sua incenerita luna, siamo/noi.Siamo noi il luogo della cronaca/e il luogo del fiore senza età”.
    3. Giovanna Sicari, “Epoca immobile”, Jaca Book, pag. 104.

    Sebastiano Aglieco in Dissidenze.com

  • “Biografia sommaria” esce nel 1999, dopo dieci anni di silenzio. Viene subito accolto come un libro di svolta. Accanto agli elementi lirici consueti in De Angelis, si aprono squarci narrativi, scene, dialoghi, personaggi, accompagnati nelle periferie di Milano.

    Riporto alcuni passaggi di Eraldo Affinati (tratti dalla sua introduzione all’Oscar di Milo De Angelis). Aggiungo le osservazioni, spesso pungenti, di Giorgio Manacorda.

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    Eraldo Affinati

    La trasparenza semantica, da intendere quasi più come variazione ritmica che in senso propriamente narrativo, troverà ulteriore risonanza nella terza parte di “Biografia sommaria”, dal titolo “Capitoli del romanzo”, dove spuntano alcune indimenticabili campionesse di gare studentesche. Acrobate, arciere, saltatrici in alto, «ragazze dei baratri e dei bar», i cui nomi sembrano copiati da un registro di classe rimasto per sempre nel cuore di chi scrive: Donata De Giovanni («Si allena ancora qui?» chiede il forse ex innamorato, tornato dopo tanti anni sulla pista dove per la prima volta incrociò lo sguardo dell’atleta. Gli risponde il vecchio custode dell’Arena di Milano: «Come no, la Donatella, / la velocista, la sta semper de per lé»); Stefania Annovazzi, che poi si chiamava più spesso Stefanella («Nove netti sugli ottanta, a / quindici anni, ragazzi!»); o Paoletta, cintura nera di judo, il cui fantasma continua
    a vivere in un «paesaggio di metano e di palestre».

    Milo De Angelis non aveva mai raggiunto, fino ad allora, una visibilità così piena, senza perdere una goccia del suo loico furore. Che sia un poeta difficile lo diamo per scontato, ma a chi lo ritenesse incomprensibile dovremmo spiegare la differenza fra l’arbitrio (che ha spesso sfregiato, fino a disonorare, in certi casi, il dettato novecentesco) e la necessità (capace di animare perfino le riflessioni più criptiche). Lo spazio urbano milanese, così come emerge in Biografia sommaria, sottratto al cartello lombardo, colto piuttosto nei «luoghi della economia disciplinare, della competizione e del “cimento ascetico», come scrive Massimo Raffaeli.

    DONATELLA
    La danza fiorisce, cancella il tempo e lo ricostruisce
    come questo sole invernale sui muri
    dell’Arena illumina i gradoni, risveglia insieme agli anni
    gli dei di pietra arrugginita. “C’è Donata De Giovanni?
    Si allena ancora qui?” “Come no, la Donatella,
    la velocista, la sta semper da per lé.”
    Mi guardava fisso, con l’antica dolcezza milanese
    che trema lievemente, ma sorride. “Eccola, guardi,
    nella rete del martello… la prego… parli piano…
    con una mano disfa ciò che ha fatto l’altra mano.”

    “Chi è costui? Un custode, un’ombra, un indovino…
    quali enigmi mi sussurra?” Si avvicinò
    a Donata, raccolse una scarpetta a quattro chiodi.
    “La tenga lei, signore, si graffia le gambe…
    … povera Donata… è così bella… Lei l’ha vista…”
    “Forse il punto luminoso della pista
    si è avvitato a un invisibile spavento, forse
    quest’inverno è entrato nella gola insieme al cielo:
    era sola, era il ventuno o il ventidue gennaio
    e ha deciso di ospitare tutto il gelo”

    “O forse, si dice, è successo quando ha perso
    il posto all’Oviesse, pare che piangesse
    giorno e notte… per non parlare di suo padre…
    i dottori che ha chiamato… mezza Milano”
    “Io, signore, sbaglierò, le potrà sembrare strano
    ma dico a tutti di baciarla, anche se in questo
    quartiere è difficile, ci sono le carcasse dell’amore
    c’è di tutto dietro le portiere. Sì, di baciarla
    come un’orazione nel suo corpo, di baciare
    le ginocchia, la miracolosa forza delle ginocchia
    quando sfolgora agli ottanta metri, quasi al filo
    e così all’improvviso si avvera, come un frutto”

    “Lo dica già stasera, in cielo, in terra, dappertutto
    lo dica alle persone di avvicinarsi: ne sentiranno
    desiderio – è così bella – e capiranno che la luce
    non viene dai fari o da una stella, ma dalla corsa
    puntata al filo, viene da lei, la Donatella.”

    Eraldo Affinati passim dall’introduzione all’Oscar Mondadori di Milo De Angelis (2008)

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    Giorgio Manacorda

    Milo De Angelis ha avuto un ruolo nella poesia italiana degli ultimi vent’anni E’ lui infatti il maggior responsabile della deriva neo-estetizzante degli anni Ottanta, del cosiddetto neo-orfismo. Il suo primo libro (“Somiglianze”, 1976) è un caso eccezionale per molti aspetti. Si tratta di un libro che proponeva un livello di poesia talmente alto che i nessi del discorso non sono – o non sarebbero – importanti, ma allo stesso tempo (spesso) contiene poesie riuscite perché segnate da una densità emotiva del tutto inusuale. Un libro dunque molto irritante (da un punto di vista culturale) ma con non poche belle poesie.

    La caduta, o la sottovalutazione, dei nessi del discorso in nome dell’altezza lirica, nei meno dotati di De Angelis (cioè quasi tutti) ha provocato esiti disastrosi. De Angelis spesso si salva, ma altrettanto spesso cade, anche nella prima parte di “Biografia sommaria”.
    Nella seconda sezione (“Ringraziamento”) succede qualcosa di nuovo: alcune poesie sembrano tornare al significato o, almeno, a una concatenazione delle immagini e dei concetti. Penso a “Una poesia per concludere”, “Una pagina del passaporto” e soprattutto “Ude garami”, titolo che non so cosa voglia dire ma questa poesia presenta il personaggio (“la bella arciera”) e introduce al clima della bella terza sezione, “Capitoli del romanzo”.

    Apparentemente un affiorare prepotente della “lombardità”, quindi del racconto, con modalità (per esempio i puntini di sospensione) che sembrano dovere molto a Cucchi. I due, evidentemente, si sono sempre tenuti d’occhio – e ognuno pensa che l’altro abbia ragione nel momento sbagliato. La cosa strana, ma non tanto, è che l’influsso di De Angelis ha fatto malissimo a Cucchi, perché ha ratificato nel nulla stilistico il nulla della sua “ispirazione”, mentre la narratività franta di Cucchi ha fornito a De Angelis una cifra per dare voce alla dimensione tragica ed eroica che covava in lui.

    Nella terza sezione l’arciera di “Ude -garami” diventa esplicitamente “la ragazza guerriera”. L’aggettivo (guerriera) è importante e anch’esso è usato per la prima volta in “Ude-garami”, poi in “Scavalcamento ventrale” – un aggettivo che contiene in sé tragedia ed eroismo. Queste poesie parlano infatti di personaggi femminili (ma forse è sempre lo stesso) che vanno alla guerra intesa come agonismo. Quindi il loro eroismo produce mitologie (“Per quell’innato scatto”) oppure tragedie (“Donatella”).

    Insomma De Angelis, una volta percepita la sterilità – non solo della sua modalità oscura ma della ripetizione di quella modalità – è stato capace di mettersi in discussione, aprendo a una dimensione narrativa o comunque di comunicazione e insomma scendendo sul terreno del significato e del senso. E ho detto “scendendo” non per caso: questo infatti è stato il percorso di altri che sono scesi dal nulla alla banalità. E’ il caso, per esempio, di Cesare Viviani, che da una perfettissima oscurità sperimentale è passato a una chiarissima banalità concettuale e si è visto, semmai ci fossero stati dubbi, che la sua tenuta poetica era inesistente.

    Ma De Angelis non ha scelto a tavolino e improvvisamente di essere chiaro: è stato capace di andare a mettere le mani lì dove duole, lì dove la materia (la sua) resiste e chiede la forma e l’espressione. Questo spiega perché “Biografia sommaria” non sia un libro risolto; di fatto fotografa un processo, in qualche modo lo riassume. Non è una svolta di testa ma un tormentoso e tormentato percorso.

    Giorgio Manacorda passim da “La poesia italiana oggi” (ed. Castelvecchi, Roma,2004)

  • @ Luigi Bosco
    con la mia richiesta di «spostare il centro di gravità del discorso poetico» intendo qualcosa di molto complesso (e semplice al tempo stesso): cambiare registro, voltare la pagina novecentesca (come ce l’hanno raccontata persone interessate), cambiare punto di vista (sguardo) e cambiare ottica (retina) per vedere più in profondità e con più chiarezza cose che una critica accademica e una critica acquiescente e benevola hanno invece ostacolato; in una parola, occorre cambiare le categorie estetiche con cui siamo stati abituati a guardare alla «cosa» chiamata poesia.
    Facciamo una ipotesi molto semplice e molto terra terra, facciamo un esercizio ginnico-mentale: mettiamo per un momento tra parentesi le vecchie e logore categorie tardo novecentesche dello sperimentalismo (con il suo epifenomeno: il post-sperimentalismo), della poesia lombarda (che rimane un fenomeno al 90% lombardo e non nazionale); mettiamo tra parentesi le poetiche tardo novecentesche fondate su una riutilizzazione del mito. Insomma, mettiamo tra parentesi tutto ciò che ci hanno detto e spiegato gli interessati, quello che risulterà è l’esistenza di un grande campo di autori (rimossi? dimenticati? devalorizzati? designati come minori? dei non allineati?) che vanno da Fortini con “Composita solvantur” del 1994, da Helle Busacca con la sua monumentale trilogia su “I quanti del suicidio”, “I quanti del Karma” e “Niente di nuovo da Babele” degli anni Settanta; da Angelo Maria Ripellino con lo stile formidabile e inimitabile delle opere degli anni Settanta; ed arriviamo agli autori degli anni Novanta: Maria Rosaria Madonna con “Stige” del 1992, Giorgia Stecher con “Altre foto per Album”, Giuseppe Pedota con “Equazione dell’infinito” del 1993 e “Einstein. I vincoli dello spazio” del 1995, fino a Maria Marchesi con “L’occhio dell’ala” del 2002 e “Evitare il contatto con la luce” del 2005; ah, dimenticavo: perché non rileggere l’opera della moglie di De Angelis, Giovanna Sicari? così presto caduta nel dimenticatoio?. Ho volutamente ricordato solo l’opera di poeti morti e dimenticati per evitare le facili accuse dei denigratori.
    Siamo arrivati al secondo decennio del nuovo millennio ed è incredibile che si continui a riproporre la solita mappa geografica dei soliti autori noti. Quello che tocca fare è un lavoro di dissodamento della poesia nascosta e dimenticata degli ultimi decenni del Novecento, un lavoro immenso, che ho intrapreso in completa solitudine in mezzo a violente resistenze, a silenzi ovattati e a ostilità manifeste, con i miei libri “La nuova poesia modernista italiana” del 2011, “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010) del 2012, lavoro che sarà completato con un libro in corso di stampa per la Società Editrice Fiorentina “Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea”, dal titolo inequivoco. Certo, le questioni che affronto sono complesse e variegate e possono essere solo accennate in questa sede ma neanche riassunte se non rischiando di raccontare un sunto delle questioni semplficato e superficiale. In questa sede, però, mi sia concesso di spezzare una lancia in favore della poesia di un autore contemporaneo che ha anche preso la parola anche in questa rubrica: Roberto Bertoldo la cui opera (da “Il calvario delle gru” del 2000 a “Pergamena dei ribelli” del 2003 fino a “L’archivio delle bestemmie” del 2008) merita una attenta considerazione.
    Direi, per concludere, che per un critico del contemporaneo è importante non il grado di consenso che riceve, quano la quantità di semi e di germogli delle sue idee, le idee che riesce a trapiantare nel terreno asfittico della poesia. È utile ricordare che per questo mio lavoro ho raccolto una grande resistenza e ostilità, spesso hanno tentato il vilipendio e la calunnia, hanno tentato di circondare le mie idee con un cordone sanitario di silenzio, anzi, hanno tentato di ridurmi al silenzio mediante una aperta e dichiarata censura del mio nome di studioso, e anche attraverso una occulta rete di denigratori e di letterati della domenica pomeriggio come Stefania Monti (che parla ovviamente a comando di una regia esterna).
    Il resto è storia dell’oggi.

  • @ Luigi B.: “Non credo che il tempo sia galantuomo, ma perlomeno ridimensiona i giudizi pompati. Purtroppo i posteri si faranno della nostra età un giudizio distorto dovendosi basare su quanto hanno passato le conventicole”. Sono parole di Bertoldo, caro Luigi, e non si può che condividerle, c’è poco da fare. E’ vero che poco deve importarcene? Non so. Se le conventicole – e ce ne sono! – poi falsano il futuro, credo che dobbiamo pur parlarne. Posso dirlo intanto io, da lettore? Non da poeta, visto che ho scritto appena poche poesie tuttora inedite, se si esclude una poesia pubblicata su un blog a mia insaputa (cosa scoperta attraverso un precedente commento di Bertoldo) e che non ho intenzione di pubblicare – sia chiaro -, dunque non turberanno nessuno con la loro mediocrità (in senso oraziano, però, se mi è permesso). Seguo un antico consiglio: “rimanti in questi boschi”. Dunque, da lettore disinteressato per le sorti della “mia” poesia, ma interessato alle sorti della Poesia spero che un piccolo ma autorevole ed onesto gruppo di critici attenti ristabilisca (o provi a ristabilire) i valori contraffatti e qualcuno possa presto scrivere un articolo “gustoso” come quello di Mascheroni citato da Bertoldo.
    Quanto alle segnalazioni e all’invito a riflettere su altri poeti, trascurati, esso era rivolto alla giovane signora Francisci e compagnia, molto seriamente.
    @ Filia, consiglierei di non lambiccarsi troppo il cervello sulle spudorate insensatezze (una specie di cut up poetico) di Millimetri, andando a cercare aiuto così lontano nel tempo per capirle e giustificarle. D. L.

  • Considero straordinario e per me utilissimo il lavoro che sta facendo Roberto Russo sulle recensioni a De Angelis, che sono un pezzo di storia italiana. Ho scoperto cose che neanche mi sognavo. Come ringraziarlo?

    Luigi Rossi

  • Sono Roberto Russo da Roma. Come vedete, gentili Redattori, sto accelerando i tempi. Venerdì devo partire per un certo periodo di tempo e vorrei consegnare il lavoro entro domani. Mi mancano solo due libri. Resta inteso che per “Quell’andarsene nel buio dei cortili” non proporrò nulla di nuovo, visto il cospicuo materiale già arrivato.

    Per “Distante un padre”, uscito nel 1989, mi limiterò a un solo intervento critico, però fondamentale: quello di Eraldo Affinati , liberamente tratto dal suo “Patto giurato”, che finora rimane l’unica monografia dedicata a De Angelis. Affinati qui parte da lontano, dal suo primo impatto con la poesia di Milo De Angelis, per poi arrivare al cuore del problema, che è la presenza di “Distante un padre” in tutta l’opera del poeta.

    Eraldo Affinati PATTO GIURATO

    Lessi il primo libro di Milo De Angelis, intitolato “Somiglianze” in una caserma operativa dell’Italia settentrionale. a quel tempo non potevo saperlo, ma c’era un nesso profondo tra la mia condizione di militare di leva e le poesie che avevo di fronte. Lo compresi molto più tardi, mentre intanto De Angelis si stava affermando con la pubblicazione di altre raccolte: “Millimetri” (1983), “Terra del viso” (1985), “Distante un padre” (1989)
    .
    Tutti i suoi versi infatti sembrano rispondere a ordini indiscutibili. quasi non fosse possibile parlare liberamente e ciò – ecco la prima sorpresa – costituisse una specie di vanto, di segreto e indicibile orgoglio. Le parole danno l’impressione di finire sempre in un vicolo cieco, sebbene non lo lascino presagire in quanto avanzano con il passo del condottiero, brindando alla loro inconcludenza.

    Si propongono di rappresentare una spaccatura, l’azione dirompente del pensiero, ignare di se stesse, voci della durata che si rompe nella pronuncia, ma assai raramente trova la propria ricomposizione nell’esito formale; tuttavia il segno linguistico non si preclude l’allusione a qualcos’altro, non resta puro suono, neanche quando sembra esclusivamente ritmico e percussivo. il rinvio all’esterno che i versi determinano appare antipsicologico: invece di restare vago e approssimato, sperando in un lettore permissivo, si configura secondo un impulso giuridico.

    Se leggessimo la produzione contemporanea limitandoci a utilizzare la libera associazione, cavallo vincente della lirica europea, avremmo qualche difficoltà a districarci fra le molteplici offerte al riguardo e l’apparente inappellabilità del nostro gusto. Saremmo turacioli in mare aperto. Milo de Angelis va posto in un’altra tradizione: quella di chi non tende a controllare i passaggi analogici ma la legge che li governa.

    “La nascondevo come un musicante
    dentro il tuorlo che muore, la nascondevo
    dentro un corpo dedicato… oh Deiva, per virtù
    brillava anche il seno sbagliato!”

    Fin qui nulla possiamo dire: l’immagine è ancora sulla rètina,
    come gli spaccati di costa visti dal finestrino del treno fra due gallerie
    quasi attaccate, non è giunta al cervello. Restiamo in attesa
    di una notizia folgorante, un colpo di teatro, una rivelazione, perché
    De Angelis ci ha promesso qualcosa di prestigioso.

    “E quando
    il gettone cadde, disegnai questa figlia migrante
    con la nostra allegria, col mio pudore”.

    C’è forse un modo più straordinario di questo per descrivere il concepimento? Lo scatto del gettone che cade azionando l’invisibile macchinario, il luna-park della vita; quella figlia migrante che arriva da un altrove e vi ritornerà; l’allegria della coppia; il pudore, inconfessabile e distintivo, dell’uomo. Tutto sembra d’improvviso più chiaro, ma resta sfalsato, inattingibile. Le parole sono state scelte perché aprono vie di fuga laterali, rimettono sempre l’intera posta in gioco, non si accontentano di un effetto anche molto seducente come questo, s’impegnano subito in una scommessa successiva:

    “Era
    la stessa ed erano tante, come a volte si leggono
    entrambe le mani, come una strofa storta
    in direzione del cielo!”

    “Distante un padre” sembra rappresentare una chiave di volta nell’opera dell’autore. Il problema delle origini è sempre stato al centro della sua ispirazione, come un tema-fondamento, ma trovò in questo libro l’esito più forte. Non a caso il colore prevalente è il giallo (della terra, dell’uovo): la casa della matrice. L’infanzia viene vista come il luogo di un’integrità non più raggiungibile: il faro del ritorno dal quale la vita ci allontana.

    “Penetrazione
    di sole in grano, che è madre. Superstite
    che si chiama padre”.

    La sfera della paternità combacia con la storia: entrambe sopravvivono alla natura. Occorre tornare indietro, sui propri passi,alla distanza sufficiente per conoscere il primo gesto, l’unico davvero irripetibile, sempre sfuggente e vittorioso: secondo De Angelis questo percorso è lo statuto della poesia. Il suo sforzo non si esercita a pronunciare un’ipotetica «chiarezza». Egli si comporta come quegli animaletti che lasciano le loro impronte sulla spiaggia. A molti di noi è capitato di seguirle e certe volte di notare, non senza qualche disappunto, che s’interrompevano nel nulla. Si poteva pensare che avessero scavato una buca, oppure che fossero volati via. Tali spiegazioni, ammettiamolo, non ci hanno mai pienamente soddisfatto. Restava un mistero da scoprire anche nella poesia di Milo De Angelis.

    Ossessionato dal tempo dell’inizio, quando la morte non era, come oggi, un eterno paragone, Milo De Angelis si guarda bene dall’illusione di poterlo attingere. Egli riporta lo strappo che ci divide dalla prima mossa, il tonfo dell’albero caduto con il quale finisce l’infanzia, non per nostro dolo; noi, guardie di un passato che ci è per sempre sfuggito, non abbiamo fatto niente, siamo incolpevoli, viviamo in un futuro irrealizzabile e clamoroso.

    Eraldo Affinati da “Patto giurato”, ed. Tracce, Pescara, 1996

  • Nel 1985 esce “Terra del viso”, il terzo libro di Milo De Angelis. Abbiamo già proposto la recensione davvero notevole di Franco Fortini, che comunque alleghiamo nuovamente per comodità della Redazione e dell’eventuale studioso. Come elemento nuovo, pubblichiamo invece un brano di Remo Pagnanelli, critico e poeta marchigiano morto tragicamente nel 1988 e autore tra l’altro di una monografia sullo stesso Fortini e di un’altra su Vittorio Sereni. Lo scritto di Pagnanelli è apparso sulla rivista “Marka” nel giugno del 1985.

    REMO PAGNANELLI: “Terra del viso”

    Il principio interno e generativo di questa poesia a me pare consistere in una soluzione – emotiva e tecnica – molto somigliante alle scomposizioni del primo futurismo e di Boccioni in particolare: gli oggetti e le situazioni si trovano ad essere di continuo frammentate e viste da ogni lato per virtù di una quasi prodigiosa facoltà (e velocità) di spostamento e di associazione.
    Non è qui un metodo, una maniera, bensì la sostanza nuda del reale, attraverso la quale ci si imbatte in modo brutale nella tragicità della storia.

    Questo è il più importante nodo da sciogliere se vogliamo capire (oltreché sentire) Milo De Angelis. Per questo non sono per nulla d’accordo con l’ignoto redattore della bandella, quando afferma che il testo è irrimediabilmente sciolto dal contesto (come se fosse possibile!) per il semplice fatto che pochi sono i riferimenti comunemente omologabili nel concetto di “storia” o “biografia”. Ribadisco che la realtà orribile della nostra generazione vi è presente (certo in forma più mimetica che critica) in quantità copiose e basta abbandonarsi al gioco crudele dei rimandi per rendersene conto fisicamente.

    Il fondamento epistemologico di tale operazione coinvolge un nuovo sentimento della storia che altrimenti “dà soltanto notizie” nella sua repentina e rapace velocità di morte, sentimento che risiede nella potenza (identica) concessa alla parola, concentrata in brevissimo spazio ma significativa per il gioco quasi infinito delle risonanze che produce e assolutamente non enigmatica.

    Questo è l’altro falso da chiarire. La pretesa e ormai leggendaria pretesa di sibillinità e orfismo di De Angelis è tale solo per chi vuole affrontarlo con gli strumenti di una “raison” cartesiana, non tenendo conto che si tratta di un’altra ragione, legata alla mitologia, alla sostanza arcaica del pensiero poetico, potente e asciutta, spartana – come stavolta sostiene l’ignoto recensore e giustamente – dato che il polo testuale più importante per De Angelis è proprio la classicità, un’idea del classico mutuata sulla categoria nietzschiana del dionisiaco, dello ctonio, talvolta temperato dalla gestualità liberatoria di un atletismo sereno e quietamente grande come l’apollineo.

    Difatti, la metafora ricorrente in questo libro coinvolge lo struggimento e la nostalgia per il momento altamente gnomico della gara, della corsa in pista, una volta giovane e corretta nel sogno classico, ora piena di tranelli, dimidiata e non catartica, se non fosse per la morte che ci attende già prima del traguardo, ed è nel dialogo di una delle più commoventi poesie (31 agosto 1941).

    Continuazione di un tale immaginario è il comparire frequenti di eroi sportivi – da Simpson a Brumel – e di battaglie su campi da gioco tagliati da luci scorciate e infangate (con memoria a una certa tradizione che trapassa la poesia lombarda) in cui appare la figura del padre: non casuale preponderanza di un’atmosfera bellica e invernale, come in “Luci di una malattia” o nella bellissima e critica lettura dedicata a Fortini. il preteso travestimento in un codice spezzato non devia dall’idea che questo sia un libro compattissimo, un discorso, un romanzo segnato dal rincorrersi di icone, un io decentratissimo e fortemente imperativo.

    Remo Pagnanelli, in “Marka”, giugno 1985

    Franco Fortini
    COME CERTE DANZE DEL CAUCASO
    “Terra del viso” di Milo De Angelis, Mondadori, 1985, pagg.79, lire 18.000

    Cinquantasette brevi poesie: le legga oggi chi si occupa di poesia nuova e domani anche chi non se ne occupa mai. L’autore, trentaquattro anni, è alla sua terza raccolta. Versi difficili: che non volano però al vento sulle foglie della Sibilla, ma se ne stanno ostili come scacchi a partita giocata e vogliono che noi la si ripercorra all’indietro, fin dall’inizio. Danno il labirinto e il filo, non la pianta. Il titolo intende che la faccia umana è terrestre, un’area misurabile e coltivabile, come si dice Terra Nova o Terra del Fuoco. Materia e basta. Ma quando a dirlo è una voce così esasperata, è come gridasse: spirito e basta.

    Tra i versi vengono avanti ragazzi e giovani in gara e in rischio, come per un’educazione greca; e la luce può ricordare quella dell’alba di Platone, dopo il convito. Con l’aiuto di grandi di ieri, come Campana, Mandel’stam e Celan, De Angelis vuole imprimere una regola rigida e razionale a un modo di immaginare il proprio discorso, che può invece procedere solo per balzi e scatti, come certe danze virili del Caucaso.

    Il personaggio-autore attacca le parole a mano armata, attento a punirsi subito d’ogni moto di compassione. Ma, per fortuna della sua poesia, vedi a occhio nudo la fragilità del cristallo che specchia siffatto atletismo. La sua solitudine è tanto più vera quanto più recitata; la fine della sua giovinezza è reale, non solo fantasticata. Così, di poesia in poesia, il lettore paziente assiste, come in teatro, a un movimento a vista. Quando scrive “la rada gioia del paradiso” o “soltanto il mio turno, benché eterno”, è ancora nel proprio ruolo “sublime”; ma quando scrive “ritrovo una sintassi nei secoli già studiati” o “da un punto decrepito qualcuno ritorna e spara” oppure “l’armadio dei pochi vestiti / con cui cambiare una civiltà”, senti che al di là della perentoria angoscia di assoluto e di apocalissi, il poeta sta passando dalla ricerca di fratelli a quella di amici.

    “Sì, l’aveva giurato”, dice l’ultimo verso di una bellissima poesia-dialogo (“31 agosto 1941”) su di una podista sovietica che già morta taglia il filo di lana; e quello è ancora un giuramento solitario. Mentre, della più ricca contraddizione tra ira e pietà, testimonia, con altre, una poesia di pochi versi che mi sembrano memorabili. Ha titolo “Nei polmoni”, ma meglio le converrebbe quello di due altre composizioni: “Colloquio con il padre”. “La coperta, la sua forza mentre crescevamo. / O gli occhi che ieri furono ciechi, / oggi tuoi, ieri l’inseparabile. Le fiale, / il riso in bianco diventano l’unico / mondo senza simbolo. Materia che / fu soltanto materia, nulla che / fu soltanto materia. Vegliare, non vegliare, poesia, / cobalto, padre, nulla, pioppi”.

    Franco Fortini, “Panorama”, 2 giugno 1985

  • Dante Maffìa nel saggio gentilmente ricopiato cita due poesie di «Millimetri» (1983):

    Al timone di una goccia
    ritorna
    un calendario in
    sangue di cicogne. E più tardi
    – fino a chi – lo sparo risoluto
    che mira.
    Si conficcano lì, unghia, come
    tu nella tua bianchezza
    quando un rito purosangue
    dichiara tempo
    e ci sono sassi in un angolo
    della viva”.

    *

    «Ma il pane nelle fermate
    del terremoto non basta più e il ladro ha
    una scarpa sola.
    Così sia. Nella testa
    sbranata da una primavera
    porge il latte a chi
    posseduto e l’ha rotto.
    Con tutti i denari,
    soffiando pari o dispari, un capogiro tornerà
    tra i ferri vecchi. Allora
    noi donne lo daremo, alla luce

    E così commenta: «Millimetri”, è chiaro, è collocabile epigono d’avanguardia, ma per fortuna non rigurgita di scampoli. Assistiamo allo sfacelo del narrato in una frammentazione solo apparentemente analogica ma che invece mira a raccordarsi col ritmo degli eventi, con la vita e non vi riesce, se non per scansioni approssimative».
    Ineccepibile.

    Il problema della poesia deangelisiana si può riassumere così: il suo puntare tutte le sue fiches sulla roulette della «catarsi», delle «commozioni», dei «sentimenti»; su un dis-argomentare strutturale di enunciati privati di soggetto o di soggetti privi di enunciati predicativi. Il risultato è un linguaggio da carbonari con tanto di indiziati e di giuramenti segreti, risultato raggiunto attraverso il principio del «montaggio» e del fotomontaggio di enunciati dichiarativi, sentimentali, commotivi, febbricitanti, in bollizione (come bene ha scritto la Canciani) in sconnessione tra di loro, mediante salti mortali di enunciati dichiarativi e omissione di quelli argomentativi che sono il tessuto non solo della prosa narrativa ma anche della poesia, ché altrimenti diventerebbe un idioletto comprensibile solo agli iniziati alla carboneria. Il risultato è un coacervo irto e frastagliato di espressioni dichiarative intenzionalmente prive di calcestruzzo, di legamenti sintattici e semantici, enunciati grammaticali che alludono ad un «protocollo di sensazioni» e a un «cifrario di quadri commotivi»; un abecedario di quadretti sentimentali infirmati tra il tu e l’io che adombra e ammicca a chissà quali ansie adolescenziali e di vissuti non mai vissuti prototipiche di una cultura di massa che vuole sognare la propria libertà nei termini di una super stilizzazione metamorfica che confonde empiria e finzione poetica; e che così precipita nel buco senza fondo dell’incomprensibilità. Ma l’incomprensibilità non equivale a profondità né equivale ad autenticità. Qui sta il punto. La poesia deangelisiana abbagliata dal suo successo d’esordio, ha poi seguitato a percorrere la via di un certo maledettismo piccolo borghese tutto moquettes e disperazione prefabbricato e fittizio, dis-autentico, falso.
    È venuto il momento di dirlo con tutta chiarezza: questo tipo di poesia non ci interessa, è morta e sepolta con i suoi piccoli trucchi, i suoi alambicchi e la sua distilleria del «dolore». Non è autentica. Non è vera. È pasticceria del «dolore», è finta, esagerata, scomposta, posticcia sempre fuori dalle righe, come ad intendere una sua invulnerabilità e inaccessibilità quando invece è semplicemente dis-autentica e, a tratti, addirittura buffa per gli eccessi da setta segreta, da carboneria che coltiva «in vitro» per i suoi lettori di massa.
    È una poesia di secondaria importanza che dobbiamo lasciarci alle spalle come una sciarpa ingombrante e inutile.

  • Dostoevskij e Pasolini interloquivano spesso con lettori, scrittori e critici sui blog di allora (riviste e pagine culturali). Non dubito che oggi persone come Popper e Russell seguirebbero i dibattiti sui blog. Ogni persona intelligente è attratta da ciò che la circonda, esseri viventi e idee compresi, e sono convinto che molti dei poeti di cui qui si parla seguano il dibattito, pur senza intervenire. La critica ha il potere di esaltare o svilire solo per breve tempo. Chi si ricorda, a parte gli specialisti, le cattiverie critiche che Leopardi dovette subire da vivo? Oggi riconosciamo a Leopardi il suo valore, addirittura forse anche in modo eccedente la realtà (mi riferisco alla sua poesia, se la leggiamo con il criterio avanguardistico, tra l’altro secondo me confuso con quello sperimentalistico, che ha preso piede in questa discussione) . Chi si ricorda degli scrittori che nel passato erano sulla bocca di tutti? Dimenticati, come lo saranno gli osannati De Carlo, Tamaro, Faletti, Ammaniti, Cucchi. Non credo che il tempo sia galantuomo, ma perlomeno ridimensiona i giudizi pompati. Purtroppo i posteri si faranno della nostra età un giudizio distorto dovendosi basare su quanto hanno passato le conventicole (purtroppo la carenza deontologica presente nel mondo letterario è la prima causa di fraintendimenti; non è complottismo, è tendenza alla connivenza, presente in ogni animale: è la costante da prendere sempre in considerazione, se si vuole essere davvero scientifici nell’analisi).
    Riporto, riguardo a ciò, questo gustoso articolo di Luigi Mascheroni:
    «I successi editoriali del secolo scorso.
    Fabio Volo, Luciana Littizzetto, Faletti, la Mazzantini. Sono i più venduti di questa settimana (e di tante altre, passate e probabilmente future). Poi ci sono i Moccia, i Camilleri, i Carofiglio: insomma, i bestselleristi del 2011, del 2012 e anche del 2013… Scrittori di cui oggi non possiamo fare a meno, ma che è arduo immaginare possano essere letti anche dai nostri figli, e dai loro. I bestselleristi di oggi, tra cent’anni li leggeremo ancora? I loro titoli, oggi strapopolari, a portata di mano in ogni autogrill e in ogni supermercato, sopravviveranno nella memoria collettiva? Se il futuro si può immaginare applicando gli stessi parametri del passato, allora i Volo, le Avallone, i Moccia, forse anche i Baricco e i De Luca, tra un secolo (anche meno) saranno dei signori nessuno.
    Come oggi sono dei signori nessuno i Michele Lessona, i Salvatore Farina, i Brocchi, gli Zuccoli, i Salvaneschi… tutti autori scomparsi da tempo dalle librerie e dai manuali e che pure un tempo erano amatissimi e molto ma molto più letti rispetto ai Fogazzaro, ai Pirandello o agli Svevo (oggi dei classici, all’epoca però mai entrati nelle top ten). Mastriani, Barrili, D’Ambra, Gotta… chi erano costoro? Un tempo Ciceroni, oggi carneadi.
    Che la critica non sia mai andata nella stessa direzione dei dati di vendita, si sa. Ma per capire quanto sia effettivamente alto lo spread tra i valori letterari da una parte e il successo commerciale dall’altro, bisognerebbe spulciare una montagna di dati e documenti accumulati lungo la centocinquantenaria storia (editoriale) del nostro Paese. Impresa compiuta da Michele Giocondi, studioso esperto di storia dei consumi culturali, che nel saggio I best seller italiani (Mauro Pagliai editore) ricostruisce gli «indici di Borsa» del mercato librario dal 1861, nascita del Regno d’Italia, al 1946. Mentre un secondo volume, in preparazione, sarà dedicato al dopoguerra, fino – appunto – a Tamaro, Moccia, D’Avenia, Paolo Giordano. In due tomi, da Carolina Invernizio a Melissa P., come cambia la narrativa, e com’è cambiata l’Italia. L’affermazione di autori come Salgari e Liala (fuori quota) o dei meno famosi Fraccaroli e Guido Milanesi, racconta molte cose sulla cultura di un Paese, sulle sue mode, gli umori, i sogni, le paure e le ossessioni in un determinato periodo storico.
    Ma chi erano i bestelleristi dell’800, i Saviano dell’età giolittiana, le superstar letterarie tra le due guerre? E soprattutto, che cosa scrivevano? E quanto vendevano?
    L’antesignana delle future Tamaro è Enrichetta Caracciolo, una suora di clausura, uno dei longseller nell’Italia appena fatta: I misteri del chiostro napoletano (1864), che l’editore Barbera acquisì dall’autrice in cessione perpetua per 1400 lire e poi ristampò per decenni. Come tiratura eguagliò I miei ricordi di D’Azeglio (per assicurasi il quale lo stesso Barbera, due anni dopo, sborsò 10mila lire). Morale: l’editore diventò ricco, suor Enrichetta morì ottantenne, nel 1901, dimenticata da tutti.
    Anton Giulio Barrili, invece, già ghostwriter di Garibaldi, fu autore seguitissimo e prolifico: settantadue (!?) opere fra romanzi, novelle, diari. Il suo personale bestseller fu Come un sogno, un bel feuilleton uscito nel 1875 che nel 1910 aveva già raggiunto le 28mila copie e nel 1940 le 75mila, e che insieme agli altri titoli sempre ristampati gli fruttava – come confessò a un amico – «molti biglietti da mille ogni anno». Un po’ come il nostro Camilleri, insomma. Poi, certo, c’erano anche gli ancor oggi celebri De Amicis, Verga e naturalmente Collodi, in assoluto l’autore italiano più venduto di tutti i tempi.
    Ma chi si ricorda oggi del medico fisiologo Paolo Mantegazza che col romanzo epistolare Un giorno a Madera (1868) – storia di un amore infelice tra due tisici, destinata a concludersi in maniera funebre per entrambi… una cosa alla D’Avenia, dài – ottenne un successo straordinario per un totale di 100mila copie vendute? Oppure Salvatore Farina, già da giovanissimo un beniamino del pubblico, uno che a 28 anni aveva scritto dieci romanzi e c’era chi lo definiva il «Dickens italiano»? Carolina Invernizio, qualcuno forse se la ricorda: scrisse 130 romanzi (tra i quali un vero cult fu Il bacio di una morta, del 1886), facendo la fortuna del suo editore Adriano Salani. Un caso letterario di proporzioni inaudite e mai più riscontrate nel nostro panorama letterario.
    Fino a Sveva Casati Modignani… anche lei osannata dalle casalinghe e snobbata dagli intellettuali, entrambi di Voghera. Ancora. Umberto Notari con Quelle signore (1904), un romanzo che parlava del mondo delle prostitute attraverso le confessioni di una di loro di nome Marchetta, segnò un’epoca. Grazie allo scandalo, la censura e due processi per oscenità, vendette in quattro mesi 150mila copie: nel 1925 arrivò a 580mila e, tradotto in mezza Europa, in due anni superò il milione di copie. Sì, esatto: più o meno come Aldo Busi. A proposito di prurigini&marketing… Guido Da Verona, il più amato romanziere tra le due guerre, rimane insuperato quanto a diffusione, tirature e vendite (esattamente 15 volte quelle di D’Annunzio!). Però morì suicida… Mentre l’ebreo Pitigrilli, tra gli anni Venti e i Trenta, con i suoi otto romanzi-scandalo a base di sesso, cocaina e dissoluzione arrivò (record assoluto) ai due milioni e mezzo di copie. Poi si convertì al cattolicesimo.
    E Mario Mariani? Vendette uno sfracello. Solo con La casa dell’uomo, uscito nel 1918 e ristampato fino al 1943, pieno zeppo di scene pornografiche (per l’epoca…), toccò le 70mila copie. E del suo Le adolescenti qualcuno dirà che anticipò la Lolita di Nabokov. Certo che però, la nostra Melissa P. è tutta un’altra cosa…
    Luigi Mascheroni – il Giornale – 15 gennaio 2012»

    Questo articolo sottintende una certa fiducia nei posteri che non so se condividere, tanto più che gli intellettuali di oggi hanno meno volontà, onestà e intelligenza selettiva di quelli di ieri, ma è uno spaccato realistico della storia culturale.

  • @Sanguigni: non è la redazione a postare le recensioni (amicali o meno non so e non mi interessa), ma chi passa di qui ed ha voglia di farlo. La redazione preleverà da questi commenti le recensioni postate e le inserirà all’interno della monografia – con buona pace di tutti.

    Ciò non significa che bisogna trasformare un discorso che ancora non riesce ad entrare nel merito di quanto è stato espresso in una rassegna stampa, ovviamente. Dunque chi ha voglia di continuare il dibattito può farlo.

    Mi pare però che al momento, tranne alcuna rara eccezzione, non si è andati oltre le fazioni pro e contro. Sembriamo guelfi e ghibellini che si scannano per il papa De Angelis (a cui non gliene può fregar di meno).
    Insomma, mi sembra che si stia perdendo – come spesso accade – una buona occasione per parlare di poesia (e non di De Angelis di cui, come del resto dei poeti, non me ne importa granché).

    Anche continuare a fare ragionamenti “complottisti” sui vari poteri occulti che tirano le fila dell’editoria poetica mi pare sia un discorso che lascia il tempo che trova – nel senso che mi interessa poco.

    Ciò che mi interessa è capire, vedere, assaporare, confrontarmi, cercare di fare un passettino un po’ più in là rispetto a quanto già so (o credo di sapere). La critica, se fatta degnamente, è importante ed è di molto aiuto: sia che si sia d’accordo con i pareri espressi, sia che non si condividano i pensieri critici letti.
    Ripeto che a mio modo di vedere non è una questione di ragione (di De Angelis o di Linguaglossa) ma di comprensione.

    Per esempio, nonostante sia d’accordo con la maggiorparte dell’intervento di Linguaglossa e di altri qui, non ho ancora ben capito verso DOVE bisogna spostare questo centro di gravità poetico che scopro solo ora esistere – che significa centro di gravità poetico? c’è? da cosa se ne deduce l’esistenza? (I modi di vivere e leggere poesia sono differenti, dunque è importante mettersi d’accordo sui concetti prima di darsi addosso per non fraintendersi).

    Come spesso mi è capitato leggendo Linguaglossa, mi trovo quasi sempre d’accordo con le sue premesse e quasi mai con le sue conclusioni – un po’ come mi è successo leggendo il manifesto del New Realism di Ferraris. E in fondo è anche un po’ di questo ciò di cui si sta parlando: lo stile di De Angelis e di numerosissimi altri poeti è un adattamento postmoderno della forma tardonovecentesca; una posa, insomma. Una posa talmente tanto istituzionalizzata, naturalizzata, feticizzata, che si è resa riconoscibile facilmente a tutti, che porta con sé quell’aura poetica che altri stili e metodologie devono ancora acquisire. Dunque una poesia che si fonda su stereotipi e che a me – e dico A ME – non dice più nulla di nuovo. Ora, vien da sé che diventa importante – soprattutto se si parla di critica – cercare di capire verso dove spostare il centro di gravità poetico (ammesso che si stia parlando della stessa cosa).

    @Ludovici dico che: in principio era Poesia 2.0 che si sbateva a fare le ricerche per le monografie e basta; poi fu Poesia 2.0 che contattava i poeti pregandoli di dare una mano per le loro monografie; oggi è Poesia 2.0 che contatta i poeti che, se hanno voglia, mandano il materiale, se non la hanno (o non rispondono) pace e bene. L’umanità prima della poesia sicuramente. Certo sono ancora pochi i poeti a cui abbiamo dedicato una monografia e ce ne saranno altri fintanto che P2.0 esisterà. Non si fanno esclusioni a priori né selezioni rispetto ad un canone pre-determinato o pre-fissato. Si cerca di raccogliere materiale, presentarlo e discuterne sempre per il famoso passettino in avanti. Chiunque volesse presentare un poeta per una monografia o volesse invitare un poeta a mettersi in contatto con la redazione per una monografia può farlo e saremo felici di accoglierlo (non è che faccio il figo tipo “call me baby”; semplocemente non conosco tutti i poeti italiani esistenti e, soprattutto, non possiedo i loro contatti, dunque non vedo altri modi per dare spazio a tutti).

    Luigi B.

  • Alla Redazione

    Per favore, basta! non vorrete soffocarci con tutte le centinaia di recensioni amicali e di sponda (scritte in pessimo italiano) di tutti i critici improvvisati degli ultimi 40 anni !!

    Qui il problema era un altro, e precisamente: «spostare il centro di gravità della poesia italiana» che negli ultimi due decenni si è sbilanciato verso una poesia infarcita di sentimentalismi e di ustioni del cuore!

  • Qui, cari estimatori di De Angelis, sta il punto: ” la scrittura poetica deangelisiana è […] una scrittura di «costruzione», costruttivistica, che ha di mira il montaggio di pezzi di lessico avulsi da qualsiasi legamento con la sintassi e con la fonematica: è diventata un montaggio libero (ma io direi sempre più gratuito e arbitrario) per colpire un lettore poco attento e poco letterato”. (Dove c’è […] ho eliminato “diventata”, perché, per me, è sempre stata così, già in molte poesie di “Somiglianze”. Insomma ho fatto mia, seppur corretta, una chiarissima (dico, per chi legge) considerazione critica sulla poesia del poeta del quale da un po’ ci si sta occupando. Dico questo senza acredine, e vorrei aggiungere che i punti deboli della sua poesia sono proprio quelli che l’analisi davvero acuta di Elena Francisci tende a mettere in evidenza (l’eliminazione dei ‘pazzi’ è una furbata, ‘percepito’ e come è stato trovato dovrebbe far riflettere, a mio modo di vedere: non basta confessarlo apertamente a dargli autenticità: ci si chieda se lo avesse confessato qualcun altro, cosa se ne sarebbe pensato, ecc.), così come fanno anche molte delle critiche raccolte con encomiabile impegno da altri partecipanti al dibattito: abbagli, fraintendimenti… quando non compiacimenti e scambi di favori fatti e resi: De Angelis ha ormai un potere che non si può negare e solo pochi possono permettersi di ignorarlo: su questo, debbo, ancora una volta, riconoscere la pacatezza e il disincato, o, meglio, il realismo di Bertoldo, il cui intervento di nuovo condivido. Anche quel decantato “E’ tardi /nettamente” è una bella furbata, come si fa a non capirlo? Ma non tutto è così: ci sono anche piccole gemme di autentica poesia, mica lo nego. Ecco:

    A volte, sull’orlo della notte, si rimane sospesi
    e non si muore. Si rimane dentro un solo respiro,
    a lungo, nel giorno mai compiuto…

    è quel che segue che riporta tutto nella costruzione, e smonta ogni apprezzamento e diventa irritante… Non vuol dire barare? E perché, in quel modo? Non lo so. Immagino che pochi di coloro che intervengono qui saranno d’accordo con me, ma io è così che la vedo. Rispetto i punti di vista di ognuno, ma insisto nel dire che spesso in quelle critiche su riportate io leggo accondiscendenza. Ha ragione Luigi B.: i contenuti sono sempre quelli espressi dal primo vagito poetico del mondo. E’ lo stile che cambia e che fa la differenza. Magari non si può scrivere più “e chiaro nella valle il fiume appare”, ma non è scrivendo “di sera ti sanguina la bocca” che si innova la poesia.
    Bertoldo cita alcuni poeti spariti dalle cronache poetiche, o mai presenti nelle antologie. [Ma solo se le antologie fossero rappresentative dei valori avrebbero un senso: sappiamo che non lo sono (quasi) mai]. Altri nomi potrei fare anch’io; qualcuno l’ho già fatto in un precedente intervento, al quale rimando, qualche altro eccolo: Alessandro Ricci, Pasquale Di Palmo, Sauro Albisani. Dispiace constatare che troppo spesso i nomi più frequentemente citati (anche in questo post su De Angelis) sono nomi ormai conosciuti (qualcuno ha scritto che non si abbassano a intervenire in nessun blog per la scarsa qualità di questi: oh, be’…pazienza. Potrebbe anche essere una giusta posizione: bisogna riconoscere che spesso il livello dei blog è piuttosto basso. Ma mi pare di capire che chi lo scrive crede che non ne abbiano più bisogno. Perché farlo, dopotutto?). Sono nomi conosciuti, dicevo, e ‘riconosciuti’, ma spesso oltre ogni merito, ché la loro poesia è di basso o mediocre livello. Cucchi e Magrelli, per dire, sono autori di un solo libro (o uno e mezzo, al più), ma la loro subitanea fama ne ha fatto delle icone poetiche e ora qualunque balbettio (Cucchi balbetta; Magrelli scrive prose intelligenti, ma non più poesia) pubblichino viene recensito ed esaltato come un capolavoro. La poesia della Anedda, dopo il primo libro è abbastanza mediocre (non posso dire dell’ultimo). La Frabotta chiacchiera anche in versi. Riccardi ha il potere editoriale e può permettersi quasi tutto. E’ vano continuare con altri nomi noti. Ma questi sono stati e non sono più, o non sono mai stati, il nostro meglio in poesia; sono solo i più noti, per varie ragioni. I valori poetici veri sono altrove, spesso nascosti. [Ricordo un racconto di Mark Twain, Viaggio in Paradiso, in cui un angelo rivela al viaggiatore che il più grande poeta della nazione dalla quale egli proviene (gli Usa, ovvio) e che si trova ormai lì, in Paradiso, era un ciabattino – se non ricordo male – di un piccolo e sperduto paese e che mai fu riconosciuto come poeta. Al di là (è proprio il caso di dire) del paradosso, la morale mi sembra chiara.] I valori bisogna cercarli, i veri critici dovrebbero farlo, ma pare che anche i veri critici siano ormai estinti. Mi piacerebbe che i giovani che leggono e apprezzano De Angelis sentissero la voglia di leggere anche qualcuno dei poeti i cui nomi ho fatto io, o ha fatto Bertoldo, o lo stesso Linguaglossa (compresa la Canciani, signora Francisci, la quale è poeta di valore – o lo era finché non ha voluto sublimare una forte tensione sensuale in un misticismo fuori tempo – anche se in questo dibattito non dà il meglio di sé) magari solo per avere una visione d’insieme più chiara. Voglio dire che se più d’uno fa nomi diversi da quello di De Angelis, in contrapposizione o per semplice alternativa, qualche ragione ci sarà. Non merita, quella ragione, d’essere scoperta e indagata? Non meritano altri poeti, sia pur lasciando l’inarrivabile De Angelis nel suo empireo (o nel suo inferno, secondo i punti di vista) d’essere presi in considerazione? A voi l’ardua risposta. Cordialmente
    D. L.

  • Il secondo libro di Milo De Angelis “Millimetri” (1983) ha poche recensioni, almeno nell’immediato. Non tutti vogliono avventurarsi un libro così oscuro e a volte impenetrabile. Tra i pochi (che esprimono comunque perplessità o tiepidezza) ricordiamo Edoardo Albinati, Luigi Fontanella e Dante Maffia, di cui riportiamo uno scritto del 1984, uscito poi nel volume “Poeti italiani verso il nuovo millennio”. Solo più tardi “Millimetri” verrà riletto con maggiore convinzione da giovani poeti, come il napoletano Francesco Filia, di cui proponiamo in seguito la riflessione uscita nel blog “punto critico” del 27.4.2012.

    Dante Maffia : I MILLIMETRI di Milo De Angelis

    A differenza di “Somiglianze” (Guanda 1976), che aveva una sua circolarità inquietante e un impianto articolato in maniera dinamica e armonica, “Millimetri” (Einaudi, 1983) manca di un nucleo ispiratore e di un programma. Anche “La corsa dei mantelli” (Guanda, 1979) era ben organizzato in suo fluido andante e musicale che dava l’idea di una gincana svolta con perizia e con ansie, e ora invece De Angelis non riesce a mettere a fuoco il punto da cui partono o arrivano le immagini, i significati, le provocazioni, le esperienze. Ma probabilmente sta proprio in ciò il pregio del testo, nel non volere essere circoscritto e limitato a un qualsiasi percorso, e nell’essere, al contrario, in dati inconfutabili e non verificabili, in certezze fatte di niente, in disarmonie nelle quali la zavorra del vivere s’unisce e trova un modo di esistere, di non essere, con i risvolti del sublime inafferrabile.
    Il poeta si pone dentro i testi come un lievito e tenta di farsi decifrare, nel mentre decifra, da ogni lettore a suo piacimento. Il rischio di sfarsi in parole esiste, ma De Angelis comunque percorre la strada; se non vi sarà un ritorno, avrà tuttavia goduto le metamorfosi della sua carne in suoni, che s’arrovellano per prendere forma e senso.
    E’ evidente che il poeta si sente disperso nel groviglio del non essere e cerca di trovare una collocazione adeguata, ma le giunture stridono, la coesione manca, il coordinamento è una finzione del vivere. Così

    ” Al timone di una goccia
    ritorna
    un calendario in
    sangue di cicogne. E più tardi
    – fino a chi – lo sparo risoluto
    che mira.
    Si conficcano lì, unghia, come
    tu nella tua bianchezza
    quando un rito purosangue
    dichiara tempo
    e ci sono sassi in un angolo
    della viva”.

    “Millimetri”, è chiaro, è collocabile epigono d’avanguardia, ma per fortuna non rigurgita di scampoli. Assistiamo allo sfacelo del narrato in una frammentazione solo apparentemente analogica ma che invece mira a raccordarsi col ritmo degli eventi, con la vita e non vi riesce, se non per scansioni approssimative:

    “Ma il pane nelle fermate
    del terremoto non basta più e il ladro ha
    una scarpa sola.
    Così sia. Nella testa
    sbranata da una primavera
    porge il latte a chi
    posseduto e l’ha rotto.
    Con tutti i denari,
    soffiando pari o dispari, un capogiro tornerà
    tra i ferri vecchi. Allora
    noi donne lo daremo, alla luce”.

    Il ricorso ad Alain Robbe-Grillet sorge spontaneo, ma è chiaro che si tratta di un’affinità di temperamento. Alla “Topologia di una città fantasma” qui è sostituito l’uomo fantasma. L’integrità è un mito da rigettare, un luogo comune. Si sente in alcuni versi (vedi “Sono ancora loro”, “Non puoi tacere”) una sconsolata ricerca di se stesso. Manca alla realtà il segno che smuove, che sia l’eternità, l’assoluto. Da questa immaginata irrimediabile distruzione (le parole di De Angelis sono l’arca di Noè, anzi lo sono addirittura le sole lettere dell’alfabeto) spuntano riflessioni atroci sulla vita e la sua inconsistenza. Sembrano buttate lì, senza stupore e senza interesse, e invece abbiamo aperture improvvise, lividi negli occhi, cecità, buio, frastagliati enigmi, misteriose chimere, rimasugli di civiltà.
    Bisogna ripartire. Il soliloquio-riflessione rifrange le mille facce della realtà odierna. E’ uno sfaldamento; si rincorrono suoni echi assonanze; civiltà catapultano, una nell’altra, la propria sostanza storica. Vince ancora una volta la terra, come sempre, ma intanto il poeta avrà provato a chiamarsi, a chiarirsi, a chiarire agli altri la sua inconsistenza o per lo meno gliela avrà fatta pesare come una colpa.

    “Toccandoli uno alla volta,
    questo mattino di capodanno
    li colora
    con lo stesso peccato che si affratella
    al sonno”.

    Dante Mafia, in “Poeti italiani verso il nuovo millennio”, Ed. Scettro del Re, Roma 2002, pp 58-59.
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    Francesco Filia MILLIMETRI

    “Millimetri” di Milo De Angelis – Einaudi, 1983 – è un libro su cui sono tornato decine di volte a distanza di anni – la prima lettura risale a tredici anni fa, in corrispondenza della pubblicazione di “Biografia sommaria” – e che ha continuato a parlarmi in maniera sempre violenta e dirompente. I primi corpo a corpo, concentrati nel giro di pochi giorni, furono un’esperienza frustrante e dolorosa, avevo la sensazione di arrampicarmi su di una parete ripidissima che non concedeva appigli. Anzi, ad ogni lettura, sentivo solo lo scivolare sanguinoso delle dita sulla roccia delle parole, dei versi, delle cose nominate in queste poesie; avvertivo il dolore mentale e fisico di una lettura disperata ed enigmatica. I versi apparivano indecifrabili e alieni, precipitati lì sulla pagina e dispostisi in una verticalità precisa e assoluta, come se si fossero slacciati da un altrove incombente e minaccioso (“La testa cade a piombo/ e si slaccia/ nel pomeriggio strappato/ al pensiero”) per conficcarsi nel foglio bianco nel modo più lancinante e preciso possibile. Ad aumentare lo sgomento c’era la nettezza di ogni andare a capo, necessario e secco come una rasoiata. Poi, alcune settimane dopo la prima lettura, l’appiglio si è presentato, ma è stato un appiglio vertiginoso e abissale: “In noi giungerà l’universo/ quel silenzio frontale dove eravamo/ già stati”. In questi versi riconoscevo e, a distanza di anni sempre più lo vedo chiaramente, una sapienza antica e sconvolgente, la sapienza di una Grecia pre-classica (“C’è una mano che inchioda/ i suoi grammi/ nel cortile vicino alla grecia”), la sapienza del primo frammento del pensiero occidentale, di Anassimandro (« ‘Anaxìmandros…arkén èireke tôn ònton tò àpeiron…ex ôn de e ghénesìs esti toìs ûsi kài tèn fdoràn eis taûta ghìnestai katà tò khreòn didónai gàr autà dìken kaì tísin allélois tês adikías katà tèn tû krònu táxin.» « Anassimandro….ha detto…. che principio degli esseri è l’infinito (ápeiron)….da dove infatti gli esseri hanno l’origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo. »)1. L’origine, l’ápeiron, il non-finito, il tutto avvolgente in cui ogni ente ritorna, di cui parla Anassimandro, in De Angelis è l’universo, ciò che è raccolto in unità come l’ápeiron, ma questa unità è “il silenzio frontale”, l’origine muta verso cui noi andiamo, contro il quale ogni ente finito si frantuma necessariamente (katà tò khreòn). In noi giungerà, e qui il giungerà ha il valore della necessità, “l’universo” come “silenzio frontale”, ossia giungerà il nulla di ogni ente (“Così,/sollevandosi nel nulla, crescono/ soltanto alla radice”.) e il nulla, “il silenzio frontale, giungerà” secondo l’ordine del tempo (katà tèn tû krònu táxin) (“Giunge luglio per i morti/ che sentono nell’assedio/ di ogni fiore/ una giustizia remota”.) e secondo una giustizia implacabile (gàr autà dìken kaì tísin allélois tês adikías) (e ora il villaggio fa/ silenzio/ nella corte marziale.). Nelle ventinove poesie di Millimetri c’è al tempo stesso la sapienza originaria della nostra civiltà e la spaventosa contemporaneità dell’epoca in cui delle cose non ne è più niente (“Ora c’è la disadorna/ e si compiono gli anni, a manciate”). Ecco la poesia di “Millimetri” è, o meglio, è stata, una teoria, una visione, lucida e allucinata, un pensiero sul mondo e sulle cose e questo pensiero già da sempre è diventato poesia, ossia ha attraversato una regione in cui le parole non sono solo mezzi ma sono destino, sono le cose che dicono. E le parole di questo libro dicono l’essenza dell’esser cosa, ossia che tutto è tremendo, perché tutto è sacro, perché ogni singola cosa, ogni attimo, oscilla paurosamente tra l’essere e il niente (“Mentre nuotano/ a delfino o si alzano verso il nulla”). In questi versi le cose si presentano nella loro gratuità, durezza e imperscrutabilità, senza il filtro di nessun racconto, di nessuna biografia, di nessun dramma psicologico che le possa addomesticare (“guardateli quando/ scavano questa gola:/ scendi, pavimento”.). La “gola” della voce poetica, offerta alla spaventosità del nulla, non è altro che il luogo oggettivamente folle, perché folle e gioiosamente, di una gioia lancinante e mozzafiato, tragica è la radice ultima di ogni accadere (“Nati sulla terra/ che rimane/ siamo stati quel giubilo mozzafiato/ appena le menti giunsero”), del dire poetico (“e io parlo alla terra/ a una candela;/ di te e di noi, di noi soli, creati”.) il cui dettato, severo ed estraneo, comanda di ricordare ogni cosa e per far ciò pretende un rigore estremo, che è la suprema e unica forma di bellezza concessa (“Noi fermiamo lì una guerra/ con navi serene e gelide”.), in cui ogni singola parola deve essere quella precisa parola e non un’altra, perché se così non fosse, tutto, e noi cose tra le cose, crollerebbe, prima del tempo dovuto, nel vortice dell’oblio definitivo (“Ecco la pagina di quarzo/ nell’agenda, quando/ ogni uomo viene raso al suolo/ e ricorda”.). Nella pagina di quarzo, nell’ora tragica dell’impatto dell’esistenza con il muro della necessità, l’uomo non può scegliere ma è comunque giudicato, perché deve ascoltare e ubbidire alla voce ancestrale che già da sempre gli parla, anzi la sua unica libertà è nell’ubbidire. La sua libertà consiste nell’esser “raso al suolo”, nel decidere l’impossibile adesione tragica al destino, alle parole che già da sempre lo hanno descritto, nominato, a quel vedere che lo ha accecato (“Se un urlo ha visto/ la sua prima sfera/ con l’occhio estraneo dei naselli”). L’esser mortale è un’ubbidienza ad una sapienza antica ed enigmatica (“Chi genera il tempo/ ha il volto arato e con pazienza ripete/ che noi ubbidiamo”.), ma cristallina nella sua spietata disciplina, e in questa ubbidienza non c’è premio, non c’è salvezza, solo silenzio che dice la sacralità – ossia, etimologicamente, qualcosa di sancito una volta e per sempre – di ogni attimo, lo scontro vertiginoso tra l’ordine necessario del cosmo (“moscerini/ nella macchia di un immenso/ vetr”.) e l’arbitrarietà, a sua volta necessaria nella sua gracilità, del singolo destino (“voi giungete/ menti colme di luce/ con il rombo di un’estrazione a sorte/ ogni paradiso ha un capogiro/ di figli falciati e certi”). È nello scontro tra il singolo e l’ordine del mondo che va inteso il senso del titolo del libro; ciò che rende radicalmente tragica l’esistenza dell’uomo è l’impossibilità di chiudere il cerchio del destino, l’impossibilità del ritorno al principio (“fino al nudo principio/ premuto sopra le tempie”). La chiusura del circolo per i mortali è un “silenzio frontale”, un niente in cui ci annientiamo. Nelle poesie di De Angelis, “Il cerchio per i mortali”, a differenza che nel frammento anassimandreo, non è chiuso, ma rimane tragicamente aperto di pochi millimetri, che necessariamente non potranno mai essere colmati, ma solo evocati in quei millimetri di avvistamento e avvicinamento alla visione finale che ci divorerà, che sono i versi di questo libro. È la stessa lontananza abissale che proviamo quando tocchiamo qualcosa: c’è un millimetro, materiale e mentale, che ci separa e quel millimetro è un abisso di tempo e di spazio, è quell’esclusione decisiva che è il nostro esser finiti (“con una bocca/ in guerra e una bocca perfetta, vicinissime/ al pane”). Dove, in ultimo, anche la poesia se è vera poesia, cioè destino dei mortali, non può saltare fuori dalla propria ombra, non può percorrere quel millimetro che la separa dalla cosa ultima. La morte ha la parola definitiva e quella parola non potrà mai essere nostra (“La mela/ è morta”).

    Francesco Filia “Punto critico”, 27. 4. 2012

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    [1] Simplicio, “Commentario alla fisica di Aristotele”, 24, 13. Trad. “I Presocratici”, a cura di Daniele Giannantoni, Bari, 1969, pp.106, 107.

  • Bongiorno a tutti, sono Roberto Russo. Come dicevo ieri, vorrei proporre ogni giorno una o due recensioni “significative” di ciascun libro di Milo De Angelis, quelle che giudico più utili per entrarvi seriamente. Cominciamo da “Somiglianze”. Il libro, uscito da Guanda nel 1976, ha avuto una nutrita schiera di commenti, saggi, recensioni: da quella di Antonio Porta apparsa in questo blog a questa più recente della giovane poetessa e critica Franca Mancinelli, legata a un’esperienza di poesia nelle scuole.

    Franca Mancinelli “Dentro la somiglianza”

    Ci sono almeno due motivi per lavorare ad un incontro tra gli studenti e la poesia di Milo De Angelis. Il primo è che, tra i poeti dei nostri anni, De Angelis è quello che più di altri è stato intriso dall’adolescenza, dai suoi abbagli accecanti, dalle sue ferite cercate come marchi sul corpo, come patti di sangue. Pensare inoltre, con la sua opera, alla poesia come gesto atletico e come gesto verso la vita (anche in senso eroico), può essere utile a sfatare i numerosi luoghi comuni che fanno della poesia un referto mostrato per documentare le diverse figure retoriche, gli stili e le fasi con cui si conserva, mummificata, la lingua. Non dimentichiamo poi che addentrandoci nell’incandescenza scura dei versi di De Angelis, avremo in qualche modo toccato una delle stazioni centrali della poesia dell’ultimo trentennio, dalla metà degli anni Settanta (del ’76 è il suo esordio, “Somiglianze”), alle ultime generazioni. Molte vicende poetiche hanno transitato, sostato, quando non si sono proprio generate da questo grande e sotterraneo ganglio che è l’opera di De Angelis. Riconosciuto fin dal suo primo libro come qualcuno che si è fatto interprete delle esigenze e delle ossessioni di una generazione (quella dei nati negli anni ’50 e, in particolare, di coloro che rifiutavano sia l’imperativo dell’impegno sia le sirene dell’evasione), De Angelis non ha smesso di esercitare una funzione catalizzante nel labirinto della contemporaneità.
    La sua è la voce di un carcerato che ha scelto di scontare una colpa e insieme quella di Raskolnikov nel turbine del tormento. Quello che è certo è che abita una cella che ha reso un luogo infinito. Tagliandosi le vie di fuga ha aperto al massimo grado le direzioni e le possibilità dello sguardo, ha potenziato il rigore sino a renderlo una spada spietata, sino ad esercitare un controllo assoluto su ogni particella di quello spazio. Pensiamo ad un luogo in cui la realtà è concentrata nel vivo delle sue contraddizioni, della sua ferita aperta: un luogo impregnato di sostanze tossiche, di scarichi industriali, d’inquinamento e di degrado. La sua Milano auscultata come il cuore sfibrato dei nostri anni, s’espande fino a congiungersi con la scena di una tragedia greca. In quello spazio in cui due forze opposte si fronteggiano, in un turbinio vertiginoso prima dell’evento, sta la poesia di De Angelis.

    Certo, le gambe gli venivano meno e gli s’irrigidivano, ed egli provava nausea, come se qualcosa gli serrasse la gola e gli facesse solletico, non avete mai avuto questa sensazione nei momenti di spavento o di grave pericolo, quando la ragione perdura intatta, ma non ha più alcun dominio? […] È strano che i condannati, in quegli ultimi istanti, di rado cadano in deliquio! Al contrario, la testa vive e lavora intensamente, violentemente, con la violenza di una macchina in moto; io mi figuro che vi martelli dentro una quantità di pensieri estranei, tutti incompiuti, e forse anche buffi, di questo genere: «Ecco, quell’uomo mi guarda, ha un porro sulla fronte; ecco, il boia ha uno dei bottoni inferiori arrugginito…» e intanto si sa e si ricorda tutto; c’è un punto che in nessun modo si può dimenticare, e in deliquio non si può cadere, e tutto gira e turbina intorno a quel punto.

    In questo brano tratto dalla prima parte dell’”Idiota” di Dostoevkij il principe Myskin, da poco rientrato a Pietroburgo, sta raccontando alle tre sorelle Epančin, una condanna al patibolo a cui ha assistito a Lione. Sappiamo, dalle interviste e dall’ultima parte di Poesia e destino che il principe Myskin è stato un “interlocutore” di De Angelis, una di quelle figure con cui, nel silenzio dei pomeriggi parlava, come fosse al suo fianco, così come accade quando ciò che leggiamo entra nel nostro sangue, s’introduce nelle fibre della nostra voce, apre un varco. Sappiamo anche, dall’introduzione di Isabella Vicentini ai “Colloqui sulla poesia” di De Angelis (il volume che raccoglie le interviste da lei curato), che alla domanda sull’aspetto del proprio carattere che avrebbe voluto cambiare De Angelis aveva risposto, prima di correggersi: «la paura della morte». Ma non c’è in fondo bisogno di citare questa frase trapelata, con il suo carattere di oralità e di innocenza. Basterà pensare alla poesia di De Angelis nei suoi momenti di più concitata visionarietà ed astrattezza, nel battito accelerato degli intervalli logici, nelle lacerazioni e nei vuoti di senso, e richiamare l’immagine del condannato che si avvicina al luogo e all’istante saputo, nello spazio-tempo da cui si genera l’evento. Ecco il ripetersi di parole, di versi o di brandelli di frasi come aggrappandosi all’unica cosa che dilata la fine, come graffiando con le unghie le pareti nude del pensiero, il vuoto che serra le tempie. In questa intollerabile e vertiginosa pressione verranno i numeri, le loro cifre semplici, il conto di quanto manca, di quanto è ancora nella vita. L’esattezza che si riverbera nel baratro, la precisione possibile ad un passo dalla follia, l’esercizio da ripetere per tenere sveglia la ragione. E poi, tra i passi che continuano ad avanzare irrigiditi nell’assenza di speranza, la pioggia violenta di minuscole sequenze e fotogrammi del reale che appartengono al presente mescolato con la memoria dell’intera esistenza, dettagli nominati in una successione in cui l’ordine e la coerenza sono sospesi, barbagli chiamati all’appello prima di sprofondare nel gorgo, in un’invocazione muta, in una supplica che avviene nonostante il condannato esegua la cerimonia sprofondato nella dignità più ferrea. È vero che, anche nei momenti di maggiore oscurità e turbine nella poesia di De Angelis permane una forza aggregante che ci fa intuire la traccia di un’esperienza, un’impronta velata, come unisse il passo appena compiuto e il fossile di un’antica presenza. Ed in questi momenti (frequenti ancora in un libro come “Distante un padre”), il lettore resta incapace di levare gli occhi, con la sensazione ineffabile che quell’immagine accoglie tutto, che interrogandola e unendola agli altri frammenti, ricomporrà un quadro tracciato con istinto e sapienza. Ma per comprendere la poesia di De Angelis, all’immagine del condannato dobbiamo avvicinare quella del principe Miskin che “inchiodato” lo guarda e che, un istante prima della morte, riceve il suo sguardo e “capisce tutto”, tanto che il suo viso bianco “come un foglio di carta da scrivere” diventa l’ossessione e l’orizzonte dell’arte, l’indicibile che andrebbe raccontato.

    Questo nucleo vuoto attorno a cui gravitano le visioni e i suoni è legato ad una stagione dell’esistenza o, meglio, a quanto segue l’incandescenza luminosa dell’infanzia. È l’adolescente che si misura con la fine, che è attratto dal baratro e lo costeggia, ad un passo dall’irreparabile, in quell’andirivieni continuo dal quale si sprigiona un’energia in potenza, racchiusa e tesa verso l’atto che la veicoli e la liberi, verso l’evento; «“posso abbandonare tutto, anche ora, / in questo istante” e ci fermiamo / in un lato del viale, e fissa / una panchina, un pensiero scuro / che si muove “anche qui / da un momento all’altro: posso”» (“La passeggiata”). In questa vertigine, in questa apertura assoluta alle infinite possibilità che poi disegnano la vita e la divengono, ci immette il primo libro di De Angelis, “Somiglianze”. Un libro scritto tra i diciannove e i venticinque anni, tra il 1970 e il ’75 come indicano le date riportate accanto ai titoli di sezione (ma che, nei primi testi raccoglie intuizioni già degli anni del liceo, come afferma in un’intervista). Sin dall’esordio De Angelis dimostra la propria consapevolezza riguardo a quanto può chiedere alla poesia, a quanto a lui, come poeta spetta. Sa già gettarsi nel dramma gioioso dell’inizio, di ciò che si compie per la prima volta e insieme mantenersi sulla sponda di chi guarda, di chi dell’adolescenza può tessere il mito. «Se non c’è adolescenza senza darsi per intero all’impresa e all’errore, senza sdegno per chi agisce in penombra e tiene i piedi in due staffe, allora è vero che esistono scrittori adolescenti […] ritengo che solo tra i poeti adolescenti ci possa essere un grande poeta, se la fortuna delle cose lo permette», scrive alcuni anni più tardi, in una dichiarazione di poetica. Diciamo subito che essere poeti adolescenti significa non avvertire come concluso quel cammino che porta ad una verità riguardo a se stessi, al proprio posto nel mondo, al proprio rapporto di “somiglianza” e “diversità” con gli altri e con le cose. Un poeta adolescente non smette di cercare la propria identità, avanza nell’oscuro pronto a rimettere in gioco se stesso, ad inciampare come a raggiungere l’intensità di luce, la gioia del ritorno nel luogo «dove eravamo già stati». Nella voce fraterna che lo chiama, che lo avvicina alla propria immagine riflessa su uno specchio buio, avvertirà qualcosa di minaccioso e di ostile, come lo spingesse a sporgersi su un precipizio. Tanto più riconosce se stesso, tanto più si sentirà maturo, pronto alla morte. In questo cortocircuito tra le parole e la propria esistenza è certamente Pavese l’autore che più di altri ha significato nella formazione di De Angelis (il Pavese dei “Dialoghi con Leucò”, di “Feria d’agosto”, del “Mestiere di vivere” e delle riflessioni sul mito); un autore che ancora prima di leggere trovava nei silenzi e nell’intonazione della madre, monferrina, in quelle “terre gialle” dove alla fine degli anni ’80 tornerà cercando una sosta dal turbine delle visioni, per recuperare il racconto, un dire più piano e diretto.

    “Somiglianze”, pubblicato nella “bufera” di ideologie e di idoli che imperversava negli anni Settanta, ha al suo centro il tema fondamentale dell’adolescenza: la domanda sulla propria identità. Qui, specularmente al libro più recente, “Tema dell’addio” (2005), congedo alla stagione della giovinezza e dell’amore, De Angelis tratta il “tema dell’inizio”: un ingresso nella vita rinviato e ribadito nella sua impellenza, un cominciare che avviene attraverso le parole e l’eros, tornando all’origine, alla luce dell’infanzia, e ancora prima, risalendo fino al chiarore del desiderio, al «gesto». Un vero e proprio libro fondativo in cui vibrano caldi i motivi a cui darà in seguito una forma prima più affilata ed ellittica, come in “Distante un padre”(1989), poi più composta e definita, come in “Biografia sommaria” (1999).
    Intessuto attorno ai due poli della “somiglianza” e della “diversità”, il libro mantiene fino alla fine la sua natura aperta e mossa, ripetendo le scene di uno stesso dramma rallentato: quello di chi, prima di decidersi a compiere il gesto risolutivo, di costringersi a scegliere e cominciare, si sofferma sulla soglia, oscilla nella paura di diventare “diverso”, di perdere qualcosa. È un’agonia tra luce e buio: da una parte il chiaro della “somiglianza”, dell’essere nella vita, nell’armonia e nella gioia che precedono la parola, dall’altra l’oscuro della “diversità”, di ciò che è stato separato, di ciò che ha scelto e non ha più un senso a cui aggrapparsi: «Ma la somiglianza era in noi / nell’immagine di un altro, ravvicinato, nel sole»; «Essendo stati chiamati / non è mai buio, qui»; «Adesso la diversità oscura tutto». La somiglianza è propria dell’infanzia, della stagione in cui «tutto è in relazione», tutto è fraterno e legato da rapporti perché la nostra identità non si è ancora affermata come “altro” rispetto a quanto ci circonda, alle presenze umane come alla natura. Non essendo ancora usciti dall’indistinto scegliendo e riconoscendo il nostro viso, ad ogni incontro ci rispecchiamo nell’altro, vediamo ciò che ci unisce. La differenza è invece il terreno sui cui si fonda l’identità dell’adolescente: altra rispetto all’infanzia e altra rispetto al mondo degli adulti (su cui si riversa l’odio netto di chi non può riconoscersi: «si sono inginocchiati, capisci, hanno / dimenticato tutto», sentenzia la voce di “Litanie”). L’adolescente ingaggia una lotta tenace per conquistare il luogo che gli appartiene nel campo da gioco dell’esistenza. La legge che lo decide è spietata: chi viene escluso lo sarà per sempre, nella sua vita non riuscirà ad alzarsi dalla panchina, a tirare una volta dal centrocampo. «Nessuno potrà abbracciare chi non ha vinto / il doppione gettato via / nell’acquitrino, il dito silenzioso / di quelli che “non ce la fanno”». Provare compassione per gli sconfitti, fermare su di loro lo sguardo, è un segno di fragilità; si rischia di venire contagiati, di entrare a fare parte degli esclusi. Nell’adolescenza avviene la prova, l’evento che decide una volta per tutte, che non può offrire una seconda possibilità o essere rinviato. Chi lo dilata o fugge ha già perso, non fa che prolungare la propria agonia. In questo periodo le cose e gli altri ci somigliano e sono allo stesso tempo diverse; distanze e vicinanze sono intercambiabili, in un tormento che si placa soltanto quando troveremo il nostro posto nel mondo. «“Volevo che tutti si fermassero” […] “non volevo diventare diversa” dice una delle giovani voci registrata nel libro, esprimendo lo stesso desiderio impossibile e “colpevole” che compare in una poesia che s’intitola proprio “La somiglianza”:: «Domanderemo perdono / per avere tentato, nello stadio, / chiedendogli di lanciare un giavellotto / perché ritornasse l’infanzia». Il passato infatti non può ritornare se prima, nel presente, non si è accettata la sua morte. Così avviene per Orfeo dei “Dialoghi con Leucò” che, voltandosi, evita di «fare di Euridice una reliquia»: «Solo lasciando il passato nel suo tempo, esso può eternarsi, può pulsare nell’attimo presente e risplendere», ha commentato De Angelis in un’intervista. In quel secondo e finale lancio del giavellotto che, nella sua tensione sospesa conclude la poesia (certamente programmatica se rinvia al titolo del libro), c’è un tentativo di ritorno che avviene attraverso la scrittura. «Prese la rincorsa, tese il braccio…»: questo gesto atletico fermato nella massima concentrazione delle forze ad avverare l’istante presente riattingendo la luce originaria dell’infanzia, apre nel vuoto un segno, come un verso di De Angelis. La poesia è per lui la ripetizione di gesti che radunano le energie per un istante in cui si gioca tutto, in cui si decide la luce e la vittoria, oppure il ritorno nell’oscuro, prima di un nuovo lancio.
    “Somiglianze” è un libro percorso da bagliori e schiarite improvvise, come se una bufera con le sue nubi impenetrabili incombesse anche nei momenti più pieni della gioia, nell’incontro dei corpi. Al suo centro ci sono due gesti, due uscite dal tempo, due ritorni all’origine. Uno, lo abbiamo detto, è il gesto atletico con cui si conclude “La somiglianza”, l’altro è quello con cui termina la prima parte di «T. S.»: il gesto che dà la vita, il gesto che inizia. È l’esperienza erotica che per prima traduce questa necessità di rompere gli indugi, di rinascere nell’istante, «battito per battito», di tornare a immergersi nella luce: «… quando si scioglie / non teme di diventare diverso / e finisce nell’amore…». Avanzando oltre se stessi, verso la realtà, ciò che si incontra per primo è il corpo di un altro, anche soltanto nell’«ingiustizia di un bisogno», di «toccamenti [che] sono un tic nervoso», oppure nel combattimento che porta il risorgere delle forze, che apre la visione al fluido di immagini che fuoriescono dalla scena urbana (e tornano nella campagna, tra le vigne e i pioppeti della terra materna, oppure scivolano tra pescatori e isole, in un paesaggio esotico, psichico e biologico insieme).
    “Somiglianze” celebra il miracolo semplice e senza parole dell’essere tornati nel luogo della pienezza, dichiara il proprio sì alla vita, il proprio amore che si espande come un’energia che pulsa dentro ogni forma. Gioia, riso, esultanza tornano con una frequenza e un’intensità che non sarà più presente nei libri successivi; così come l’eros non comparirà più in maniera così esplicita e diretta e non costituirà più, insieme al dialogo con la controparte femminile, la scena topica di un libro. Qualcosa è appena cominciato, qualcosa sta cominciando e per questo viene ripetuto, festeggiato in un’esplosione di luminosità. «Eppure era per la gioia» si ripete per due volte nella poesia “La frazione” dove l’immagine di una ragazza che sceglie di sporcarsi, di buttare nel gelo il suo amore («farò della mia vita una porcheria»), si mescola con altre che dicono la necessità di affrontare la “prova”, di abbandonarsi, nonostante tutto fuori parli una lingua oscura, chiusa, della diversità. Non c’è inizio senza delusione, senza abbandono di questa gioia che rende gli adolescenti diversi da chi si è già mischiato con la vita (significativo a proposito è l’imperfetto con cui ne “La frazione” come nella conclusione di “Litanie”, viene ribadita l’origine positiva e solare della loro tensione e la scoperta recente di un reale che la disattende: «[…] noi / “noi che eravamo per la gioia”»). Le “somiglianze” non si possono stabilire con la realtà presente che ancora trema, estranea, senza un significato: avverranno nel fondo dei corpi, dove rinasce il grido e si viene alla vita, dove «forse si può ancora / separarsi dai nomi, così potenti e vecchi». E non è un caso che, in alcune delle più riuscite sequenze erotiche il discorso assuma un significato che vale anche come dichiarazione di poetica: «… ogni esempio / è un balbettio … non / parlare a metà … immergiti … / … non dare spiegazioni … distruggi qualcosa … / … non soffrire …». “Somiglianze” sono anche le proiezioni in cui prende vita il soggetto del libro che, come un adolescente, non dice io ma parla ad un altro oppure attraverso un altro: non è dentro un’identità, ma in cammino attraverso identità somiglianti a cui arriva a demandare le proprie azioni, la realizzazione di ciò che vorrebbe essere; chi gli somiglia è allora un se stesso spostato di poco nel futuro, in una frazione del reale dove la sua volontà e il suo desiderio si sono avverati, oppure nel presente, nell’istante in cui l’azione coincide con il suo pensiero: «e fissano il binario, quello / stabilito, sempre più vicino, sicuri / che sarà un altro a morire per loro»; «e qualcuno chiede chi / sei diventato, chi / ami adesso, / e sente lo stesso, e vorrebbe, vorrebbe… […] e sciupa tutto / anche la sconfitta / cantata da un altro, sempre / da un altro, che prende il posto, con pietà / e tenta di vivere: oggi /». L’identità del soggetto che parla non corrisponde mai alla sua azione, è sempre un po’ più avanti o un po’ più indietro, nel fluido delle visioni e delle associazioni. Anche tra le cose e le parole, tra i gesti e il loro significato ci sono rapporti mobili, di somiglianza e non di identità: nel vuoto di senso, linguaggio e realtà sono scissi e avvicinabili soltanto a tratti: quando questo breve miracolo avviene un abbandono gioioso lo investe, come avesse sfiorato la pienezza. Una gioia ancora calda e tremante del calore dei corpi, si diffonde insieme alla quiete, ad un allentarsi del tempo, in un attimo quasi estatico, come quello che precede il piacere (e con lui la rigenerazione, la nascita): «E, improvvisa, la quiete della vigna e del pozzo (…) una calma sprofondata dentro il grano / mentre la donna sul prato partorisce / sempre più lentamente»; «e nasce la grande quiete, dentro la quiete / dentro la / quiete // è immersa nell’aria, non fa nessun movimento».
    Essere nella somiglianza significa anche essere nella metamorfosi, nella «materia che vieta e chiama / genera, estingue»; qui, dove tutto è aperto e in movimento si genera la parola, ciò che mantiene in vita, che impedisce di «ritornare ghiaccio, l’essere identico a sé / che non cammina». Ma prima di potere essere nelle parole, prima di cominciare il viaggio verso la propria identità è necessaria una scelta che lo separi dall’infanzia, un gesto crudele che tronchi la somiglianza tenera e lo ponga di fronte all’altro da sé, al diverso: «“Adesso puoi riuscire” / la forza del guerriero nudo dietro la spada, un’azione che esce per prima / e spacca, in tutti, il fratello / che hanno dentro “raccontami qualcosa / che io non posso dirti”». Questo “tu per tu”, questa frontalità in cui il libro ci conduce sin dal titolo, contiene una dinamica che è anche un’indicazione di poetica: mai fermarsi entro i limiti della propria individualità pacificando la lotta del divenire, dello sporgersi verso l’altro, perché è proprio in questa tensione aperta all’infinito che si genera la parola: «se ti togliamo ciò che non è tuo / non ti rimane niente» come conclude ne “L’idea centrale”. Così anche nell’amore, in quella dualità su cui s’intesse il libro dall’inizio alla fine, è necessaria una “vincitrice”, «un’amazzone» che con la sua decisione e forza entri nell’agone e spezzi il «plagio / di somigliarsi», «cancelli il disgusto / per chi mi assomiglia tenero». Non è un caso che il libro si concluda con una scena d’unione dei corpi in cui vengono ribadite le rispettive linee, per non perdersi e mescolarsi l’uno nell’altro: «Togliendo la sciarpa / indichiamo i confini / delle labbra / per non rischiare un’altra / analogia con figure».

    Franca Mancinelli

    Questo saggio, nato da un laboratorio di poesia nella scuola secondaria, è stato scritto nell’estate del 2008. E’ apparso poi, con alcuni tagli redazionali e con il titolo “Dentro la somiglianza. La poesia di Milo De Angelis tra i banchi di scuola” nella rivista “Chichibìo n.56 gennaio/febbraio 2010 e più tardi, con alcune modifiche, in “Soglie” n 1 aprile 2010 e infine nel blog “punto critico” del 24 giugno 2010.

  • Stefania Monti afferma adesso c’è:
    «il giustiziere Linguaglossa, l’uomo nuovo, quello ripara i torti e ristabilisce i diritti, quello che ruba ai ricchi per dare ai poveri»;
    «C’è poi il suo linguaggio “filosofico”, che incute timore ai lettori più timidi»;
    «Negli ultimi trent’anni nessun editore serio ha mai pubblicato Linguaglossa, che rimane dilettantesco sul piano del pensiero e si conferma un uomo cieco sul piano testuale».
    E via di questo passo con le infamità e le calunnie.
    Ma davvero signora Monti, le dà così fastidio un critico non allineato e libero da pregiudizi? Mi dica una cosa: lei che conosce bene tutti gli scritti di Linguaglossa per permettersi una liquidazione così sommaria da far impallidire, questa sì, i processi staliniani ai dissidenti: ma lei ha mai letto i libri di critica e di poesia di Linguaglossa? Se Sì, come non ne dubito, perché non ci fa un RAGIONAMENTO critico severo e dettagliato per spiegare ai lettori di questo blog, su quali metodologie e quali riflessioni testuali si basa il suo atto liquidatorio? Attendiamo con fiducia il suo testo. Grazie

  • … che qualcuno abbia cercato di infangare la mia reputazione dicendo che finanziavo la collana di poesia Scettro del Re che ha pubblicato gratis importanti autori italiani e stranieri, mi ha fatto invece un grande complimento: sì, tiravo fuori dalle mie tasche i soldi per la stampa dei libretti di poesia senza chiedere nulla agli autori. È un peccato? È un reato? È un comportamento scorretto?
    … qualcuno mi ha accusato di incoerenza e di essere un valtagabbana per aver scritto cose «favorevoli» sulla poesia di De Angelis in un articolo contenuto su “Appunti critici” del 2002 e aver scritto cose «negative» in questo ultimo scritto. Ebbene, io dico soltanto che questa semplificazione, questa schematizzazione creata ad arte tra un prima e un poi, oltre ad essere fatta in malafede dimostra che chi l’ha fatta non sa neanche leggere uno scritto di critica letteraria, dimostra di essere un «amatore» della prosa critica (la quale presenta spesso delle difficoltà per chi non ne comprende la terminologia e il linguaggio). In verità, già nello scritto critico del 2002 formulavo delle osservazioni e sollevavo delle questioni che, ad una lettura frettolosa e improvvisata, sono passate del tutto inosservate.
    … Passiamo ad altre cose più serie. Il dato di fatto indubitabile è che dopo “Somiglianze” del 1976 la scrittura poetica deangelisiana è diventata una scrittura di «costruzione», costruttivistica, che ha di mira il montaggio di pezzi di lessico avulsi da qualsiasi legamento con la sintassi e con la fonematica: è diventata un montaggio libero (ma io direi sempre più gratuito e arbitrario) per colpire un lettore poco attento e poco letterato. La cosa è diventata enormemente evidente negli ultimi tre libri di De Angelis… evidentemente l’autore si è fidato troppo dei giudizi lusinghieri che «critici» benevoli, interessati a non inimicarsi la sua simpatia non gli hanno lesinato. Ma, si sa, la critica benevola è come il medico buono che fa la piaga purulenta. Non ha senso fare una critica benevola (come oggi va di moda), così si fa del male all’autore e alla sua poesia e si inquina il dibattito letterario.
    Al Sig. Russo vorrei dire (con la sua disponibilità a fiancheggiare i sostenitori dei «buonisti» proponendo le critiche«favorevoli») che qui non siamo allo stadio dove c’è una curva Sud per i romanisti e una curva Nord per i laziali, qui il terreno del contendere è leggermente diverso e non si divide in fazioni di tifo ma in qualità e profondità di pensiero critico espresso.

  • Purtroppo siamo alle solite. Non si conoscono o non si vogliono conoscere oppure ammettere pubblicamente o anche solo a se stessi i retroscena del mondo letterario, che non è diverso dal mondo politico, da quello dello sport, della scienza, ecc. Di conseguenza non è possibile avere una corretta visione d’assieme della letteratura contemporanea, danneggiando irreparabilmente anche la sua corretta conoscenza in futuro, così come le generazioni precedenti hanno falsato l’attuale conoscenza del passato. Il principio d’autorità domina tanto quanto il classismo, per esempio. E così dobbiamo aspettare sempre gli epigoni di lusso (leggi, in genere, sfacciati o lecchini o figli di papà o raccomandati, comunque sempre persone che amano più la mondanità della loro scienza) , salutati come innovatori, per scoprire ciò che scrittori o scienziati misconosciuti hanno scoperto decenni prima. Non ci sono solo persone del bosco o del sottobosco, ci sono anche persone che stanno fuori dal bosco, rifiutando ogni scambio di favori che possano dare luce alle loro opere, e queste persone le devono cercare i critici, i quali non devono accontentarsi di stare in attesa che gli scrittori o i loro amici o gli uffici stampa li contattino. A volte leggo recensioni che inneggiano a poeti – per restare in tema – che sarebbero portatori di novità formali o di contenuto (sull’impossibile novità di quest’ultimo preso a sé ha ragione Luigi Bosco) e poi penso a Beppe Borlandelli, Pier Castrale, Alberto Vitacchio e altri sconosciuti, che le stesse cose le scrivevano quarant’anni fa ( e chissà quanti altri prima) e ora molti di loro sono morti e nessuno li ricorda perché a loro il mondo letterario stava stretto. Si, ci sono scrittori che non gigioneggiano e preferiscono buttarsi a capofitto nella vita, scrutandola con la loro scrittura: ‘buttarsi a capofitto’ significa anche intervenire nei blog senza aver paura di sporcare la propria immagine; conosco insegnanti che per timore di ledere il loro prestigio divengono supponenti e trattano gli allievi dall’alto in basso in modo che non abbiano il coraggio di mettere in discussione la loro preparazione. Amereste avere insegnanti così? Ebbene, li paragono agli scrittori che dall’alto dei loro titoli acquistati (anche il come fa parte dei retroscena) non si mischiano con quella che considerano la plebaglia, la quale deve venerarli o stare zitta.
    Ma agli scrittori seri, a quelli davvero seri, ossia che non sono ai margini soltanto “perché non hanno le unghie abbastanza forti”, che non fanno in piccolo le stesse cose che fanno i potenti contro cui combattono (ossia premi o recensioni a scambio programmato), che non chiedono favori per sé, dico: perché arrabbiarsi se non si è presi in considerazione? Che potere possono acquisire le vostre opere sulle bocche o sulla penna dei pennivendoli? Certo, la vostra emarginazione potrebbe essere un danno per la società, ma se questa società di massa preferisce scrittori che si impongono di scrivere senza averne necessità, se preferisce l’autorità di chi ha potere perché il potere affascina (ce lo insegnano anche molti animali, come gli scimpanzé, che preferiscono un capo istrione ad uno sensibile o profondo), se preferisce il successo facile al valore, beh che questa società si impicchi. Accontentavi di essere un esempio per chi un giorno avrà voglia di cercarvi e di ascoltarvi, io sono fermamente convinto che una società la si può ricostruire partendo dal proprio piccolo.
    Queste precisazioni sono ovviamente in parte per Stefania Monti, di cui apprezzo la chiarezza, perché è così che ci si deve parlare in un confronto. Devo aggiungere che tra gli autori che lei cita ce n’è uno che merita la stima di tutti e, guarda caso, viene a volte sottostimato: Vittorio Sereni, poeta che probabilmente ha influenzato il secondo Montale e direttore editoriale che era una garanzia in fatto di scelte. Aggiungo anche che Linguaglossa è sicuramente un uomo generoso, ma dubito che finanziasse la collana di Scettro del Re, forse è un modo per svalutarlo agli occhi di chi ascolta e non mi sembra corretto. In ogni caso bisognerebbe chiedere conferma agli autori pubblicati; tra l’altro mi è giunta voce, sinceramente non so quanto attendibile, che anche qualche editore “serio” abbia attinto dal conto in banca di qualcuno degli autori editati.

  • Gentile Redazione, gentile Luigi S, sono contento che apprezziate il mio lavoro di ricerca su Milo De Angelis…e questo nonostante alcune incomprensioni precedenti…tutta colpa mia, s’intende, e del mio impeto eccessivo…sono un romanaccio esuberante…uno che legge poesia ma va anche allo stadio per Totti e la Maggica. Proprio così: all’Olimpico con un libro di versi nella borsa.

    Vi scrivo perché vorrei fare per voi di Poesia 2.0 una ricerca ancora più specifica: vorrei scegliere per ogni libro di Milo De Angelis una o due recensioni davvero significative (le migliori intendo dire, come quella di Fortini per “Terra del viso”) e trascriverle nel vostro Blog. Escluderei l’ultimo libro ( mi pare che sia uscito materiale in abbondanza, grazie alla cura di Nicola Borletti), e partirei domani con “Somiglianze”. Dopodomani “La corsa dei mantelli”, venerdì “Millimetri” e via proseguendo in ordine cronologico: un libro al giorno. E’ vero che agosto non mi aiuta (la Biblioteca Nazionale di Castro Pretorio ha orario limitato fino a domenica.) comunque farò del mio meglio. E sono felice di farlo, dal momento che Milo De Angelis è uno tra i poeti a me più cari. Credo questa ricerca sia una cosa nuova e possa risultare di una certa utilità per gli studiosi di De Angelis. Infatti in rete si trovano parecchie cose su “Tema dell’addio” e “Quell’andarsene nel buio dei cortili”, ma poco o nulla sulle opere precedenti, quelle anteriori al 2000.

    Un rinnovato saluto. A domani dunque!

    Roberto Russo

  • Grazie a te, Marco. Anche a me la recensione a “Terra del viso” ha colpito in profondità. Avevo espresso delle riserve su altri aspetti di Fortini, ma qui è davvero grande! Mi stupisce però che nessuno abbia considerato lo scritto di Isabella Vincentini. E’ molto limpido e completo, a mio parere, ed è utile per entrare nel mondo di Milo De Angelis attraversola porta della biografia e non solo attraverso quella dei suoi versi. Ed ecco allora che vi propongo la seconda parte di questo scritto, la seconda parte cioè della prefazione di Isabella Vincentini a “Colloqui sulla poesia” (Ed. La Vita Felice, Milano, 2008).

    I luoghi
    4. Accanto alle coordinate di lettura che riguardano sia le raccolte principali e sia la fiaba ” La corsa dei mantelli” del 1979 ( “una sorta di archivio di immagini che poi si sono riversate nei miei versi”), come il libro di saggi “Poesia e destino” del 1982 e l’esperienza degli undici numeri della rivista “Niebo” tra il giugno del 1977 e il marzo del 1980, troviamo disseminati tra le pagine molti riferimenti alle proprie condizioni soggettive e alle difficoltà incontrate nei periodi di passaggio e di elaborazione. “Un libro non termina quando finisce l’ultima pagina, ma quando esaurisce un’esperienza stilistica ed esistenziale”. Ci parla infatti anche del romanzo mai scritto che doveva intitolarsi “Cartina muta” su gli amici d’infanzia, i compagni di scuola, le ragazze dei campi sportivi e i maestri di vita. Commenta che Tema dell’addio non rappresenta il momento più difficile della sua vita, ma il tragico ha percorso in maniera più forte altri libri come “Millimetri”e “Distante un padre”. Senza nascondersi, ricorda che ai tempi di Distante un padre era nella bufera, “intrecciavo parole di altri alle mie, prendevo quello che mi capitava pur di salvarmi. Mi hanno persino denunciato, nel 1989”.
    Milo stesso in queste interviste ci parla dei suoi cambiamenti segnando come data gli anni Novanta con il matrimonio, la nuova casa di via Giolitti e il figlio. Ma l’inizio degli anni Novanta, fino a tutto il ’93, anno testimoniato dalla pubblicazione dalle poesie de ” L’Oceano intorno a Milano” a cura de la Maison des Ecrivains Etrangers et Traducteurs a Saint-Nazaire con una bella intervista di Bernard Bretonnière, sono ancora il frutto della polemica del plagio. Isolato per un periodo nel gennaio del ’93 nel gelo della centrale Mesonica di Saint Nazaire, in quella cittadina francese di fronte all’Oceano, e paralizzato dall’impegno di ricambiare l’invito con la scrittura di nuove poesie, il poeta inizia uno strano percorso all’indietro tornando alla sua Milano “nostro diritto naturale”. Ma “il grigio soffre, il grigio non è un colore / ma un voltarsi”. Milo riflette sulla poesia che ha costituito fino ad allora la sua unica ragione di esistenza e quando Bretonnière gli chiede se nella sua vita, all’infuori della poesia, esiste qualcos’altro, risponde: “ieri avrei detto di no. Oggi non oso rispondere a questa domanda”. Sono gli anni dell’ “idea e dello scisma dell’idea”: “ Poi le strade ci condussero / in un colloquio straniero,/ mendicanti di hotel / con l’idea e lo scisma nell’idea: / ecco gelarsi, nel torace, le corse infantili”. “Sono soltanto lo stile che ho appreso” scrive Milo in “Cartina muta”. Il ritorno a Milano non può più essere procrastinato. Milo, non senza traumi e fratture familiari, lascerà Roma (dove non c’erano cattedre per l’insegnamento) nel gennaio del 1996 e per un periodo tornerà nella casa di viale Majno riconciliandosi con gli attriti normali della famiglia d’origine ritrovando l’affetto delle lunghe passeggiate con il padre. Poi una svolta, che in Milo significa sempre rinascita e non cambiamento: una nuova via Rosales, l’appartamentino di quindici metri quadri di Corso Lodi, una solitudine riconquistata e un cambiamento che avviene come una folgorazione, cioè l’inizio di Biografia sommaria.
    A percorrere pagina dopo pagina i libri e le interviste potremmo attraversare tutte le strade dove ha camminato, dove ha abitato e dove è accaduto qualcosa che ha coinciso con la poesia: dall’abitazione della famiglia di viale Majno 31, alla mitica via Rosales 9, dalla casa di Marta Bertamini in via Stradella 15, agli appartamentini in affitto di Corso Lodi 103 e di via Varesina 71, dalle case di Roma dove ha abitato con Giovanna e Daniele in via Prenestina 42 (dove già viveva Giovanna e dove è nato Daniele) alla loro casa di via Giolitti 387, fino al trasferimento e alla ricongiunzione della famiglia nel 2002 con l’acquisto del nuovo appartamento in via Bovisasca 85. Solo un anno prima della morte di Giovanna, che già nell’estate successiva tornerà a Roma per quel calvario di cliniche e ricoveri, confortata da una numerosissima e sempre presente cerchia di amici, parenti e poeti, fino all’uscita quasi postuma del suo libro Epoca immobile.
    Ma ci sono appena accennati anche i luoghi dove ha vissuto periodi brevi e cruciali della vita come Caivano in provincia di Napoli, dove ha seguito Giovanna per un incarico d’insegnamento temporaneo, paese inospitale e angosciante, Saint-Nazaire e soprattutto Rosignano nel Monferrato, dove nell’antica villa di famiglia della madre ha conosciuto i giochi di ragazzo e le prime bande. E sempre c’è Milano, la Milano del Fossati e del Parco Lambro, di via Crescenzago e via Mestre, del ragazzo che amava i campi di calcio e i cinema di periferia; la Milano di via Prospero Finzi, di via Pacini e di via Garigliano, dell’ovale del Pirelli, dei gas di Rho, dei treni per Lambrate, Certosa, Greco, Bresso, Sesto e Comasina, delle nebbie e degli altiforni, dei palazzi dell’INA, delle tangenziali, delle edicole, dei citofoni e del metano presente in tutti i suoi libri; e quella scoperta più tardi del paesaggio metafisico e industriale di Sironi. Ci sono gli autobus come il 57, il sacro autobus mattutino per Quarto Oggiaro, l’autobus preso tante volte con Giovanna e Daniele per andare a giocare a pallone a Villa Scheibler e il bar un po’ neorealista degli anni cinquanta che piaceva tanto a Giovanna.
    Massimo Gezzi nell’ intervista qui raccolta ricorda una fotografia di Milo pubblicata anche dalla rivista “Poesia”, appoggiato di spalle a un parapetto della ferrovia … “Lì sembravo pronto per la fucilazione. Più che un allentamento – perché la mia rimane sempre, credo e spero, una parola di grumi – è subentrata poi una prospettiva, qualcosa che si è aperto solo negli ultimi dieci anni, una sorta di lungimiranza”. Anche nell’intervista a cura di Gabriela Fantato e Annalisa Mastretta, Milo si descrive: “Sì è vero! In passato per anni, non riuscivo a star fermo: tutto attorno a me accadeva contemporaneamente e io giravo e giravo, di giorno, di notte, andavo per Milano senza pace. Ero magro, scavato, allucinato (… ) tu non mi hai visto, vero, in quel periodo?( …) meglio così (…) tutto si muoveva come in un caleidoscopio. Poi a partire dagli anni novanta, c’è stato un cambiamento…”.
    “Tu non mi hai visto, meglio così” dice Milo, ma non è vero: molti, guardando le fotografie di allora e quelle di oggi, vorrebbero riempire tante lacune. Molti avrebbero voluto conoscere Milo già in quell’ inverno del ’76 di cui ci parla in questo libro, avrebbero voluto leggere quel cartello affisso nella bacheca dell’Università Statale di Milano dove era scritto: “ Cerchiamo qualcuno che ami la poesia”, come ci racconta. Avrebbero voluto partecipare alle serate di via Rosales numero 9 dove insieme all’elaborazione dei temi e delle poetiche di cui abbiamo testimonianza nella rivista “Niebo”, la comunità di amici e aspiranti poeti vivevano nelle atmosfere freebes e contestataire di quegli anni, il fervore di una nuova poesia, “una dimensione di comunità, di bohème e di giovinezza”. Chissà quanti vorrebbero sapere come era Milo ancora prima, nei campi sportivi e nelle palestre di Milano quando faceva salto in alto: “ricordo la cura con cui contavo i passi, il punto preciso dello stacco, le scarpette a sei chiodi, tutta una liturgia che preparava la stagione agonistica e ritmava gli allenamenti, la preparazione della rincorsa,l’avvolgimento dell’asticella …” ( Colloquio con Patrizio Ceccagnoli ). Oppure al tempo in cui faceva uso di anfetamine di ogni tipo, in cui non mangiava e non dormiva, nel tempo in cui si professava “guaritore”, si atteggiava a una sorta di “guru” e studiava le antiche filosofie orientali ed indiane, l’induismo e lo zen, il periodo in cui frequentava Armando Verdiglione e faceva analisi lacaniana, i periodi in cui ogni apparente cambiamento era un ritorno o una rinascita, un voltarsi indietro e un camminare in avanti con lo sguardo “frontalmente” fisso al presente e a quel “sempre di ogni occasione”.

    Via Stradella n. 15
    5. Personalmente ho conosciuto Milo nel luglio del 1987 per un’intervista andata in onda il 19 ottobre all’interno del programma Rai Radio Uno “Poesia italiana oggi”. Lo incontrai nell’abitazione di Marta Bertamini, ma non era la prima volta che lo vedevo né che ci parlavo. La sua voce al telefono era grave e rotta, con discese che sembravano quasi sussurri impercettibili e un respiro drammatico quasi a strappi, ma era piena di una tensione contagiosa che trasmetteva profondità e calore. Lo avevo visto due anni prima su un palco di Villa Borghese a Roma per una lettura. Avevo appena pubblicato su una rivista la recensione a Terra del viso e dopo varie perplessità avevo deciso di non farmi viva con quella piccola carta di presentazione in mano.
    Quell’estate del 1987 lo aspettavo negli studi Rai di Corso Sempione a Milano per potere completare il ciclo a cui avevano già preso parte altri poeti. Tomaso Kemeny era ancora in sala di registrazione quando fortuitamente tra i tanti studi e la mia occasionale presenza, arrivò precisa la sua telefonata (ma ora so che De Angelis, svagato, allucinato, selvatico e stralunato come appariva, era capace delle più poliziesche soluzioni), e naturalmente non venne. E’ inutile nascondere che era per me l’intervista più attesa. Mi scusai con Kemeny, che affettuosamente con la gentilezza che gli è propria, completò il lavoro anche da parte mia, e con il registratore Nagra della Rai suonai il campanello di via Stradella 15. Dopo alcuni minuti contati per non essere invadente, senza insistenza riprovai. Era la chiave giusta, infatti rispose e salii, ma tardò ancora ad aprire la porta. Brancolante, come risvegliato da chissà quale incubo del sonno o indotto da droghe, a piedi nudi, spettinato, aggiustandosi i jeans e la maglietta, dall’aspetto atletico come un ragazzo biondo della gioventù bruciata americana, con diffidenza mi lasciò entrare.
    Nel soggiorno luminoso con angolo cottura, la moquette chiara era totalmente ricoperta da fogli di dattiloscritti smembrati, di cui solo Milo poteva ricordare per ogni verso e per ogni parola da chi li avesse ricevuti. Era il primo segno di quell’ attenzione ossessiva al singolo verso, alle poche parole isolate da salvare, per cui ho avuto sempre resistenza e di cui negli anni seguenti siamo tornati a parlare. Ma era anche il segno della sua straordinaria e generosa passione per il capire e il diffondere poesia che non lo ha mai abbandonato. Il pensiero di dover ancora vincere la sua circospezione prima di accendere il Nagra, passò in secondo piano. Tutti oggi sanno che a nessuno era dato vincere senza consenso il suo isolamento, la sua ombrosità e la sua imprevedibilità. Ma il carattere difficile di Milo, la sua ritrosaggine per cui ancora oggi non risponde mai e a nessuno al telefono, è anche la sua cordialità aperta e riservata, capace di ascolto e di considerazione, piena di amicizia e affetto, di legami profondi e di predilezioni. Una innata gentilezza vigile e seria, garbata e concentrata. Non solo non provavo alcun disagio di fronte a tanta diffidenza, ma mi rassicurava la simpatia delicata, timida e sorridente della persona, la sua schiettezza nell’aver inventato, come spesso nella sua vita, una scusa infantile ed evidente, l’accoglienza cameratesca senza preamboli, fuori da ogni convenzione. Non era il poeta, enfant prodige che si compiaceva della sua originalità ed eccentricità come qualcuno voleva far credere, ma era, miracolosamente come accade di rado in letteratura, l’adolescente appena diventato adulto dei suoi libri.
    “ Ritengo che solo tra i poeti adolescenti ci possa essere un grande poeta” ha scritto in “Poesia e destino”, ed ancora: “non c’è posto per chi è falso e cortese, non c’è posto per il rancore trattenuto o per l’ironia”. Milo non era né cortese, né falso, ma sapeva essere premuroso e sfuggente, sensibilissimo e irremovibile. Come quel Luca de La corsa dei mantelli che non può fidarsi di chiunque, ed è sospettoso ma ospitale.
    C’era, al fondo del nostro colloquio, la presenza per me di tutti i suoi saggi più che delle sue poesie, dove mi ero rispecchiata leggendo i passi sull’adolescenza e i patti di fratellanza e fedeltà, sul luogo di lealtà che esclude ogni sotterfugio, sulla corsa e sulle sfide crudeli tra consanguinei, sulla selvatichezza artemidea lontana da ogni intenerimento, sulla grandezza del mito atletico e di Sparta, sulle potenze arcaiche, sull’eroismo frontale di Atalanta, Ippolita e Pentesilea, sulla solitudine di ogni azione eroica. La prima domanda che gli rivolsi riguardava l’accusa di orfismo, quella stessa che continua ancora oggi a rimbalzare polemicamente identica in tutti i blog di Internet, “Dunque dicevo che l’accusa più frequente alla poesia cosiddetta neoorfica ecc. ecc. cosiddetta da chi? Da chi formula l’accusa? Si evidentemente. Ma chi la formula deve chiarire che cosa significa neoorfica. Cosa che non mi è in nessun senso comprensibile. Se storicamente le parole hanno un senso, l’orfismo è legato al mito dei titani, è legato a una ripresa gnostica, è legato a certe dimensioni purificatorie …”. Poi la risposta scorre densa e precisa per ben tredici pagine quasi con le medesime espressioni di tante altre risposte che ritroviamo in questa raccolta, come anche le risposte seguenti sul gesto atletico, l’agonismo, l’idea di tragedia e di destino: “Chiunque abbia soltanto di passaggio praticato arti marziali ed in particolare Ha-ki-do o anche Jujitsu a volte, si rende conto di quanto di banale ci sia nell’archetipo sportivo ed atletico che contraddistingue il gesto occidentale, ossia quello del sopra e del sotto, del vincitore e del vinto, quello del sergente e della recluta, insomma …”.
    Dopo quasi sette o otto ore di colloquio magico e serrato, senza la minima interruzione, come incalzati da chissà quale urgenza o necessità, Milo iniziò a leggere alcune poesie. Per prima scelse Verso la mente dedicata a Nadia Campana, poi E’ possibile portare soccorso agli assediati, Nominativo, Il saluto che mi restò i comune, Suonerà una scelta orchestra, T.S., Queste pietre, Ora si compiono gli anni e Leggenda del Lago di Garda. Rimaneva solo il tempo di raggiungere a malapena l’aereo. Ma la diffidenza di Milo non era ancora stata superata. A breve arrivò una lettera che perentoriamente mi chiedeva di non mandare in onda la registrazione. Lo avevo promesso e come dice Milo la parola non è ritrattabile. L’adempimento della promessa no, non era ritrattabile, ma io ritrattai ugualmente facendogli ascoltare nel settembre a Fano durante un Convegno, il lavoro finito e limato. L’intesa immediata e le passioni comuni passate attraverso la prova del saper attendere e rimanere fedele ai patti, trasformarono la diffidenza in fiducia e la voce magmatica, grave e a sussurri di Milo di allora andò in onda.
    Quando nel ’91 chiesi a tutti gli autori di rivedere le sbobinature delle interviste, del testo originale ritoccato da Milo non rimaneva quasi nulla, anche se c’era, ritagliato, cancellato con il bianchetto, incollato, ridiviso in capitoli, posposto e chiosato a piè pagina in un numero altissimo di note, l’intero discorso, le stesse espressioni: “Quando qualcuno – di rado- mi chiedeva in quali forme e attraverso quali persone ho cominciato a riflettere sulla mia poesia, citavo ogni volta l’incontro con Angelo Lumelli e con Michelangelo Coviello, Franco Fortini, Giuseppe Conte, l’esperienza di “Niebo” ecc. Oggi invece penso a un periodo anteriore, quello scolastico …” Questa versione che poi pubblicai è la stessa risposta che ritroviamo in alcune di queste interviste ma anche nell’ Autodizionario degli scrittori italiani di Felice Piemontese del 1989.
    Sì è vero, come afferma Milo nell’intervista a cura di Mariasilvia Trovarelli: “Abbiamo poche parole dentro di noi, sempre quelle, da sempre”. Sì è vero: “c’è questo ripetersi nei miei versi, questo instancabile ritorno”, “pochi i luoghi che abbiamo amato, poche persone improsciugabili (Intervista a cura di Domenico Settevendemmie). “Nulla è cambiato dai tempi di Somiglianze” (Intervista a Massimo Gezzi).
    Anche il colloquio qui ripubblicato, apparso sulla rivista di estetica “Agalma” nel 2002, ha una data dattiloscritta di Milo: “ Martedì 12 marzo, via Varesina, ore tre e venti del mattino … prima di andare a scuola…”. Non è l’ora reale del nostro colloquio avvenuto nei giorni seguenti, ma la prima stesura di “Alcuni spunti per l’intervista con Isabella” che avremmo dovuto preparare di lì a pochi giorni. Sicuramente anche qualche altro passo delle interviste raccolte nel volume avrà subito i ritocchi di quel “demone variantistico” di cui l’autore ci parla in queste conversazioni.
    Milo avrebbe voluto di certo ridurle all’osso, senza più carne, per quella ritrosia caratteriale ad ogni concessione privata, ad ogni minimo accenno di intimità e ad ogni pronuncia in odore di improvvisazione e casualità. Avrebbe voluto affinare ogni risposta, ma addirittura ogni domanda al suo “udito millimetrico”, finché non rimanesse altro che un’incisione appuntita in bianco e nero della verità della poesia.
    Difficile e forse anche inutile, sarebbe una ricostruzione filologica di queste ventidue interviste che abbracciano un ventennio di vita e lavoro dal 1990 all’estate del 2007, soprattutto perché ci parlano anche degli anni precedenti con le stesse parole, gli stessi ricordi, gli stessi nomi, pensieri ed immagini con cui Milo ha sempre risposto ai suoi interlocutori fin dalle interviste degli anni Settanta e Ottanta a Luigi Grazioli o a Giuliano Donati.
    E’ inutile aspettarsi da De Angelis le confessioni di un uomo, il velo sollevato su squarci d’intimità e di vita privata, anche se fa continuo riferimento ai suoi traumi, alle sue nevrosi, alle accelerazioni anfetaminiche che hanno contraddistinto un periodo della sua scrittura, ai suoi amori, alle amicizie. Le ventidue interviste del libro si fermano ad una soglia che ci permette di avvicinarci all’uomo Milo De Angelis un attimo prima di essere respinti dalla ritrosia o, meglio, dall’estremo pudore della sua delicatezza. Si avverte anche quel luogo inaccessibile e corazzato che probabilmente nessuno conosce di Milo De Angelis. Lo stesso punto confinante di se stesso che attraversa tutta la sua poesia, quel confine prossimo ma mai valicabile, dove una vicinanza troppo prossima che si chiami amore o amicizia o qualsiasi altro legame privato, viene avvertita come un rischio mortale, una minaccia, un urto, un pericolo. “ I corpi sono contundenti. Mai tregua, mai dolcezza” , “L’armonia è qualcosa che non conosco” ci dice De Angelis.
    Il suo è un intero cammino di solitudine come un percorso al buio, a tentoni, confuso e minaccioso, allucinato e spasmodico, ma pieno di presagi e di notti stellate che sono l’incontro sorprendente con un luogo, una parola, una persona . Un percorso segnato da minacce e allarmi, richiami e sirene, in cui il poeta inciampa, balbetta, è al confine tra il grido strozzato e il silenzio, quando tutto diventa vorticoso e avvolto dal turbine come da un rischio mortale. Una solitudine senza rimedio, piena di voragini, risucchi e zone oscure, come lascia trapelare De Angelis in queste interviste.

    Il puer aeternus e l’uomo. I DVD

    6. Si capisce allora che tra il puer aeternus dei primi libri e l’apparente maggiore comunicabilità dei successivi, non c’è ciò che comunemente intendiamo con la parola cambiamento. Ma c’è nel mezzo il dramma dell’immutabilità, il sentirsi immobili e bloccati, la paura e la confusione, il sopravvento egoico e narcisistico di ciò che si è stati, il sentirsi pressato dalla necessità di un cambiamento e l’espiazione di un errore. Una maturità come seconda infanzia, fedele al passato e fedele a se stesso. Forse è per questo che tra le sue raccolte di poesia continuo ad amare di più Distante un padre, perché come fu subito notato, con questo libro Milo tocca il vertice del suo stile spingendolo tanto in alto da esporne i limiti prima del collasso. Perché è un libro legato mani e piedi alle sue ossessioni ed immagini, voli, azzardi, imprudenze, ferite e spaccature. E’ un libro dell’orgoglio, ma è anche il libro che prelude alla maturità come assunzione di responsabilità degli eventi. Segna davvero il passaggio dall’adolescenza con tutti i suoi peccati d’orgoglio, alla maturità, ed è l’epilogo della crudeltà dell’infanzia come nelle fiabe. E’ il libro che a ritroso ha posto il più difficile problema di algebra a cui fa tante volte riferimento Milo, “quella necessità di trovare una soluzione con la massima economia dei mezzi”.
    E’ il libro con cui ho conosciuto Milo una seconda volta nonostante venti anni di amicizia complice, ininterrotta, solidale e confidenziale, perché non riuscivo a coniugare il ragazzo del patto di lealtà e fedeltà all’adolescenza, con l’uomo che lo aveva infranto di fronte ad una comunità di amici o di discepoli. E’ il libro che con quella fedeltà a se stesso testimoniata dai dieci anni di silenzio, ha permesso il passaggio allo spessore di responsabilità matura di Biografia sommaria e di Tema dell’addio. Milo ha rimesso in ordine i suoi frammenti, i cortocircuiti e la velocità si sono coagulati in immagini solide, rendendo possibile ripercorrere all’indietro la parola iniziale.
    Adesso che la Poesia ha assottigliato lo spazio che in quella congiunzione del titolo dei saggi la univa al Destino, adesso Milo può restituirci con queste ventidue interviste il senso di un destino.
    Il principio e la fine si toccano e l’ultima risposta è lasciata al lettore: quale è la via in avanti e quale la via all’indietro?
    Chi è il poeta che nella propria vita non ha mai potuto fare a meno neppure nell’amore coniugale della poesia? Solo per le velociste, le saltatrici, le ragazze spartane, le fanciulle guerriere come le Daine de La corsa dei mantelli non è necessaria la scrittura “per quella strana analogia tra i versi e il gesto atletico, accomunati da un’infinita preparazione, da un culto dell’economia e dell’essenziale, da un rigore millimetrico che poi esplode nell’assoluta libertà del testo o del gesto, nello splendore della poesia riuscita o del salto perfetto”.
    E’ vero: “Milo è sempre presente in Milo De Angelis, è l’anima vera del fratello maggiore ed entra ogni giorno nel nome pubblico di Milo De Angelis” come ci dice nel colloquio con Viviana Nicodemo.
    Soltanto ciò che è ri-detto, ri-elaborato, ri-raccontato, secondo Hillman,diventa storia. Allora guardiamola e ascoltiamola, oltre a leggerla, questa storia.

    Isabella Vincentini

  • Che meraviglia la recensione di Fortini al libro di De Angelis! Che capolavoro di patos e intelligenza! Il vero critico sa fare questo: puntare un verso con la sua lente d’ingrandimento e innestarlo nei grandi temi della nostra vita. Grazie a Roberto Russo!

    Marco Azzolini

  • @Roberto Russo: grazie!!! aggiungo alla lista delle recensioni con cui integrare la monografia di De Angelis (comincio a pubblicarle oggi). Magari si riuscisse a fare la stessa cosa con tutti i poeti dell’archivio, sarebbe davvero un lavoro di alta sociofilologia.

    @Stefania Monti (e, di conseguenza, @Linguaglossa): premetto che Linguaglossa non ho mai avuto il piacere (o il dispiacere) di conoscerlo, quindi – in soldoni – fondamentalmente non me ne frega nulla né di difenderlo né di attaccarlo. Più semplicemente, è accaduto che più interventi di Linguaglossa venissero pubblicati su questo blog, che ha sempre apertamente invitato tutti (e con tutti intendo TUTTI) a dire la loro sui temi affrontati di volta in volta.
    Non essere pubblicati da nessun “editore serio” (poi magari apriamo un’altra discussione in un altro momento e ci mettiamo d’accordo su cosa ciò significhi) o essere un “giustiziere” non è condizione necessaria né sufficiente per essere accolti dalla rete – nello specifico, non in questo sito.
    Il fatto che i poeti che Monti nomina non sappiano nulla di questo o di altri dibattiti in rete più che buffo mi sembra triste; d’altronde, da certi poeti che scrivono ancora come se stessero nel 1800 non mi aspetto nulla di diverso. Ognuno conservi il proprio parere (ricordando che la coerenza non necessariamente è sempre una virtù), la storia farà il resto.
    Mi pare, per chiudere qui l’ennesimo battibecco del cazzo, che il “livello” del dibattito abbia toccato il fondo solo in alcuni casi, compreso l’ultimo di Monti, mentre credo di poter dire che il resto degli interventi possiedano tutti un certo contegno ed una certa dignità.
    Se Monti non fosse dello stesso parere, si faccia del bene – e ce ne faccia – tenendosi alla larga come il resto di quei poeti che non vuole sapere cosa accade attorno a loro. Forse proprio per paura di non esserne all’altezza e venirne, in tal modo, esclusi.
    A Giorgio chiedo di evitare, anche se non è semplice, di rispondere ad eventuali attacchi poco stimolanti che continuano a non entrare nel merito del detto – forse perché chi li propone non è in grado di leggere, maledetto alfabetismo funzionale.
    Sempre a Giorgio e @tutti, tornando nel merito della questione, ho riflettuto su una domanda posta da Linguaglossa: c’è da chiedersi con che specie di «reale» l’arte moderna pensa di avere a che fare.
    Beh, io credo che il reale sia rimasto il medesimo di sempre; ciò che è cambiato è la realtà, ovvero la rappresentazione di tale reale e le sue metodologie. L’arte non è più imitazione, per esempio; non è più mera rappresentazione. È diventata un riflesso, una simulazione, un simulacro della realtà e, a sua volta, la realtà si nutre spesso e volentieri di arte, inglobandola all’interno del suo unico indistinguibile claderone. Dunque più che di disartizzazione dell’arte, girerei la frittata e direi che si può parlare di artizzazione della realtà, da cui deriva l’indistinguibilità dei due ambiti. Penso ciò soprattutto se leggo la poesia sperimentale contemporanea, per esempio.

    Luigi B.

  • Ho trovato il pezzo di Fortini! Visti i toni esacerbati degli ultimi commenti, potrebbe chiudere o almeno armonizzare l’intera discussione nella forma del cerchio: in fondo tutto ha preso inizio da una frase di Fortini!

    Franco Fortini

    COME CERTE DANZE DEL CAUCASO
    “Terra del viso” di Milo De Angelis, Mondadori, 1985, pagg.79, lire 18.000

    Cinquantasette brevi poesie: le legga oggi chi si occupa di poesia nuova e domani anche chi non se ne occupa mai. L’autore, trentaquattro anni, è alla sua terza raccolta. Versi difficili: che non volano però al vento sulle foglie della Sibilla, ma se ne stanno ostili come scacchi a partita giocata e vogliono che noi la si ripercorra all’indietro, fin dall’inizio. Danno il labirinto e il filo, non la pianta. Il titolo intende che la faccia umana è terrestre, un’area misurabile e coltivabile, come si dice Terra Nova o Terra del Fuoco. Materia e basta. Ma quando a dirlo è una voce così esasperata, è come gridasse: spirito e basta.

    Tra i versi vengono avanti ragazzi e giovani in gara e in rischio, come per un’educazione greca; e la luce può ricordare quella dell’alba di Platone, dopo il convito. Con l’aiuto di grandi di ieri, come Campana, Mandel’stam e Celan, De Angelis vuole imprimere una regola rigida e razionale a un modo di immaginare il proprio discorso, che può invece procedere solo per balzi e scatti, come certe danze virili del Caucaso.

    Il personaggio-autore attacca le parole a mano armata, attento a punirsi subito d’ogni moto di compassione. Ma, per fortuna della sua poesia, vedi a occhio nudo la fragilità del cristallo che specchia siffatto atletismo. La sua solitudine è tanto più vera quanto più recitata; la fine della sua giovinezza è reale, non solo fantasticata. Così, di poesia in poesia, il lettore paziente assiste, come in teatro, a un movimento a vista. Quando scrive “la rada gioia del paradiso” o “soltanto il mio turno, benché eterno”, è ancora nel proprio ruolo “sublime”; ma quando scrive “ritrovo una sintassi nei secoli già studiati” o “da un punto decrepito qualcuno ritorna e spara” oppure “l’armadio dei pochi vestiti / con cui cambiare una civiltà”, senti che al di là della perentoria angoscia di assoluto e di apocalissi, il poeta sta passando dalla ricerca di fratelli a quella di amici.

    “Sì, l’aveva giurato”, dice l’ultimo verso di una bellissima poesia-dialogo (“31 agosto 1941”) su di una podista sovietica che, già morta, taglia il filo di lana; e quello è ancora un giuramento solitario. Mentre, della più ricca contraddizione tra ira e pietà, testimonia, con altre, una poesia di pochi versi che mi sembrano memorabili. Ha titolo “Nei polmoni”, ma meglio le converrebbe quello di due altre composizioni: “Colloquio con il padre”. “La coperta, la sua forza mentre crescevamo. / O gli occhi che ieri furono ciechi, / oggi tuoi, ieri l’inseparabile. Le fiale, / il riso in bianco diventano l’unico / mondo senza simbolo. Materia che / fu soltanto materia, nulla che / fu soltanto materia. Vegliare, non vegliare, poesia, / cobalto, padre, nulla, pioppi”.

    Franco Fortini, “Panorama”, 2 giugno 1985

  • Mi dispiace che Nicola Borletti sia partito e non possa più aiutarci con i suoi preziosi consigli bibliografici. Vorrei sapere da lui, per esempio, come recuperare la recensione di Franco Fortini a “Terra del viso”. E’ noto che Fortini ammirava “Somiglianze” e invece stimava di meno “Terra del viso”. Ne scrisse comunque su “Panorama” nel 1985, alternando critiche e apprezzamenti. Quella recensione è introvabile, se non con una ricerca di biblioteca, una di quelle consuete a Borletti. Ancora più introvabile (per un’indicazione bibliografica sbagliata) quella di Enzo Siciliano del 1976 sul “Tempo illustrato”. Di difficile reperimento quella di Dario Bellezza su “Il Mondo” e quella di Franco Fortini sul “The Times Litterary Supplement”, che sono i primi comment in assoluto a De Angelis, entrambi del 1975.

    Detto questo, ringrazio Borletti per il suo consiglio relativo a “Colloqui sulla poesia” (ed. La Vita Felice, 2009), il libro che raccoglie le interviste di De Angelis durante vent’anni. La nota introduttiva di Isabella Vincentini è lunga ed esaustiva, ricca di notizie biografiche. Anch’io, nel mio piccolo, voglio fare un lavoro di servizio, trascrivendo la prima parte di questa prefazione… ed eventualmente più avanti la seconda parte. Eccola:

    1. A distanza di poco più di trent’anni da un esordio di immediata risonanza e stima, ancora oggi la poesia di De Angelis, studiata, tradotta e presente nei maggiori compendi critici come una delle voci principali della nuova poesia degli anni Settanta, è oggetto di dispute, contrasti, polemiche, schieramenti e contraddittori viscerali, che dalle aule dei convegni si sono spostati sulle pagine del web. Definizioni, classificazioni o etichette, interpretazioni, citazioni ed esegesi dei singoli versi e delle singole raccolte continuano a generare equivoci e levate di scudi. Il nodo del contendere è sempre il medesimo: l’adesione sacrale, mistico-orfica-ineffabile e iniziatica della sua poesia, il riscontro esatto tra l’uomo e il poeta, sorta di monaco tibetano o di mistico medievale che rappresenta un’idea di poesia in carne ed ossa. La pubblicazione di queste interviste probabilmente non dissiperà né dissidi né malintesi, anzi offrirà ulteriori pretesti per poter continuare a citare interviste “faziose” in cui De Angelis si autorappresenta come un Orfeo che sale e riscende o parla del rapporto della poesia con l’eternità (come è avvenuto nel Blog lanciato da Luigi Nacci nel mese di maggio del 2007). Ma giunge a proposito in un momento particolare del dibattito sulla poesia contemporanea. Un momento di interrogativi senza risposta sui percorsi e la realtà della poesia di oggi; sui poeti più significativi, più noti per aver pubblicato con grandi editori o meno noti; sui “maestri” e su una “generazione sommersa”; sulla mancanza di identità di gruppo e di pensiero; sul coraggio di infrangere i tabù dell’omertà del giudizio che non vuole correre il rischio di rimanere fuori cordata; su una storicizzazione che esclude per partito preso o per gusto personale; sul canone e sulla tradizione smarriti; sullo stato di abulia, di noia e immobilismo, di conformismo e clientelismo, di solitudine, vacuità e disgregazione…
    Un contesto quindi profondamente cambiato rispetto al 1976 anno di pubblicazione della prima raccolta poetica di Milo, “Somiglianze”, un mondo editoriale e culturale affollato e mediatico, con autori radicati sul proprio lavoro e la propria attività manageriale, dove la letteratura ogni giorno affronta il problema della propria irrilevanza sociale ma non cessa di cercare il varco di una piccola utopia o di un’oltranza. Ripercorrendo le tappe della propria esperienza di vita e di scrittura, l’autore che è stato il manifesto di una generazione, ci riporta dentro il clima caldo ed entusiasta degli anni Settanta, dentro una comunità che voleva ribellarsi al conformismo ideologico d’allora e cercava con tutte le proprie energie vitali una via alterativa. Non si può non avvertire quanto siano obsolete le polemiche di oggi che riguardano la sua poesia, quanto malamente invecchiate in questi trent’anni, i cui cambiamenti culturali richiederebbero una diversa lettura diacronica per comprendere la complessità che è sotto il nostro sguardo. Non può non risultare evidente che la presunta scrittura mistico-orfica non ha niente di misteriosofico o mistico, né delle parole in libertà o della scrittura automatica surrealista, tanto quanto è programmaticamente distante dal non-sense, dall’alienazione, dalla mimesi, dal collage e dal citazionismo auto-ironico dei giochi verbali della poesia sperimentale.
    Come gli artisti che più ama di cui ci parla in un’intervista, dovremmo finalmente poter leggere i testi di De Angelis con lo stesso sguardo con cui osserviamo un quadro: scene di vita metropolitana, episodi di vita vissuta che si raggrumano in densi segni fitti, fitti, giustapposti e deformati come nelle terrificanti visioni di Bacon, nelle contraddizioni e nelle astrazioni di Franz Kline, nelle discordanze di De Staël, nelle tensioni vitali ed esistenziali di De Kooning, nelle parole – massa di colore, violente come la pittura espressionista e drammatiche come l’action painting. Anche la sintassi della poesia ha attraversato il linguaggio astratto e figurale del Novecento, le avanguardie, le neoavanguardie, il concettuale e il surrealismo. Spezzoni o incubi di realtà non cercano più un luogo metafisico, simbolico, analogico, né tanto meno mistico, ma proprio come nell’arte tornano a luoghi ancestrali, archetipici o primitivi. Si spiegano non ricercando le connessioni tra immagine ed immagine, tra accostamento ed accostamento, tra verso e verso, disconoscendo come immagine arbitraria ogni accostamento spiazzante, ma ritrovando nell’intrico delle immagini, la tensione che emerge dallo sfondo e che evoca situazioni e visioni enigmatiche della realtà.

    Ventidue interviste
    Questo libro, che raccoglie ventidue interviste pubblicate tra il 1990 e il 2007, è un’intensa e lacerata riflessione su “ Vent’anni dedicati a scrivere, capire, diffondere poesia”; vent’anni in cui la poesia “è stata di certo la cosa più importante della mia vita”. Drammatico e allarmato, con momenti di memoria e confessione sorridenti e tenui, che spezzano la tensione, ci conduce dentro un’esperienza dove realmente “poeta, testo e realtà sono un insieme vivente”, inseparabili. “ Affermare che la vita è più importante dell’opera significa essere un letterato o un dilettante, significa che la propria opera non si è fatta vita” ci dice De Angelis citando una riflessione di Pavese.
    L’autore interviene sulla sua poesia, si commenta, parla del suo lavoro, enuncia la sua idea di poesia, si confronta con le poetiche e con i dettami culturali degli anni Settanta, ricostruisce il fil rouge della propria ricerca e della propria biografia, ci fornisce alcune chiavi di lettura dei suoi testi e ripercorre la cronistoria dei suoi libri.
    Con commossa, indelebile gratitudine, ricorda i pomeriggi in via Legnano 28 a casa di Franco Fortini, le sue collere su un enjambement zoppicante o un aggettivo sbagliato, l’atmosfera da tribunale e il suo marxismo profetico, drammatico e disperato. Con un affetto che non offusca mai il giudizio critico, ci parla dei suoi maestri così diversi come Mario Luzi, “maestro autentico” riservato e schivo che rendeva difficile la parola amichevole; oppure Piero Bigongiari fedele alla poesia quanto Fortini, gentiluomo fiorentino che sapeva accogliere e proseguire il discorso dell’altro.
    Dall’ archivio di vaste e disparate letture isola il suo canone occidentale: Lucrezio, la tragedia greca, Leopardi, Dostoievskj, Cvetaeva, Pavese, Piovene, Drieu La Rochelle, Céline, Lacan e Krishnamurti, ma anche Virgilio, Baudelaire, l’Antologia Palatina e Rimbaud, Jünger, , Blanchot, Campana, Giorgio Colli, Borges, Paul Celan, Gottfried Benn e Silvia Plath.
    Si indigna ancora per i diktat ideologici e politici che hanno segnato gli anni Settanta, gli anni della sua formazione, quando Francesco Leonetti era il suo pessimo insegnante al Liceo Berchet e nemico dei poeti, quando l’effimero era camuffato da impegno politico e i miti New Age dell’India e del nomadismo erano in contrasto con la sua Milano del rigore e della sottrazione.
    Critica le definizioni e le etichette restrittive che imprigionano la poesia, dalla più autorevole Linea lombarda di Anceschi che va da “Parini a Nello Risi come se non esistesse quell’altra dimensione spirituale che collega gli Scapigliati al Tessa, Rebora ad Antonia Pozzi, il Manzoni degli Inni a Testori”, fino alle classificazioni degli anni Ottanta che intendevano liquidare sotto le formule di neoorfismo, neosimbolismo e neoermetismo la migliore poesia di quegli anni.
    Non si sottrae in poche battute al giudizio netto e complessivo sui contemporanei e sugli amici: “Cucchi è nato dalle parti di Federico Tozzi, Raboni è più prossimo a Luzi che a Luciano Erba, come Neri è più vicino a Magrelli che a Majorino. Mussapi è lontano dai miei versi come da quelli di Conte, e semmai si accosta a Bonnefoy o a Bigongiari, ne condivide lo sguardo poematico e luminoso. Conte è figlio di Lawrence e D’Annunzio, ma ha anche un sotterraneo rapporto con l’avanguardia”.
    Ribadisce senza remore la sua distanza dalla neoavanguardia affermando di non avere alcuna stima per Balestrini, Giuliani e Sanguineti “una specie di commissario del popolo”, ma parla del suo rapporto bello e fruttuoso con Antonio Porta e isola dall’avanguardia le prime opere di Elio Pagliarani.
    Lascia emergere tutti i volti di quell’adolescente solitario, scontroso e silenzioso che fin dagli anni scolastici, esercitandosi in un lungo atto atletico solitario, cercava una comunità di uguali, ragazzi e ragazze per sfidarsi e lottare insieme alla ricerca di un’idea assoluta di poesia. E ci sono tutti: Michelangelo Coviello, Angelo Lumelli, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Giancarlo Pontiggia, Emy Rabuffetti, Roberto Mussapi, Antonio Mungai, Alberto Schieppati, Elia Malagò, Dario Capello, Nadia Campana.. e poi Giada, Donatella, Paoletta, Roberta Fossati, Stefania Annovazzi, Marta Bertamini, Giovanna …
    Ci parla anche dei suoi registi preferiti che come i poeti e i classici, seguono la direzione drammatica delle anime infelici: dalla Nouvelle Vague di Truffaut e Bresson, ad Antonioni e Tarkovskij, e soprattutto il Louis Malle di “Fuoco fatuo”, a cui si è appassionato fin dai dodici anni in una di quelle sale cinematografiche di periferia tanto amate; e poi Visconti con alti e bassi, Fellini no, è solo piacevole, Soldini e Amelio sicuramente meglio del detestato Nanni Moretti.
    Ma troviamo anche le sue preferenze calcistiche, i piatti e le bevande prediletti e quando Patrizio Ceccagnoli gli chiede quale sia il lato del carattere che avrebbe voluto cambiare, Milo risponde “il carattere non di cambia” ma, in una versione precedente aveva risposto: la paura della morte, prima di correggersi. Ci svela anche che avrebbe desiderato una figlia e ironizza sull’assenza della natura nei propri libri: “non so cosa è il mare, la montagna, un albero, un campo: gli unici campi che mi interessano sono quelli sportivi”.
    In alcuni casi in buona fede mente: “Non ho mai trovato epigoni” quando invece sono sotto gli occhi di tutti plaquettes e piccole raccolte che hanno talmente sedimentato e assorbito il suo stile da essere inconfondibilmente deangelisiane. Ma aggiunge: “nessuno, giustamente, ha mai voluto avvicinarsi al mio mondo poetico e rimanerci, nessuno è così stupido da restare a lungo in quell’inferno che è la mia vita”. Ed allora si capisce che in verità non ha mentito perché lo stile e la maniera, l’epigonismo, sono sempre stati una cosa molto diversa dall’impronta unica e irripetibile della poesia. Ed ogni riga di queste ventidue interviste ha i caratteri della sua mano fino a restituirci tutti i lati di una personalità sognante e tormentata fin da ragazzo, lacerata, tenace, ossessiva, ribelle, sempre sull’orlo del delirio, ma profondamente ancorata alla sua contingenza, strettamente allacciata ai luoghi, ai fatti e alle persone che ha conosciuto.
    “L’opera poetica è storica in una maniera paradossale, perché, certo, deve appartenere a un foglio del calendario (… ) però, al tempo stesso sa che andrà oltre quel foglio: quindi porta con sé una lacerazione, tempi che si contraddicono e non si coniugano”.
    E’ questo il principale registro della poesia di De Angelis che si dispiega intervista dopo intervista, come una poetica mai formulata in canoni, programmi o dichiarazioni, ma che si delinea attraverso giudizi e mitologie letterarie e private: l’incontro tra la cronaca e la storia, tra la storia e l’epica. “Amo gli autori che oltrepassano la storia e trovano, non da religiosi una presenza eterna”. Strana epica la sua, frammentata, reticente, “scissa nell’idea”, piena di traumi, visioni fulminanti, allucinazioni, nevrosi e angoscia. Un’epica tragica che non ha mai conosciuto la conciliazione dell’humanitas, né la pietas. Eppure allo stesso tempo toccata da una “vertigine sacra”, da quel sacro che è consapevolezza e impotenza e fa dell’eroe, il poeta, una vittima sacrificale. Un’epica o, meglio, un’idea di epica prossima al mito e al Destino, che è la stessa idea del “Tradurre” e della cosmogonia di Lucrezio, dell’eredità da consegnare e della parola da traghettare, dello stesso rapporto con i morti, altro tema essenziale della poesia di De Angelis. Un’epica che è il confronto tra due lingue e due alfabeti: quello del singolo e quello della dimensione collettiva, quello del particolare e quello dell’universale, sempre sospeso tra storia ed eternità, tra la vita che ci è data e l’archetipo in cui tutte le storie, diverse ed uguali, si ripetono. Una trascendenza laica che risponde all’idea di Destino e che è allo stesso tempo fatalità e contingenza, “conoscere ciò che ci ha già conosciuti”, come afferma citando Ernst Jünger.

    La vita, la poesia

    3. De Angelis, interrogato, ripercorre le date della sua vita: dal 1976, anno di pubblicazione di “Somiglianze”, (un libro trepidante, innamorato, di un dramma teso alla scoperta della vita, un libro fitto di dialoghi, voci e invocazioni alla ricerca spaesata di un’identità ma insieme già dell’esattezza, scritto durante gli anni universitari dal ’70 al ’75), all’uscita di “Millimetri2 nell’’83, un libro disperato, scritto in un periodo buio di perdita di contatto con il mondo e con se stesso, teso e spolpato fino all’osso, “il mio contributo alla solitudine più aspra e inaccessibile”, “c’è uno stacco netto, impressionante tra il mio primo libro e il secondo”.
    Dal 1979, data di pubblicazione de “La corsa dei mantelli” dove quella figura mitologica di donna, Daina, ci confessa “è lei (…) è lei la donna della mia vita!” alle notti insonni del 1982 nella casa di via Rosales, fino all’incendio della mansarda del 1988 e l’inizio, dopo pochi mesi, del legame con Giovanna Sicari, letta per la prima volta nel 1983 a casa di Michelangelo Coviello. Il matrimonio avvenuto nel ’90, la scomparsa di Giovanna la notte del penultimo giorno di dicembre del 2003 e l’estate moribonda della sua agonia. Con tenerezza ci parla di Giovanna “che era la luce ed era il sorriso”, con un tono grave e ammirato ci descrive la poetessa, quasi una Sibilla posseduta, che aveva puntato la vita sulla poesia e alla poesia chiedeva tutto.
    Scorrono le date dei libri correlate alla ricerca esistenziale di poesia: Terra del viso nel 1985 con alcune più distese poesie biografiche che fanno riferimento alla figura del padre e ai suoi racconti di guerra, ma sempre dominato da un precario equilibrio di associazioni velocissime d’immagini appena un passo prima del surrealismo. Distante un padre nel 1989 “il mio libro più vorticoso, quello dai nessi più rapidi e inattesi”, scritto in un turbine associativo denso e veloce fino al collasso. A distanza di dieci anni, Biografia sommaria uscito nel 1999, un libro legato a molti eventi: una moglie, un figlio, nuove case, nuovi lavori, fino a Tema dell’addio nel 2005, dopo la morte di Giovanna, “il mio libro meno privato” che non deve essere letto “come un lamento funebre o un atto privato”.
    In molte di queste interviste De Angelis commenta e spiega, replica con garbo alle incomprensioni dei suoi versi, ci racconta l’antefatto da cui è nata la poesia, chiarisce i titoli dei testi e della raccolte come quell’enigmatico “STP” sostanza allucinogena che può provocare scissione mentale, oppure “T.S.”, il tentato suicidio delle cartelle ospedaliere. Sottolinea che in Biografia sommaria biografia non significa autobiografia, non è un diario intimo ma è una prima persona plurale che tende alla coralità. Dietro ad ogni poesia c’è dunque una circostanza o una storia che ancora ci manca, che il poeta promette un giorno di raccontarci come quando interrogato sul senso del verso “chi soffre non è profondo”, accenna al suo incontro con Cristiana Cattaneo. Ci lascia con il desiderio di saperne di più raccolta per raccolta, verso per verso aspettando magari un altro libro di interpretazione puntuale dei suoi testi, dopo questo di interventi del poeta sulla sua poesia e sul suo essere poeta. Un libro di cui si sente l’esigenza anche se oggi l’iniziale difficoltà e complessità, l’obscurisme da sempre discusso di De Angelis, non è più così scoglioso come sembrava all’inizio e non solo per l’opinione diffusa della maggiore comprensibilità e distensione dei suoi ultimi libri, ma perché è diventata sempre più ampia quella cerchia di pubblico che già conosce le sue tematiche ed è abituata ai suoi riferimenti biografici ed esistenziali.
    Queste ventidue interviste rappresentano perciò un contributo prezioso per la comprensione della sua poesia che ha varcato l’oceano e viene interpretata e tradotta dagli Stati Uniti al centro America, in un contesto a cui sfuggono la complessità e i riferimenti delle polemiche di casa nostra, i giudizi, i personaggi e le informazioni di una società letteraria di cui in Italia sono note posizioni, autori e pubblicazioni e in cui molti lettori conoscono riferimenti e allusioni anche per la conoscenza diretta di Milo De Angelis.

  • L’astio e la rozzezza delle insinuazioni e delle infamità che la signora Monti mi imputa la qualificano da sole.
    D’altronde, la rozzezza e l’approssimazione con cui si narrano le mie tesi (esposte in vari libri), nella rozza versione di Stefania Monti, rivela che lei non ha mai letto un rigo delle mie opere e che dietro di lei c’è un suggeritore.
    Chi c’è – mi chiedo – dietro le sue parole? Chi le suggerisce le parole che deve ripetere come un disco rotto? Forse qualcuno che ha paura delle mie idee?
    Quello che una massa indistinta di servitorelli come Stefania Monti mi imputa è la mia libertà di pensiero e di azione? Sì, lo so, la libertà di pensiero ha un prezzo, quello di essere denigrati da persone come lei, ma sa, io sono un uomo libero e ciò che scrivo forse è troppo difficile per un cervellino come il Suo.

  • Mah, queste frasi sul Canone e sulle Istituzioni poetiche sono tipiche di Linguaglossa. Le ho lette anche nel suo libro uscito nel 2002 presso Scettro del Re, collana diretta e finanziata da Linguaglossa medesimo. E’ un libro sorretto da una salda convinzione politica. Linguaglossa ritiene che il potere mondadoriano dei vari Sereni/Giudici/Raboni negli anni settanta e di Cucchi/Riccardi più avanti, abbia determinato a tavolino un Canone, difeso non sul campo dei valori ma appunto in modo istituzionale, ossia sul piano dell’editoria e delle collane. Questa linea – che effettivamente esiste – si chiama linea lombarda. Linea che si è estesa anche a Roma, spiega Linguaglossa, sotto forma di minimalismo: i troppo celebri Magrelli, Cavalli, Zeichen e anche Anedda sarebbero tutti minimalisti e pertanto vanno attaccati o minimizzati. Tra i nomi famosi rimane fuori, in un primo tempo, Milo De Angelis. Difficile collocarlo – se non per acrobazie – nella linea lombarda . D’altra parte Linguagloss fa l’elogio di Milo De Angelis (lo si può leggere riportato qui da Nicola Borletti il 17 agosto) proprio per questa sua singolare posizione. Ma De Angelis è pur sempre uno dello Specchio, e quindi prima o poi bisogna attaccarlo. I capi d’imputazione, come in processo stalinista, sono già stabiliti e si tratta ora di rintracciarli qua e là nei versi: arbitrio associativo, analogismo, oscurità voluta, sproblematizzazione e via dicendo. Le stesse accuse che nel libro (pag.54/55) aveva negato con fermezza! Non è un fatto nuovo, purtroppo, l’assoluta irrilevanza dei testi rispetto a un discorso che ha deciso a priori chi attaccare e chi sostenere. Qui di nuovo c’è però la notevole capacità aggregativa di Giorgio Linguaglossa nei riguardi del sottobosco, ben felice di fare la pelle ai soliti noti. E Linguaglossa si è immerso con pazienza certosina nell’opera di centinaia di sconosciuti, magari poeti della domenica che poi hanno smesso di scrivere, cercando di tirarli dalla sua parte in cambio di una citazione. C’è poi il suo linguaggio “filosofico”, che incute timore ai lettori più timidi. Ma soprattutto c’è la novità della Rete. Negli ultimi trent’anni nessun editore serio ha mai pubblicato Linguaglossa, che rimane dilettantesco sul piano del pensiero e si conferma un uomo cieco sul piano testuale: l’incredibile proposta di variante sui versi di Milo De Angelis, criticata anche in questo blog il giorno 11 agosto, sta a dimostrarlo. Nessuno l’ha mai pubblicato, certo. Ma adesso è diverso. C’è la Rete, una vera rete di protezione. Nei blog, dove abbondano personaggi del risentimento, sono tutti ben felici di accogliere il giustiziere Linguaglossa, l’uomo nuovo, quello ripara i torti e ristabilisce i diritti, quello che ruba ai ricchi per dare ai poveri.

    Ma la cosa buffa è che i poeti più noti, quelli presi di mira dagli strali polemici, non sanno nulla di tutto questo dibattito. Qualcuno ha mai visto Cucchi, Magrelli, Conte, De Angelis. Insana, Valduga o Anedda nella redazione di un blog? Qualcuno li ha mai sentiti intervenire in un dibattito in rete? Se ne tengono alla larga, visto il livello. E fanno bene.

    Stefania Monti

  • D’accordo sull’ultimo intervento di Linguaglossa, soprattutto con le conclusioni cui si accenna alla gerarchia di valori.
    In tal senso, rispondendo a Robert, è su questo che si dibatte con fazioni pro e contro tipo crociate – una cosa inutile quanto stupida, a mio modo di vedere; ragione per cui ho sempre cercato di riportare il dibattito entro i limiti del detto senza tergiversare.
    Per rispondere invece ad Azzolini, riagganciandomi a quanto afferma Sannelli attraverso Busi, io non parlerei (non lo faccio mai) dei temi: i temi della poesia, della letteratura e dell’arte in generale, sono gli stessi che tediano l’uomo da qualche migliaio di anni, tutti riconducibili ad una sola domanda: cosa diavolo ci facciamo qui?
    Detto questo, se si mettono da parte temi e tematismi, l’altra cosa che resta da affrontare è il linguaggio, declinato nello stile, nella metrica, nella sperimentazione etc.
    Se la poesia la si intende anche come una ulteriore forma di conoscenza, empirica volendo, che non prevede, non pre-sa l’ogetto della conoscenza prima di esser scritta ma vi giunge poi, il linguaggio assume immediatamente una connotazione differente rispetto a quella a cui normalmente viene relegato in altri tipi di dibattiti. Ed è proprio questo il tipo di dibattito che a me interessa.
    Nessun credo sta qui mettendo in dubbio COSA dice De Angelis che, bontà sua, è pur sempre un uomo e i temi che ha da affrontare sono gli stessi dei suoi simili. Non c’è innovazione nei temi affrontabili; c’è innovazione nei modi (nel caso specifico, nei linguaggi). Ed è nei modi che io non vedo grandi innovazioni ma un nostalgico aggrapparsi a sovrastrutture poetico-linguistiche novecentesche o tardo-novecentesche.
    Il problema della irresponsabilità dell’arte esiste; la questione museale esiste. Il postmoderno esiste, con tutte le sue problematicità. La poesia come un uovo o una polpetta è una affermazione postmoderna. Dopo l’affermazione nitzschiana secondo la quale non esistono fatti ma solo interpretazioni la storia dell’uomo ha subito le conseguenze logiche. Ora il problema risiede nella nostra capacità (o incapacità) di venirne fuori da questo circolo vizioso postmoderno che criticando il dire ci zittisce prima ancora di parlare. È molto complicato; siocuramente si stanno facendo prove varie non tutte ugualmente valide. È necessaria una certa predisposizione al costruire ed una certa predisposizione all’apertura, cosa che prevede anche il non prendersi troppo sul serio e permettere che qualcuno paragoni la poesia a delle polpette.
    Al di là di critiche, formalismi o impostazioni concettuali che vanno verso una o un’altra direzione, continuo a comprendere sempre più ogni giorno il silenzio rimbaudiano: una impasse da cui non si può uscire; il vero limite del linguaggio (poetico e non).
    Luigi B.

  • Oggi, nel post-moderno (nella sua fase di stagnazione), la democrazia dell’«esperienza vissuta» ha portato dritto al minimalismo, inteso come campionario denaturato di esperienze significative, al trionfo del «privato», della «cronaca», del «quotidiano» (il pronto-fatto) assunti acriticamente in quanto considerati esperienze non reificate che si possono travasare nella pagina scritta come oggetti del ready made. Il discorso poetico, rimasto privo di un pubblico e di interlocutori accreditati, si è trasformato in un repertorio di chatpoetry e di talqualismo, di buonismi, di crudelismi e di banalismi.
    Nel museo immaginario di una cultura divenuta globale alla «poesia» viene accreditato un immenso simulacro di immagini, uno sterminato album fotografico di figuralità al quale attingere liberamente. È una situazione paradossale: la poesia (leggi l’arte) ha soltanto un campo smisurato di «crediti» cui attingere e nessun «debito» da garantire. La poesia si trova così in mezzo al mare magnum della propria «irresponsabilità»: è irresponsabile in quanto non «deve» niente a nessuno, la poesia è «libera», finalmente, perché è stata liberata dal Moderno, cioè da quel sistema della comunicazione universale (leggi mediatica) che ha prodotto il «museo» del pronto-fatto universale. Infatti, la neoavanguardia, l’ultima post-avanguardia che ha teorizzato e praticato il «museo», è poi caduta ingenuamente nelle sue spire, non potendo prevedere che una pratica luddistica e ludica del linguaggio poetico avrebbe portato acqua al mulino del Moderno.
    La poesia contemporanea si trova così davanti uno sterminato campo di possibilità espressive: una sterminata galleria di figuralità, una infinita serie di simulacri, di fantasmi, di lapidi che attendono una convocazione. Una storia delle immagini priva di genealogia storica, priva di uno storicismo è, di fatto, una preistoria, un qualcosa che sta al di qua della «nostra» storia e che non ci riguarda più. Gran parte della poesia contemporanea parla di qualcosa che non ci riguarda più, che non fa parte della «nostra» storia ma di questioni meramente «private»; di fatto, non si affrontano più «tematiche» ma tematismi; non si ha affatto alcuna cognizione del «discorso poetico»; al suo posto si hanno «discorsivismi» e «poeticismi» (nel migliore dei casi opportunamente desublimati); in luogo della «narratività» si hanno «prosasticismi» e decorativismi; in luogo dei formalisti abbiamo neomanieristi e neometrici: una schiera epigonica noiosa quanto stucchevole.
    Il fatto che critici di peso come Cortellessa, Berardinelli etc. si siano interessati soltanto dei soliti noti non significa nulla, anzi, significa semplicemente che non leggono la poesia contemporanea in tutta la sua estensione. Per inerzia? Per mancanza di idee? Per non rischiare brutte figure? Non lo so (anzi, lo so ma mi tengo per me la spiegazione).
    Personalmente, se Russo ha la pazienza di andare a leggersi una mia opera critica, le 400 pagine di “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana dal 1945 al 2010” uscita nel 2011 per le edizioni EdiLet di Roma, lì ci troverà una ipotesi di spiegazione ragionata ed esauriente. Posso soltanto dirle, sommariamente, che attorno al fortilizio della centralità della poesia di De Angelis è in corso un confronto serrato, con colpi bassi da entrambe le sponde. Se cade quel fortilizio, crolla tutta intera l’impalcatura del Canone costruito a tavolino dalle Istituzioni della poesia. È una questione, direi, strategica, che va ben oltre l’importanza tutto sommato secondaria della poesia di De Angelis.
    Come lei dice «storicamente parlando» la questione si può riassumere così.
    Qui la questione «poesia» passa in secondo piano, a ciascuno dei contendenti interessa soltanto far passare una propria gerarchia dei valori a discapito di un’altra. Ma è una questione che con la «poesia» non c’entra per niente.

  • Sono Luigi Rossi e, lo dico subito, ho molte riserve nei confronti dell’opera di Milo De Angelis, che ho già manifestato nel blog di Absolute Ville. Sono riserve di ordine “politico” nell’accezione più completa della parola. Mi pare che De Angelis sia vittima di una concezione elitaria e aristocratica della poesia e della vita, un po’ come il suo caro Nietsche: è oscuro, incomprensibile, usa il paradosso come arma, è uno di quelli che credono ancora al Sublime e non si accorgono che il mondo si disintegra davanti ai loro occhi. E’ un isolato e si sente in lui tutta il morbo di chi non trova sintonia e simpatia per gli esseri umani.
    Detto questo, che più tardi approfondirò, mi piacerebbe che la “parte critica” rispetto a De Angelis trovasse interpreti di spessore e non la solita Canciani: mi pare una bigotta che non capisce gli interlocutori e interviene in continuazione come un robot, per la dodicesima volta!

  • Salve a tutti, sono Roberto Russo da Roma. Vorrei spostare il discorso sul piano generale. Sfogliando le numerose antologie di questi decenni, dal “Pubblico della poesia” di Berardinelli/Cordelli del 1974 a “Parola plurale” di Cortellessa, l’ ultima uscita, ho notato che Milo De Angelis è presente in quasi tutte. Ma non è l’unico tra i viventi. Lo stesso vale per Maurizio Cucchi e Valerio Magrelli, Patrizia Cavalli, Patrizia Valduga, Antonella Anedda. Sono tutti poeti conosciuti, studiati e presenti nel dibattito contemporaneo. Come mai allora Milo De Angelis suscita, più di ogni altro, contrasti e posizioni radicali, pro e contro? Basti pensare al blog di “Absolute Ville” del 2007 o ai toni accesi di questo in corso su Poesia 2.0. O alla famosa stroncatura di Raboni sull’Europeo, che pure lo aveva pubblicato da giovane. Oppure all’elogio di “Tema dell’addio” fatto da Alfonso Berardinelli, che gli era nemico. Amico, nemico, appunto, termini forti. Perché? Ci sarà pure un motivo, storicamente parlando. Perché ogni volta, con lui, è polemica? C’è qualcuno che può tentare delle ipotesi?

  • «Sottrarre Milo De Angelis a ogni definizione. Questo credo sia il compito più importante di un critico, ma anche di un lettore comune».
    Questa è la conclusione di Marco Azzolini. Questo è il suo credo. La poesia di De Angelis per Azzolini è un DOGMA, come quello della Santissima Trinità.
    A questo punto il dogma va preso alla lettera. Tutti quelli che lo accettano senza fiatare: di qua… tutti quelli che invece vogliono rifletterci sopra: di là…
    Addirittura, Azzolini afferma che la poesia del Nostro «sfugge a ogni definizione»… se ho capito bene è anche al di là del dogma religioso, almeno quello è definito nei minimi particolari dalla Chiesa e dalla sentenza di un Concilio (quello tridentino?). Se ho capito bene (spero però di aver capito male) la poesia del Nostro è dunque al di là della stessa definizione della Deità, anche quella, secondo la Cabbala, che non si può definire e che neanche si può nominare: il nome di Dio.
    Siamo arrivati dunque alla spiaggia dorata del FONDAMENTALISMO.
    Caro Azzolini, si vede che lei è un tifoso acritico… e questo è bello, mi creda, è bello vedere una persona talmente ingenua e sprovvista dei lumi critici che ci provengono dal Rinascimento e dall’Illuminismo e dalla Filosofia classica tedesca.
    A questo punto, un distinguo sento il dovere di farlo: il mio rispetto va alla poesia di Cucchi, di Zeichen e di Magrelli presi a sportellate da Azzolini che li paragona al suo Dio in Terra; rispetto la loro poesia (e, naturalmente la loro persona) anche quando la critico serratamente, anche quando cito tra virgolette le sciocchezze che ogni umano ha la libertà di dire. Anzi, li rispetto tanto di più quanto più esercito il mio pensiero critico.
    Per quanto riguarda l’ATTO DI FEDE di Azzolini che chiama in causa Nietzsche, Dostoevskij, Puskin… suvvia, non cadiamo nel ridicolo…

  • Milo De Angelis è un caso a sé. Non riguarda il minimalismo né romano né milanese. E’ lontanissimo da Zeichen, Cucchi, Magrelli. I suoi pregi e i suoi difetti vanno cercati altrove. De Angelis viene da Nietzsche. Viene dall’emisfero opposto, ossia da una sorta di massimalismo esasperato, con domande che sono sempre puntate al limite. La presenza di Zarathustra – e in generale del titanismo tragico di ascendenza tedesca – attraversa per intero un libro come “Distante un padre”. E’ un libro di svolta, quest’ultimo, dopo un esito a mio parere poco felice come “Terra del viso”. E’ un libro-universo. Un mondo intero in subbuglio che cerca quiete. E non può trovarla. De Angelis mi appare qui un poeta senza pace, un’anima impazzita. Ma non c’è solo Nietzsche in lui, per fortuna. C’è anche l’anima russa. E l’anima russa conosce l’epica. L’anima russa si dilata. Conosce la vastità di Pierre Bezuchov e del dottor Zivago. Conosce l’ampio respiro dell’epica. Tanto Nietzche è verticale, quanto l’anima russa è smisurata. Se “Distante un padre” suona febbrile, “Biografia sommaria” suona russo, con gli andanti di Rachmaninov. Qui la furia si placa e si spiega. Qui entrano in scena i personaggi, la terza persona singolare, il racconto di Donatella De Giovanni, della tenera melò, della saltatrice ferita, di Nadia Campana. Qui si entra nel compatto, nel rallentamento, nel dramma seguito passo dopo passo (“Cartina muta”) e non più gridato nei suoi vertici o nei suoi sotterranei. No, piuttosto accompagnato con il fiato sospeso, pedinato metro per metro (“L’unica data”). “Distante un padre” era un poema della montagna, per citare una poetessa cara a De Angelis. Partiva dalla nota più alta e non scendeva, puntava ancora più in alto, tra picchi e baratri, rupi e capogiri, cadute a precipizio e voli disperati. “Biografia sommaria” riprende invece la tradizione realista di Lermontov, Turgenev, Goncarov, tutti figli di Puskin. “Biografia sommaria” è forse il libro di De Angelis che amo di più. Mi piace anche “Distante un padre”, ma lo temo: è un gorgo, fa paura. Non amo invece il suo antenato “Millimetri”, libro fermo e impenetrabile, che può avere dei bei versi qua e là, ma rimane un masso oscuro. Ed ecco “Tema dell’addio”. Pochi l’ hanno capito. Non è una storia personale, ma è un libro del distacco, di ogni distacco. O meglio: può partire da una vicenda biografica, ma dopo un attimo sentiamo che non è quello l’essenziale ed entriamo nel mondo dei morti e di quelli che hanno perso anche la morte. “Tema dell’addio” è un’elegia che diventa cosmogonia, un compianto che diventa la natura delle cose. Virgilio e Lucrezio insomma. Che poi sono i due classici più letti e tradotti dal poeta milanese. E’ vero però che “Tema dell’addio” ha una nota dominante, una nota che rimane sempre quella per tutto il libro: è monotono, nel senso etimologico del termine. Invece “Quell’andarsene nel buio dei cortili”, lo sappiamo, ha una musica più varia. E’ il libro delle ombre che vanno in tante direzioni e si spargono lungo le tangenziali. Ma questo è già stato detto nei numerosi saggi proposti da Nicola Borletti – con opera meritoria e veramente preziosa – e rimando in particolare a quello eccellente di Sauro Damiani.

    Sottrarre Milo De Angelis a ogni definizione. Questo credo sia il compito più importante di un critico, ma anche di un lettore comune. E d’altronde ogni suo libro si sottrae da solo alle sigle riassuntive. O comunque tenta seriamente di farlo, anche quando non ci riesce per intero (“Millimetri”, “Terra del viso”). La poesia di De Angelis è un mondo e per entrarvi occorre fare un lungo cammino, con l’equipaggiamento giusto e la mente sgombra. Rinchiuderlo in formule come “nostalgia”, “minimalismo” o “sproblematizzazione” (questa poi!) è la strada più facile, certo, ma è anche la via maestra per non comprenderlo.

    Marco Azzolini

  • Mi riaggancio al commento di Linguaglossa di qualche giorno fa. Scrive Linguaglossa: «Caro Luigi, il trionfo del soggetto empirico ha il suo portato e il suo sostrato nel fenomeno della de-fondamentalizzazione del soggetto (e la sua morte trascendentale) e nella disartizzazione dell’arte; cioè, l’esistenza non ha più il suo luogo «trascendentale» ma in compenso ha i suoi soggetti empirici con i loro luoghi empirici e perimetrabili moltiplicabili all’infinito. Di qui una certa patina di esistenzialismo che si avverte nella narrativa e nella poesia contemporanee. E la poesia obbedisce supinamente a tale quadro di sproblematizzazione del «reale». tutto l odierno minimalismo postdeangelisiano e postmagrelliano ha qui la sua origine.
    C’è da chiedersi come la poesia contemporanea possa replicare a tale contesto di sproblematizzazione del «reale»; c’è da chiedersi con che specie di «reale» l’arte moderna pensa di avere a che fare. mettere in campo un «riduttore» del poetico è il riflesso di quelle enormi forze motrici che fanno da moltiplicatore dell’estetico tramite la diffusione dell’estetico dall’architettura e dal design alle pareti dell’anima (se così possiamo dire), nel privato e nella privacy demoltiplicata e manifesta alla piena luce dei neon alogeni».
    Quello che Linguaglossa chiama il «riduttore» io, per la poesia di De Angelis, lo chiamerei l’«acceleratore» di particelle linguistiche. La procedura di De Angelis opta per l’accelerazione centrifuga di tutti i lemmi e i sintagmi del suo linguaggio poetico in un corto circuito ininterrotto di imagerie che si riprendono e si riallacciano e si scavalcano; accelerazione simultanea a progressiva che fa rischiare al poeta milanese continui stati di sovra eccitazione e di bollizione con il risultato di iperboli atratte «avulse» direbbe Roberto Bertoldo che io preferisco chiamare gratuite e arbitrarie. Il rischio di questa procedura, a lungo andare (e sono ormai 40 anni che dura questa pratica) è la ripetitività ossessiva dei luoghi e delle situazioni, nonché di parole e temi che ricorrono a distanza di decenni (come è stato ben individuato anche dalla critica accademica). La qual cosa dovrebbe far riflettere sulla «chisura» entro la quale si batte e si dibatte l’«accelerazione» deangelisiana.
    L’appunto che muovo a questo tipo di approccio alla «poesia» è il suo carattere di «resistenza» al Novecento, «resistenza» al Moderno… di qui lo «spavento» (in una certa misura abilmente sfruttato politicamente dall’autore milanese) per tutto ciò che si manifesta nel Moderno con predilezione per attanti del pre-moderno (citofoni, telefoni, suppellettili di casa, cortili, strade suburbane etc.). Sta di fatto che questa visione nostalgico-resistenziale della poesia deangelisiana fa il paio con la visione aproblematica del minimalismo romano impersonato da Zeichen e Magrelli. Una digressione: ma li avete lette le battute scherzose di questi poeti sul fare poesie riportate anche su questo sito? che il fare poesia è per Zeichen come «fare bene le polpette» e che per Magrelli è come «montare un uovo»? Non intendo commentare le battute in questione (che si commentano da sole) ma quando Linguaglossa parla di un potente «vento di sproblematizzazione» che avviluppa la poesia contemporanea (e non solo), dovremmo rifletterci sopra, credo. Sta di fatto, dicevo, che la visione nostalgico-resistenziale della poesia di De Angelis è il complemento speculare della visione aproblematica e aproteica della poesia dei minimalisti romani. I minimalisti milanesi hanno forse uno spessore morale leggermente diverso per via della inserzione di una moralità tutta meneghina ma egualmente, direi, aproteica e aproblematica. E qui si ripresenta il punto nodale e dolente: può essere utilizzabile la poesia di de Angelis (tutta integralmente novecentesca) per uscire dal Novecento? Può indicare una via di uscita dal Novecento? Quella linea Maginot, quella linea resistenziale al Moderno così fittamente presente nella poesia di De Angelis ci può aiutare ad uscire dal Novecento? La mia risposta è ferma e decisa: NO, la poesia deangelisiana non può essere affatto utile all’obiettivo da conseguire, integralmente tardo novecentesca nella sua impostazione di fondo e nella sua costituzione, non ci può dire nulla di nuovo di ciò che sapevamo già.

  • Ritorno nella discussione dopo qualche giorno. Sono d’accordo con il Redattore Luigi nell’evitare i battibecchi pro o contro, che ormai avevano assunto toni irriverenti. Bisogna evitare le fazioni. Per questo mi piace riprendere le parole di un critico e poeta romano, Roberto Deidier, che sono all’esatto opposto: un esempio di calma e obiettività nel leggere l’ultimo libro di Milo De Angelis. C’è una corrispondenza continua e coerente, di libro in libro, che percorre tutta la poesia di De Angelis, tra lingua e realtà, tra le rovine e le potenzialità dell’una e l’esperienza tragica dell’altra. È un carattere che fa di questo poeta il tenace prosecutore di una modernità inquieta, di un atteggiamento da trincea esistenziale che non può mai ridursi ad alcun compromesso. Fin dal suo precoce esordio a metà degli anni Settanta, De Angelis ha fatto della “somiglianza” (“Somiglianze” era infatti il titolo della sua prima raccolta) un’ipotesi di poetica, piuttosto che una semplice immagine; un autentico nodo tra la percezione del mondo e la sua resa espressiva, giocata sull’antagonismo verso il tempo, vissuto essenzialmente come distanza, ma calibrata anche attraverso l’analogia, che può scatenarsi proprio da ciò che appare unico e irripetibile. Leggendo le varie sezioni di “Quell’andarsene nel buio dei cortili” si ha la precisa sensazione di una estrema conferma, come se il rapporto con il reale si riducesse a un buco nero del linguaggio, come se la materia della vita implodesse concentrandosi in sillabe e coinvolgendo affetti e memoria, grande e piccola storia. Ogni verso di De Angelis sembra scritto sull’orlo di un abisso, su una sospensione, su un’incompiutezza che travasa direttamente dall’esperienza sulla pagina, invadendo il linguaggio e apparentemente dilatandolo in tutte le sue possibilità semantiche, per poi ricondurlo entro il recinto di pochi, essenziali termini, spie per l’appunto di un movimento a stringere, o di alcune frasi che da sole potrebbero reggere l’intero impianto del libro. Ogni istante vissuto si concentra allora non già nell’estensività della lingua, ma nei suoi particolari, nei suoi recessi e frammenti, nelle sue lettere costitutive (“Alfabeto del momento” è la sezione d’apertura); i personaggi della tragedia si affacciano da una regione indistinta, dal limbo dell’oscurità, e il mondo, scrive De Angelis, «sembra un’eco della frase / che non trovano più». Un nominalismo rovesciato di segno, un’impotenza novecentesca del dire che viene trasmessa dal poeta al nuovo millennio e che rispecchia un cosmo ridotto a pochi gesti e ad altrettante macerie; la presenza assidua del buio fa di ogni esperienza un «teatro sgomento», una furia implosiva che viene dall’oscuro e ad esso ritorna, in una terribile e ineludibile circolarità. Anche l’amore, territorio lirico per eccellenza, soggiace a questa temibile norma, sgorga sul baratro, tra ruderi privati e destino; e la stessa poesia, sola certezza, è ridotta a un compito, a un mandato intimamente etico in cui si rispecchia il sostanziale stato di smarrimento del soggetto. Sono certamente amati, questi ruderi, queste sillabe d’inconsistenza che hanno invece un peso tutto materiale, e che nel loro viaggio dal nulla verso il nulla, pur restando frammenti, si caricano a dismisura di ogni lacerto di referenzialità.

    Roberto Deidier, “Silos”, aprile 2011

  • Oh madonnina maremmana, me l’aspettavo! La richiesta era nell’aria. “Hai mai letto, Elena, un rigo della mia poesia?”, chiede stizzita Laura Canciani. La nostra creatura si è svelata! Vuole che si parli dei suoi versi! Basta con questo De Angelis… ora tocca a me!

    La domanda era nell’aura. “E voi, aggiunge, avete mai letto un rigo della mia poesia? Eppure ho avuto la prefazione di Linguaglossa! Leggetemi, vi prego, leggetemi !”

    • Elena, davvero non so più come cercare di far capire che qui non siamo in un asilo del cazzo. Ti prego di non rispondere a questo mio commento giustificando, scusando, tergiversando o altro perché so già che non mi interessa. Se hai voglia di parlare di De Angelis e farti un paio di seghe mentali con noi, in amicizia, benissimo. Tutto il resto è un plus di cui non si sente la necessità.
      Ovviamente la stessa preghiera vale anche per Laura, a cui chiedo di non ribattere o di farlo in privato, perché non ci interessa, e per tutti noi.
      Grazie a tutti per la collaborazione.

      Luigi B.

  • Continuo a pensare che giocare a “chi si’ tu e chi so je” e fare a gara a chi ce l’ha più grosso (il senso poetico) non porti da nessuna parte.
    Ad ogni modo, ringrazio tutti i commentatori, la cui partecipazione non smette di sorprendermi, e mi scuso con la Canciani per aver “storpiato” involontariamente il suo cognome.
    Appena possibile e un po’ alla volta integrerò la monografia di De Angelis con tutti i brani e le recensioni raccolte in questi commenti grazie alla pazienza ed alla collaborazione di molti.

    Luigi B.

    P.S.: condivido al 110% gli ultimi due interventi di Massimo (Sannelli). il problema è che conducono/riducono necessariamente al silenzio (rimbaudiano?), lo so bene.

  • @ Laura Canciani
    Ancora rivedo stralci enucleati dal contesto, in quest’ ultimo caso la riflessione di Alberto Casadei all’ ultimo libro di De Angelis, allo scopo di dimostrare la propria tesi sostenuta con cieco accanimento e senza nessuna apertura al discorso dell’ altro, non bastasse già l’ intollerabile e perniciosa pratica quotidiana della politica corrente. Il prof. Casadei scrive “Si potrebbe FACILMENTE considerare questa poesia l’ espressione della FEROCIA SUPEREGOTICA che non consente alcun compromesso e porta di continuo l’io a un passo dall’ autodistruzione. MA i motivi dell’ importanza della poesia di De Angelis sono altri. Sempre più l’ insieme della sua opera si configura come una “biografia sommaria”, ovvero come la ricostruzione di un’ esistenza vista attraverso i suoi aspetti di brutale lacerazione, di attimi che non danno salvezza ma panico e vuoto, di confronto incessante con una “Hyle” che non è solo in sè ma OVUNQUE.” Casadei mette in guardia con quel FACILMENTE da una prima impressione in cui un lettore, poco attento o poco allenato, potrebbe incorrere. De Angelis non è un poeta civile, non nel senso comune, ma facendoci scendere nella sua selva oscura con quei tagli di luce cruda e ferocissima, lampi accecanti, ci sollecita ad un’ immedesimazione che rivela spietatamente questa nostra realtà di sillabe tronche, di fervore apparente, in verità fatto di ceneri ( cosa c’entra la cremazione a cui lei allude!), ceneri degli ideali, dei grandi temi, di noi stessi ….noi murati vivi da noi stessi, accecati dalla nostra stessa arroganza. Le sembra che la nostra realtà sia un trucco? La morte non la vede in giro? Ogni parola di De Angelis è un’ allerta, un’ istigazione al risveglio etico, attraverso una spietata autoanalisi dell’io. Tutti complici di questa grande morte.

  • Scrive Peter (non so chi sia ma avrei il piacere di conoscere il suo nome e cognome, grazie):
    «Il punto è che dopo “Tema dell’addio”, De Angelis sta riproponendo sempre lo stesso registro e francamente questo inizia a stancare. Su questo si dovrebbe discutere invece che criticare a prescindere in base ad antipatie personali. Potrebbe nascerne anche un discorso interessante. Troppo facile muovere una critica come la sua. Lo stesso discorso potrebbe essere applicato, come detto, a tantissimi altri casi di poesia contemporanea, compresa la sua».
    Certo Sig. Peter, la mia lettura si può (e si deve) applicare a qualsiasi altra poesia contemporanea (compresa la mia naturalmente). E qui sono costretta a ripetermi: non ho nessuna antipatia personale nei confronti del poeta in questione, io mi limito a commentare le poesie da altri proposte nei vari interventi su questo Blog. E poi lo dice Lei, che dopo il «Tema dell’addio» la poesia deangelisiana si è imbucata in un vicolo cieco nel quale è costretta amordersi la coda. Questo possiamo dirlo? O volete censurare la libera e argomentata interpretazione di chi non la pensa come voi? In fin dei conti dicendo senza reticenze a De Angelis che ormai la sua procedura poetica è diventata un meccanismo ben oliato ma anche molto prevedibile, credo che gli facciamo anche un favore, gli indichiamo i punti deboli della sua poesia. Se lui è una persona intelligente saprà fare tesoro di queste indicazioni. Credo più utile usare la critica come strumento di indagine del reale piuttosto che soffiare nel soffietto delle infiorettature, pratica peraltro per la quale non sono molto versata.
    Per quanto riguarda le recensioni di Antonio Porta del 1976 e del 1989, che significa? (oltretutto le trovo abbastanza superficiale e scontate), perché, Antonio Porta è una Autorità dotata di Mana? è intoccabile? Incriticabile? È Gianfranco Contini?
    Per quanto riguarda l’altra conclusione della Signorina Francisci secondo la quale «Laura Canciani (storpiato dalla Redazione in Cianciani) è un tipico personaggio del sottobosco poetico», quand’anche fosse vero (e forse lo è), che cosa significa? Che non ho diritto alla parola? A questo punto mi sorge una curiosità: ma la Signorina Francisci ha mai letto un rigo della mia poesia? O ripete a pappagallo quello che le riferiscono con i sentito dire gli altri? O c’è qualcuno, dietro le quinte, che mette in bocca a persone come Lei (poco prudenti sarebbe dir poco!) le parole che Loro non hanno il coraggio di pronunciare?
    Infine, un’ultima annotazione: è inutile cercare di tirare per la giacca Giorgio Linguaglossa (cercare di irritarlo dicendogli che è «rozzo e arrogante») citando sue frasi colte negli innumerevoli suoi appunti critici sparsi qui e là nelle varie riviste degli ultimi venti anni ed estrapolati da un contesto che conferisce loro un senso ben preciso. A parte il fatto che per capire certi scritti del poeta critico romano bisogna avere alle spalle solidi studi di filosofia e di estetica, vorrei tornare a riproporre il quesito formulato da Linguaglossa: è venuto il tempo di «spostare il centro di gravità del discorso poetico», di voltare pagina dai logori schemi tardo novecenteschi. È questo il punto. La poesia di De Angelis ne è solo un epifenomeno.

  • Post scriptum

    Il gentile Nicola B. mi chiama in causa (sopravvalutandomi) riguardo al possibile legame tra De Angelis e le Avanguardie storiche e recenti. Prometto che gli risponderò. Non subito, poiché l’argomento è serio e richiede riflessione. Ma uno di questi giorni gli risponderò.

    Elena

  • Alcuni hanno scritto che Laura Canciani (storpiato dalla Redazione in Cianciani) è un tipico personaggio del sottobosco poetico. Può essere vero. Ma non è solo questo, a mio modesto parere. Intanto Laura mostra una fedeltà commovente – quasi cinquant’anni! – a Milo De Angelis, che senza dubbio è ormai il “suo” poeta. Inoltre ha rivelato spesso una vena comica. Vi ricordo il suo intervento di venerdì scorso. La Canciani prende il primo verso di una poesia di De Angelis (“di sera ti sanguina la bocca”) e lo commenta con le seguenti parole. “Come non notare che questo incipit è sopra le righe? A nessuno sanguina la bocca se non per una malattia tipo gengivite o una patologia ben più grave, come un cancro”. Proprio così, afferma la Canciani, palesando solide competenze anche in ambito medico. Una gengivite. Oppure, dio non voglia, un cancro.

    Elena F.

  • Mi scusi Laura Canciani, ma di cosa sta parlando? Sta parlando della poesia di De Angelis o sta invece parlando di una questione che riguarda la poesia moderna tutta?! E’ un discorso che si potrebbe fare per tantissimi casi di poesia e mi viene in mente quello più lampante di Celan. E vogliamo parlare, che ne so, di Trakl, Lorca e Char, allora? Si vada a rileggere La struttura della lirica moderna di Friedrich Hugo, testo che sicuramente avrà presente. A me sembra che le sue critiche siano immotivate e arbitrarie quanto gli stilemi deangeliani che lei fa finta di prendere in esame per costruire un discorso astratto e aleatorio, privo di rispondenze con il testo da cui avrebbe dovuto partire. Diamine! Io non credo assolutamente che esista al mondo un poeta intoccabile e sicuramente De Angelis non fa eccezione. Come anche gli stessi poeti citati da Linguaglossa, Se proprio si voleva citare un esempio di arbitrarietà deangeliana perché non si è preso in esame un testo di Millimetri oppure anche di Terra del viso? L’ultima raccolta di De Angelis, così come la precedente, non mi sembra affatto un esempio di arbitrarietà stilistica, se messa a raffronto con altre prove deangeliane. Da Biografia sommaria in poi c’è una tangibile svolta comunicativa e la stessa poesia che lei ha voluto “analizzare” (si fa per dire) fa parte di questa nuova dizione. Il punto è che dopo Tema dell’addio, De Angelis sta riproponendo sempre lo stesso registro e francamente questo inizia a stancare. Su questo si dovrebbe discutere invece che criticare a prescindere in base ad antipatie personali. Potrebbe nascerne anche un discorso interessante. Troppo facile muovere una critica come la sua. Lo stesso discorso potrebbe essere applicato, come detto, a tantissimi altri casi di poesia contemporanea, compresa la sua.

  • Un saluto alla Redazione a tutti i partecipanti. Devo interrompere, purtroppo e mio malgrado, la partecipazione al dibattito su Milo De Angelis, che è stata per me di grande interessa e nutrimento. Domani infatti parto per il Niger e i suoi deserti, dove resterò per un mese. Ma prima di lasciarvi, vorrei fare un piccolo dono, una chicca di cui vado fiero, modestamente. Frugando nelle biblioteche, ho trovato questi due articoli di Antonio Porta. Il primo riguarda “Somiglianze” ed è del 1976, pubblicato sul quotidiano “Il Giorno”. Il secondo, uscito sul “Corriere della Sera”, riguarda “Distante un padre” ed è del 1989, l’anno stesso della morte di Antonio Porta. Il quale dunque ha seguito Milo De Angelis dall’inizio alla fine. E lo ha fatto con un’attenzione e una competenza che si buò ben constatare in queste pagine. Tutto ciò potrebbe riaprire un dibattito sul rapporto tra De Angelis e le Avanguardie del 900. Sembra un accostamento forzato. De Angelis viene considerato, storicamente, un avversario dell’ avanguardia e della neo-avanguardia. Certo, nei suoi fondamenti di poetica, De Angelis appare lontano, lontanissimo dal Gruppo ‘ 63 e da suoi rappresentanti. Li separa da loro, fra le molte cose, la questione del tragico. Però è vero che “Millimetri” può essere anche letto come un testo sperimentale, come un azzardo che forza i limiti del linguaggio, con qualche incursione nel surrealismo. E “La corsa dei mantelli” può richiamare alla mente, con un altro stile e un’altra ossessione, “Nadja” di Bréton Ed è vero poi che il Pagliarani di “Cronache”, “Inventario privato” e persino della “Ragazza Carla” ha una malinconia asciutta e milanese, non lontana da quella di “Somiglianze”. E il Porta di “Passi, passaggi” non è così estraneo a “Distante un padre”. Senza dimenticare la stima che entrambi avevano per De Angelis, il quale giovanissimo pubblica su “Periodo ipotetico”, la rivista romana di Elio Pagliarani e viene recensito da Antonio Porta, che gli darà una posizione di rilievo nella sua famosa antologia. Si potrebbe obiettare che il secondo Porta e il primo Pagliarani risentono a loro volta di un rapporto lacerato con la neo-avanguardia. Non lo so. E lascio aperta la domanda. Studiosi di valore come l’esperto Giorgio Linguaglossa e la giovane Francisci, o altri ancora, potrebbe dire qualcosa in merito, potrebbero dire la loro. Sta di fatto che, a mio parere, il legame di De Angelis con Porta e il suo insegnamento è stato sottovalutato dalla critica. Non voglio dilungarmi. Ora davvero vi saluto tutti e mi congedo con le due recensioni di Antonio Porta.

    TUTTA LA “GIOIA” POSSIBILE

    Milo De Angelis, “Somiglianze”, Guanda, 1976, lire 2.000.
    Scrive in splendida chiarezza Paolo Volponi parlando del recente “Festival della gioventù” di Ravenna: “La felicità è un desiderio profondo e pulito dell’uomo: per raggiungerla le abbreviazioni, oltre che le mediazioni, sono insufficienti. Occorre realizzare che contro la felicità non c’è solo il divieto (poliziesco di fumare lo “spinello” (le droghe leggere), ma che c’è la società capitalistica, la quale poi non è soltanto il prelievo del plusvalore e la difesa di ogni privilegio, ma è anche distorsione e freno dei desideri, occupazione del “personale” con tanti miti e tabù, fino a dividerlo e a sfondarlo…”
    Queste parole, scritte da un “ancora giovane” per i giovani (dunque anche per gli “ancora giovani”), conducono al centro del problema della nuova poesia, appunto quella dei giovani, che stanno emergendo con l’autorità che deriva dall’avere un messaggio preciso da trasmetterci, una serie di emozioni in cui coinvolgerci. Milo De Angelis è certamente tra i più dotati, quello che, insieme a Cucchi, ha rotto gli indugi e ha avuto il coraggio di dirci di fare il gran salto, di servirci del linguaggio della poesia senza remore, per sondare le reali possibilità di “gioia” che ci vengono offerte dalla storia che sembra realizzarsi soltanto per negarla.
    Quando De Angelis, inedito, fu presentato da Bàrberi Squarotti sull’Almanacco dello Specchio del 1974, appariva in “surplace”, per usare il gergo del ciclismo, e la sua posizione ancora “difficile” e contraddittoria, come veramente faceva rilevare il suo prefattore. Da una parte la consapevolezza che la “verità” fosse sempre altrove rispetto al discorso della poesia e dall’altra la convinzione che sussista “un margine” di mistero, cioè di possibilità, di rischio, di hazard per la parola, bene al di là delle dichiarazioni d’impotenza e di illusorietà di essa…”. (cito sempre Bàrberi Squarotti). L’indugio di De Angelis dipendeva, a mio avviso, dal fascino e dall’orrore che esercitava in lui la constatazione della morte; l’ovvia conclusione del ciclo biologico e vitale non riusciva ad accettarla pacificamente come un dato naturale, piuttosto la respingeva come fosse un “insulto” alla vita privilegiata dell’uomo occidentale.
    Ecco, l’abbandono di questa tanto pervicace idea di “privilegio” nei confronti della morte, ha segnato il passaggio di De Angelis da quella sorta di paralisi orrifica in cui si trovava al nuovo movimento della sua poesia (che nell’attuale raccolta si concentra sopratutto nella sezione intitolata: “L’ascolto”). Sono questi due versi a rivelare il momento dello scarto dalla precedente posizione: “Ma già l’accadere è accettato: / non si potrà rispettarla, la morte”.
    Come accade spesso nella storia della poesia, nel corso del suo contraddittorio divenire, tipico di una logica che è sempre “scarto” dalla normalità,dal senso comune, l’abbandono di una ideologia di morte coincide con il riconoscimento della vitalità del linguaggio, coincide cioè con la sensazione che il linguaggio diventi “corpo”, che il reale e il simbolico diventino la medesima realtà, come nelle culture cosiddette “primitive” (come ha fatto rilevare di recente Nadia Fusini, in “Il piccolo Hans”, n. 9, 1976) E’ con questo linguaggio poetico animato e vitalizzante che De Angelis ha cominciato a fare le sue richieste di “gioia”, a interrogare gli eventi cercando di spremerne fuori, per così dire, ogni luminoso residuo. Ha scoperto, ancora, che la perdita e l’impotenza sono “fatati”, cioè storicamente inevitabili, e che occorre mettersi in caccia di quello che ci rimane: o la ragione selezionante o la registrazione e la trasmissione delle emozioni. De Angelis procede con mezzi apparentemente paradossali: cerca cioè di sfruttare la non durata del fenomeno chiamato realtà, e al vuoto sostituisce l’effimero, consapevole che quella “gioia” di cui si diceva all’inizio, si manifesta in tempi infinitesimali, proprio ai confini di quell’altro fenomeno che chiamiamo “tempo”. Dice: “Anche questo polso / batte, vuole qualcosa, / una grande risata, vicinissima. / Ma è tempo ormai di non far durare le cose”.
    E’ questa la strada giusta per ridare peso e valore al “privato” rispetto al “pubblico”, al “personale” rispetto al “collettivo”, per fare interagire queste entità in apparenza opposte, per coglierne fino in fondo anche il significato politico, se vogliamo infine convincerci che i problemi hanno le stesse, storiche, radici. A cercare di sciogliere nodi tanto delicati il linguaggio della poesia viene a soccorrerci, quando si fa flessibile, antidogmatico, disponibile e insieme disposto ad accogliere la molteplicità dei fenomeni, per restituirci la vita che ci è tolta. Certo non solo dal tempo e dalla società, ma questo è ancora un altro discorso e aspettiamo che sia un altro libro di poesia a farlo.

    Antonio Porta, “Il Giorno”, 25 agosto 1976
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    VERSI TRA BIG BANG E BUCHI NERI

    Milo De Angelis, “Distante un padre”, Editore Mondadori , pagine 128, lire 25.000

    Immaginiamo che in qualche luogo della psiche sia avvenuta un’implosione linguistica e che il poeta Milo De Angelis ne abbia subìto un effetto di totale concentrazione di energia, analoga a quella di cui sono fatti i ”buchi neri”, stelle ipercondensate. Le poesie nate da quell’implosione immaginaria diventano portatrici di una luce in negativo, dove tutto può essere messo in relazione con tutto, quale effetto inevitabile della compressione di ogni possibile senso o significato.
    Cerco così di descrivere la prima parte del nuovo libro di De Angelis, Distante un padre, che si riallaccia, come sottolinea Maurizio Cucchi nel risvolto di copertina, a una raccolta precedente, “Millimetri”. Se tutto il libro procedesse per questa via, quella di una pura e semplice descrizione del “buco nero”, si potrebbe tranquillamente concludere che la scrittura di De Angelis si è fermata nel tempo, un tempo perfino più arretrato, nell’analisi linguistica della nostra esistenza, rispetto al bellissimo esordio di “Somiglianze”; ma così non è. Fin dalla seconda parte del libro nuovo (“Videro tutti”) si avverte che il poeta ha cominciato a divincolarsi, a strisciare, a spingersi fuori dal magma congelato che lo imprigionava per tentare di esprimersi, sia pure” con l’angoscia che si ha dei sacrilegi”.
    Viene meno poco a poco la fissità sacrale del linguaggio percepito come eterna e immutabile concrezione, e si mette in evidenza il bandolo della fittissima matassa, nient’altro che l’antica funzione del raccontare. Non a caso dunque la terza parte s’intitola “Racconto alle sedie”, pur conservando nel surreale destinatario (le sedie, per l’appunto), una punta di attrazione per il concreto nulla cui il discorso della poesia cerca di sottrarsi. Straordinario, commovente racconto di un percorso mentale è il poemetto “Linn, l’avvicinamento”; De Angelis si è reso finalmente conto che la poesia non può fare a meno di immagini forti e insieme riconoscibili se vuole uscire dall’arbitrio dell’incomprensibilità e che lo strumento dell’analogia tanto più diventa comunicazione quanto più mette in primo piano l’esperienza quotidiana, il linguaggio comune.
    Il miracolo del libro è la quarta e ultima parte, dove si fronteggiano dialetto e lingua (è dedicata “alla madre monferrina” e il dialetto è quello). Il dialetto è strumento maieutico determinante per la riuscita della più autentica e pura poesia di Milo De Angelis , che scaglia lontano da sé il vecchio mantello nichilista. “A senti che la poesia / l’è tuta lì: fà l’univers con gnente”, che è il “niente” della favole, dei racconti infantili, del paradiso perduto della prima adolescenza, e anche ”memoria della nascita”. E’ la madre la protagonista assoluta della poesia, la madre come sorgente della lingua e nume tutelare di una felicità che ci può nutrire per sempre. E’ la madre che la poesia può raggiungere, superando la “distanza di un padre”: è proprio questo il senso che si può dare al titolo dell’intera raccolta.

    Antonio Porta, “Corriere della Sera”, 19 marzo 1989

  • appunto: “enunciati imperativi iperbolici gratuiti e arbitrari”. e anche per questo lo Scrittore [il Nudo di Madre, quello degli *altri abusi*] ride della poesia, di molta poesia, di quasi tutta la poesia (e ha ragione; e ora rido anch’io di molta della *mia*, e l’ho rifatta, l’ho trovata non amara… quello è Rimbaud… anche amara, sì, ma davvero *senza soluzione*, in exitu ma senza uscita, intraducibile mentre io *sapevo*; e retorica nella sua intraducibilità; e quando finii nei lavori *umili* – umidi come la cucina e freddi come la portineria – pensai: ho praticato un’oscurità tenue, accademica; e retorica).

    benedette le risate rabbiose di AB.
    e io tengo presenti le risate di AB.

  • Scrive Linguaglossa: «il genere oggi prevalente nella narrativa e nella poesia, dove l’io si autocelebra sull’altare del «privato» opportunamente scisso e deturpato negli esiti più intelligenti in una galleria di situazioni e di maschere, in una liturgia con un linguaggio liturgico».
    Scrive Casadei: «Si potrebbe facilmente considerare questa poesia l’espressione della ferocia superegotica» ma poi, nello sviluppo del saggio il critico devia l’attenzione da quell’enunciato (che ha implicazioni negative) per concentrarsi sugli aspetti positivi della poesia deangelisiana. E qui si può notare un tratto di distinta signorilità dell’interprete (o di opportunità letteraria, fate voi); Casadei nel prosieguo dello scritto cita alcuni versi di una poesia di De Angelis da lui considerata «uno dei componimenti più notevoli dell’intera raccolta». La riporto come l’ha citata Casadei e la commenterò:
    «Abbiamo scritto per un mandato / certo come il nostro smarrimento, / eravamo lì, in un fervore di ceneri, / murati vivi, mentre una foiba scendeva / nella bocca, sigillava tutte le parole date, / la corsa dei momenti, la morte vista in giro… / … così giunse la notte umana, nel tempo / delle sillabe tronche, così il vero / inizio di ogni cosa» (p. 45).
    Partiamo dall’incipit: «Abbiamo scritto per un mandato». E va bene, sappiamo che c’è un «mandato», un ordine perentorio, un enunciato imperativo, e tutta la composizione (come tutta la poesia di De Angelis) è costruita attorno a quell’enunciato imperativo mediante una sorta di additivi chimici, timbrici, semantici di dubbia provenienza, cioè di provenienza etero, scelti dalla matrice sulfurea del terribile e dell orribile, selezionati da quel filtro che trasceglie tra ciò che può più facilmente colpire la fantasia del lettore. Ed ecco lì il primo trucco: «eravamo lì, in un fervore di ceneri, / murati vivi», con quella allusione alla cremazione di corpi vivi, con quella sottile allusione alla cenere dei corpi dei protagonisti della composizione… e poi l’altra notazione «murati vivi», che ha un sentore di accelerazione tutta di testa, di eccitazione sovrabbondante, di super modellizzazione secondaria del sintagma con accentuazione iperbolica e allusione a un presunto destino in una prigione dei protagonisti. Tutta questa sovra eccitazione ed esagerazione semantica è normale nella procedura deangelisiana che si muove per slittamenti successivi di digressioni sempre più emblematiche, dilemmatiche e rafforzative di un dramma che, semplicemente non c’è… è tutta una costruzione di testa di lemmi lessicali sapientemente selezionati per stordire il lettore con chissà quali presunte sottilissime profondità. La poesia non solo non ha sviluppo ma non ha neanche un centro di gravità del presunto dramma; non si capisce neanche di che tipo di «dramma» si stia parlando, ci sono solo allusioni a emblemi con rafforzativi sgradevoli per le ricercate soluzioni ad effetto come la dizione «mentre una foiba scendeva / nella bocca», che è tutta un programma di enunciato iperbolico, esagerato e, sopratutto, immotivato, arbitrario. Un trucco da prestidigitatore al quale De Angelis ricorre di continuo. Poi ci sono tutta una serie di slittamenti semantici del discorso che, purtroppo, sono arbitrari, mi dispiace dirlo e rimarcarlo, ma questa è una procedura facilmente falsificabile ad un esame analitico del succedersi degli enunciati «performativi» di De Angelis, il quale parla come un guitto che davanti avesse un pubblico che deve essere stordito e sorpreso, meravigliato e annichilito dalla bravura degli enunciati. Come non rilevare (mi dispiace dirlo) quella arbitraria inserzione della parola «foibe» (che designa uno spaventoso e orribile eccidio di innocenti) all’interno di un «dramma» (scusatemi ancora una volta) direi da operetta buffa più che di evento serioso, con tutta una sequenza di iperbolici enunciati che sanno di abile e sapiente regia di pezzi di montaggio come: «la corsa dei momenti, la morte vista in giro», con abduzione di referti inesistenti; ditemni voi che cosa significa «la corsa dei momenti»; ma di quali momenti parla De Angelis? «la morte vista in giro», ma di quale «morte» parla il De Angelis? È ovvio che qui siamo davanti a una procedura di sovraeccitazione, di enunciati imperativi iperbolici gratuiti e arbitrari. Si tratta di una procedura di montaggio. Montaggio per montaggio dà sempre un montaggio al quadrato, e poi al cubo… fino alla ennesima potenza. Ma non v’è chi non veda (mi richiamo ai lettori di buon senno) come tutta questa impalcatura del discorso sia inficiata palesemente da inserzioni febbrili, febbricitanti, esagitate, urgenti, arbitrarie…
    Di questo passo il discorso poetico muore, anzi, è già morto. Dopo De Angelis di questo passo ci saranno soltanto secche e storte sillabe di un linguaggio poetico ormai morto e sepolto. Ecco, credo, la ragione fondante richiamata da Linguaglossa, l’invito a «spostare il centro di gravità del discorso poetico».

  • Devo comunicare alla Redazione che l’intervento di Gilberto Isella, da me riportato qualche giorno fa, è uscito il 3.5.2011 sul blog “Trasversale”. Visto poi che il signor Franco Loriga (di cui nessuno si è accorto e di cui invece è apprezzabile la richiesta di una lettura più innocente) ha citato il Prof. Alberto Casadei dell’università di Pisa, propongo una riflessione di quest’ultimo sull’ultimo libro di Milo De Angelis.

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    Milo De Angelis, “Quell’andarsene nel buio dei cortili”, Milano, Mondadori, 2010

    La nuova raccolta di Milo De Angelis ribadisce e in alcuni casi estremizza alcuni suoi temi fondamentali. Superando le tonalità più distese, però solo apparentemente elegiache, di “Tema dell’addio”(2005), “Quell’andarsene…” si ricongiunge soprattutto con “Biografia sommaria”(1999) e per alcuni aspetti addirittura con “Millimetri” (1983), che tuttora rappresenta la punta estrema di frantumazione addirittura parasurrealista dell’autore. Elementi di questo tipo emergono anche qui, per esempio nella sezione “Sei perduto”, incentrata sul ritorno ossessivo di un tentativo di dialogo impossibile: l’oggetto-simbolo del citofono, presente in quasi tutti i testi, assume valenze sempre più straniate, “brilla / come una stella fissa”, è esso stesso che “chiede ancora la tua voce”. Il processo di transfert porta a animare l’inanimato, come da retorica antica e, appunto, surrealista. Ma lo scopo non è quello di creare mondi alternativi al reale, bensì quello di assolutizzare le condizioni inevitabili dell’esistenza, qui in particolare la presenza o l’assenza dell’altro rispetto all’io: “Dov’eri? Io ero lì, ero / nel cortile che fu tutto”.

    Si potrebbe facilmente considerare questa poesia l’espressione della ferocia superegotica, che non consente alcun compromesso e porta di continuo l’io a un passo dall’autodistruzione. Ma i motivi dell’importanza della poesia di De Angelis sono altri. Sempre più l’insieme della sua opera si configura come una ‘biografia sommaria’, ovvero come la ricostruzione di un’esistenza vista attraverso i suoi aspetti di brutale lacerazione, di attimi che non danno salvezza ma panico e vuoto, di confronto incessante con una “Hyle” che non è solo in sé ma ovunque. L’antecedente ideale, e in alcuni casi anche effettivo, è ovviamente Celan, del quale viene soprattutto ripresa la propensione a trasferire frammenti di ossessioni in immagini non riducibili, prive di ornamenti, perentorie e perenni: “Il buio / era lì. Era lì, nel vertice / della prima caduta, era me stesso, / questo freddo che, oltre i secoli, mi parla”.
    Come accade a molti poeti di lago, per usare un’immagine della Cvetaeva cara a De Angelis, “Quell’andarsene” non sembra quindi manifestare variazioni significative.

    Tuttavia, la scarnificazione dei temi propri dell’io conduce a rivelazioni cognitive importanti, allo stesso modo in cui uno scarto anche minimo produce effetti dirompenti in un sistema ripetitivo. In questa raccolta, la prima sezione è quella dell’enunciazione dei moments of being, con coordinate ultimative (sancite da sostantivi e aggettivi drastici, nati dal “grande / alfabeto del momento”), mentre l’ultima, “Canzoncine”, è quella della momentanea affabilità del mondo, che può manifestare la bellezza in un gesto puramente fisico, come in “19 marzo”: “Tra oscure severità / è apparsa lei, la giocatrice / dalla due finte, e ogni vita / fu illuminata”. In mezzo stanno altre tre parti-manifestazioni della lunga lotta, che progressivamente assume una valenza che va oltre gli spazi dell’io.

    A questo proposito vale la pena di citare ed esaminare uno dei componimenti più notevoli dell’intera raccolta: “Abbiamo scritto per un mandato / certo come il nostro smarrimento, / eravamo lì, in un fervore di ceneri, / murati vivi, mentre una foiba scendeva / nella bocca, sigillava tutte le parole date, / la corsa dei momenti, la morte vista in giro… / … così giunse la notte umana, nel tempo / delle sillabe tronche, così il vero / inizio di ogni cosa” (p. 45). Al di là della presenza esplicita di quasi tutte le costanti della poesia di De Angelis – dalle condizioni di ‘smarrimento’ totale e di altrettanto totale ‘mandato-dovere’, alla visione quotidiana della morte, alla domanda sull’origine, colpisce fortemente l’inversione spaziale implicita nell’immagine della foiba che, anziché inghiottire, viene inghiottita dal corpo.

    È questa presenza nella carne di un vuoto nello stesso tempo inconoscibile e sicuramente pericoloso (quasi la minaccia di morire dentro il sé) a determinare l’incessante ricerca di saldezza, di condizioni certe e assolute, ancorché non meno inquietanti. È questa discesa del vuoto dentro la bocca dell’io a ‘sigillare tutte le parole’: dove il verbo si presenta forse inestricabilmente ambiguo, dato che il sigillo può costituire un avallo al dire poetico (e allora l’io riceverebbe quasi un’investitura, come un tempo il profeta); oppure puòchiudere ermeticamente, e allora le parole, i momenti la morte stessa non sarebbero che frammenti fuoriusciti da un intero ben più terribile e inconoscibile.

    La poiesis di De Angelis continua quindi a manifestare schegge di un discorso più grande. La conoscenza che continuiamo a ricavarne è quella della inquietudine di ogni sentimento del sé, della precarietà delle convenzioni linguistiche, della necessità di uno sguardo fisso per cogliere i limiti di ogni fenomeno: come nella semiretta, dal punto di partenza dell’io sino all’infinito.

    Alberto Casadei “L’IMMAGINAZIONE” (ed. Manni, Lecce, ottobre 2011)

  • ripropongo qui quanto già scritto in un commento alla rubrica “Come si riconosce una buona poesia” perché ritengo che lì vi sia tracciata, come in diagramma, la linea di pensiero dalla quale guardo la poesia contemporanea.

    Pessoa all inizio del Novecento scriveva che la sua opera era un insieme di frammenti e che la tradizione ” e una nota a margine di un testo completamente cancellato”. Passato un secolo quasi da quelle parole noi oggi sappiamo di poter scrivere soltanto frammenti. Noi sappiamo che nell’epoca del declino delle «Grandi narrazioni» è avvenuta la moltiplicazione delle piccole narrazioni in una miriade di racconti miniaturizzati. La «Grande narrazione» si è risolta in una «Piccola narrazione», nella narrazione di piccoli mondi: il mondo dell’affettività privata, la rammemorazione del vissuto e la rivivibilità del «privato» nel presente «attualizzato». La modalità, il modus che nella poesia del pre-moderno aveva a che fare con il «soggetto trascendentale» è stata sostituita dalla pluralità dei soggetti empirici e dall’egoità dell’attualità. Se ancora in Hölderlin e in Leopardi soggetto trascendentale e soggetto empirico coincidevano, noi oggi possiamo prendere atto che abbiamo accertato con evidenza assoluta che il «soggetto puro», in altri termini, il «soggetto trascendentale» che aveva ancora «coscienza di sé», ha compiuto oggimai la sua traiettoria concettuale ed ha esaurito le sue potenzialità «narrative», lasciando il pensiero estetico alle prese con i problemi derivanti dall’eclisse del «soggetto».
    Ormai non vi sono più che soggetti empirici: sul piano dell’etica questo significa il conflitto delle volontà (Nietzsche) e l’ideologizzazione della morale; sul piano dell’estetico ciò comporta che non vi è nient’altro che uomini empirici, l’uomo come soggetto scompare per diventare soggetto di scienza, soggetto del politico, soggetto della sfera artistica, soggetto del religioso, soggetto della divisione dei poteri e del lavoro all’interno dello Stato democratico. In una parola: soggetto della democrazia. Presto però si è scoperto che il soggetto democratico che scriveva poesie o che colorava le tele o che scriveva i romanzi del nostro tempo altri non era che un complemento ideologizzato del «globale», insomma, che il «locale» altri non era che il riflesso (feticizzato) del «globale» Così, nell’agone democratico, al conflitto degli impulsi mimetici della sfera artistica corrisponderebbe l’ideologizzazione inconsapevole dell’estetico.

    Redazione

    August 15, 2012

    Grazie, Giorgio, per questo tuo ulteriore chiarimento. Di nuovo mi trovi d’accordo, ma credo di essermi perso qualcosa perché penso che anche questo tuo chiarimento faccia parte sempre delle premesse che, come ti dicevo, condivido. La questione, però, di pone proprio a partire da qui: date le tue premesse, che sono anche le mie, che si fa? e in che relazione poni le tue premesse che condivido rispetto alla tradizione (ed al suo rifiuto)? Non è pure la evoluzione che tu descrivi nulla di diverso rispetto ad una tradizione letta in chiave “evolutiviva”?
    In altre parole, da che parte cominciare per ricominciare a costruire interrompendo il vizio postmoderno di distruggere?
    Forse ora sono stato più chiaro nell’esposizione dei miei dubbi.
    Luigi B.

    giorgio linguaglossa

    August 16, 2012

    Caro Luigi, il trionfo del soggetto empirico ha il suo portato e il suo sostrato nel fenomeno della de-fondamentalizzazione del soggetto (e la sua morte trascendentale) e nella disartizzazione dell’arte; cioè, l’esistenza non ha più il suo luogo «trascendentale» ma in compenso ha i suoi soggetti empirici con i loro luoghi empirici e perimetrabili moltiplicabili all’infinito. Di qui una certa patina di esistenzialismo che si avverte nella narrativa e nella poesia contemporanee. E la poesia obbedisce supinamente a tale quadro di sproblematizzazione del «reale». tutto l odierno minimalismo postdeangelisiano e postmagrelliano ha qui la sua origine.
    C’è da chiedersi come la poesia contemporanea possa replicare a tale contesto di sproblematizzazione del «reale»; c’è da chiedersi con che specie di «reale» l’arte moderna pensa di avere a che fare. mettere in campo un «riduttore» del poetico è il riflesso di quelle enormi forze motrici che fanno da moltiplicatore dell’estetico tramite la diffusione dell’estetico dall’architettura e dal design alle pareti dell’anima (se così possiamo dire), nel privato e nella privacy demoltiplicata e manifesta alla piena luce dei neon alogeni.
    Direi che con la demoltiplicazione del «soggetto» siamo giunti a ridosso del «nuovo» soggetto empirico, della ottimizzazione delle risorse umane nelle moderne economie a capitalizzazione del lavoro salariato.
    Nella stragrande maggioranza dei romanzi e delle poesie contemporanee (anche di autori ritenuti del massimo rilievo!) appare evidente che i risultati di una tale demoltiplicazione non potevano essere diversi: il trionfo del minimalismo e della micrologia. Ma se il minimalismo (venato di un candido aproblematico e aproteico autologismo) è il portato di una potente vento di sproblematizzazione, ciò non toglie che vi sia anche chi opera, all’incontrario, per la via di una problematizzazione di ciò che la cultura della giustificazione aveva derubricato come irrilevante e minoritaria.
    Nel mondo della democrazia del globale mediatizzato corrisponderebbe così la democrazia del minimalismo e dei soggetti empirici. L’autologia è dunque l’involucro del soggetto empirico, il genere oggi prevalente nella narrativa e nella poesia, dove l’io si autocelebra sull’altare del «privato» opportunamente scisso e deturpato negli esiti più intelligenti in una galleria di situazioni e di maschere, in una liturgia con un linguaggio liturgico.

  • Scusate se riporto un mio articolo, riguardante De Angelis, uscito nel 2003 sulla rivista “Hebenon” (è importante considerare la data, poiché precede gli ultimi libri dell’autore), ma lo faccio sia per sostenere quanto ho precedentemente accennato sia perché contemplava una querelle simile a questa tra autenticità e artificiosità. Prendendo anche in considerazione il punto di vista di Marco Merlin e Giorgio Linguaglossa che, con analisi differenti, giungevano all’incirca alla stessa conclusione non del tutto positiva sull’autore, cercavo già allora di evidenziare le difficoltà di valutazione, soprattutto per via della profondità che spesso De Angelis dimostrava sia nella sua espressione poetica che in quella teorica.

    «Avulsione ed eticità in Milo De Angelis

    Noi lettori di professione siamo diffidenti con gli scrittori quanto gli uomini lo sono con le loro amanti, e la diffidenza cresce nei confronti dei poeti, perché l’inganno in poesia è più facile che nelle altre forme di espressione letteraria. In letteratura l’inganno richiede competenze tecniche, con le quali la poesia, a differenza per esempio della narrativa, è addirittura in grado di rivestire il nulla di presunta profondità. I narratori, per quanto bravi (la bravura non ha comunque a che fare con la vera letteratura), se non hanno niente di profondo da dire lo si nota subito, da un onirismo acceso per esempio, senza bisogno di smascherarli tanto è insipido il loro testo, ma un poeta che sappia poetare può appoggiarsi più facilmente sul fraintendimento. Mi è capitato più volte, ad esempio, di interpretare simbolicamente dei testi poetici dando loro una profondità (mi illudo sempre che si scriva in poesia per comunicare ciò che non è comunicabile in altra forma) che poi, confrontandomi con l’autore, ho scoperto avere un significato solo letterale e per di più banale. Purtroppo gli autori muoiono e i critici, soprattutto dopo, incorrono spesso in sopravvalutazioni dettate dalla loro intelligenza.
    Uno dei poeti sui quali si è espressa la diffidenza dei lettori di professione, di quelli seri intendo, è Milo De Angelis. Il dubbio sull’autenticità della sua poesia non è negativo, è anzi il segno che la critica più intelligente (e non quella dei galoppini che amano tessere elogi su quei poeti che a furia di salire le scale del potere sono divenuti asfittici) ha investito su di lui.
    Parliamo di De Angelis prendendo spunto da una sua raccolta antologica uscita negli Stati Uniti con versione a fronte del traduttore Emanuel Di Pasquale e per volontà del poeta Alfredo de Palchi , che vara con questo libro una collana di poeti italiani che prevede per ora Dante, Rosselli, Caproni, Sbarbaro, Spaziani, Raboni.
    Un’antologia di Milo De Angelis negli Stati Uniti deve avere sicuramente il suo fascino (questa è la seconda e fa seguito a quella uscita nel 1995 a Los Angeles ), in quanto la poesia di Milo De Angelis non ha in Italia molti seguaci. Sarà per questa sua ascendenza che sa di Fortini e Bigongiari, due nomi ostici per ragioni diverse, una politica e una poetica – ma, alla fine, quanto diverse? –, sarà per il suo graduale svolgersi, da Somiglianze, raccolta del 1976, a Millimetri, del 1983, a Terra del viso, 1985, a Distante un padre, 1989, sino a Biografia sommaria, 1999, in una dizione sfuggente ma allo stesso tempo precisa, e più precisa di tante esattezze descrittive, questa poesia, per la sua corposità ritengo, non ha avuto molti imitatori, i quali avrebbero rischiato una ben magra figura. Molto più facile fare il verso a Zanzotto o a Sanguinetti, a Giudici o a Damiani, insomma. Per di più, però, Milo De Angelis è ancora giovane, classe 1951, due anni in meno di Umberto Fiori, che appartiene a quel suo filone di poeti disincantati e discorsivi.
    Questa è la prima volta che leggo nel suo insieme, seppure un insieme ridotto e quindi a mio modo di vedere ancora più rappresentativo, se la scelta, come credo, è fatta dall’autore, la poesia di De Angelis, circa la quale comunque la mia conoscenza è molto recente, e devo dire che ad avermi principalmente colpito sono due cose: la persistenza dell’avulsione, per la quale un concetto si stacca sintatticamente e/o semanticamente dal suo referente per aggregarsi ad un altro spesso solo supposto, e la forte moralità.
    Nella poesia di De Angelis si incontrano sovente versi che mettono in gioco l’intera persona del poeta: «A te impedirò / sia di morire sia di raccontare. / Potrai, soltanto, nel letto, / vedere la palla di ferro minacciosa / che ruota. E vuoi dirla / e nessuno vicino. / Il dramma sia puro, nascondendolo. / Nemmeno / sarai queste immagini, ma la sofferenza / non spiata. / Pagherai la mia maledizione». (Parole per il figlio, III; con l’epigrafe esaustiva «sentirai ogni battito del tuo cuore / come un piccolo dovere»). E ancora: «Qualche decisione … bisogna prenderla» (La parte), «un millennio oggi ha esitato / tra cedere e non cedere / perdendosi sempre tardi, e con intelligenza» (Ogni metafora). E poi la timidezza, il timore, sempre presente, di sbagliare, si veda Esterno, con quella bella conclusione che sa di responsabilizzazione: «sembra di tutti questa piazza / ma è terribile, è mia». E mi fermo a conclusione della parte antologica relativa al primo libro, che mi pare mantenga inalterata la sua attualità, anche stilistica.
    Avulsione ed eticità rischiano di fare a pugni, perché l’allusività connaturata alla prima può sicuramente divenire un’astuzia espressiva che menzogna la seconda. L’avulsione, insomma, può cooperare a vantaggio di una dizione ermetica non filosofica. Marco Merlin, in un denso saggio apparso nel 2000 , nel quale tra l’altro a proposito della poesia di De Angelis parla di “impulso che nulla concede ai ricami filosofici”, dimostra, attraverso un’attenta analisi anche di alcune varianti, il metodo compositivo di De Angelis che fa uso tanto della reticenza quanto della ridondanza semantica ma soprattutto tonale mediante autocitazioni intervallate anche dall’altro procedimento enigmatizzante delle citazioni. Il giudizio sfavorevole che si respira nel saggio davvero illuminante di Merlin non so ancora se condividerlo, di certo la poesia di De Angelis ha spesso un fascino che non trovo in tanta poesia contemporanea.
    Ma il punto è essenziale. Il non detto, che ha comunque lo stesso potere del detto di matrice non universale che sprona alla metaforizzazione (i poeti mentono anche quando celano la chiave di lettura – lo faceva pure Pascoli, e con una certa perseveranza –), in altre parole la profondità suggerita mediante tecniche riduttive richiede un’eticità che non sia essa stessa un pretesto.
    La presenza dell’eticità non è dunque prova sufficiente di profondità, che è a mio avviso il solo possibile giudizio di valore. Ma Giorgio Linguaglossa , parlando, nei riguardi di questa poesia, di “disperazione esistenziale” e “simbolismo”, la sottrae al percorso di un ipotizzabile ermetismo di maniera. Insomma, la svolta di Biografia sommaria rispetto al primo De Angelis più portato alle “spezzature” e alle “perpendicolari fenditure” – anche Linguaglossa, vedendo nel poeta milanese l’uso di “formidabili accelerazioni (iperboli ed ellissi sono frequentissime nel suo dettato poetico, ma ancor più frequenti sono gli anacoluti…) seguite da brusche frenate di senso, da autentici stop and go, costruzioni di antitesi, parallelismi sghembi”, potrebbe riconoscere la presenza dell’avulsione – accresce il distacco di questo poeta non solo dalla sterilità di un postermetismo epigonico ma anche dalla povertà “parassitaria” – sono ancora parole di Linguaglossa – dei minimalisti.
    Così due poeti, lontani per età e intenti – Merlin è del 1973 e attua con finezza un metodo critico che direi tanto strutturalista nell’approccio al testo quanto di natura stilistica a conclusione dell’indagine, mentre Linguaglossa è del 1950 e predilige una critica più ideologizzata e intuitiva – ma vicini per onestà intellettuale, reagiscono in maniera opposta al fascino che indubbiamente emana anche per loro la poesia di De Angelis.
    L’intervista di Gabriela Fantato e Annalisa Manstretta a Milo de Angelis può gettare nuova luce su questa problematica dell’autenticità che dovrebbe riguardare ogni poeta. Ricordo il caso del Petrarca lirico, riscattato dalla propria incertezza storico-esistenziale, o di D’Annunzio, più giustificato psicologicamente di Marino nella sua adesione a volte grottesca al sublime. Ebbene, De Angelis, in questa intervista, prende le distanze dal minimalismo abbracciando una visione schlegeliana della poesia: «L’opera deve servirsi della cronaca, anche della più banale, più minuziosa e infame, ma deve andare oltre, superandola, aspirando a qualcosa di assoluto, di alto, altrimenti si diventa un poeta neoclassico, oppure un realista». E anche giustifica gnoseologicamente il proprio stile: «C’entra eccome la razionalità, deve esserci stata e potente. Tanto più c’è stata, tanto più deve comparire nel momento della scrittura dentro una parola arcaica, arcana: radicale. La razionalità è come una “pressione verso”, come una spinta d’avvicinamento. In tal senso non condivido l’idea di una poesia per libere associazioni, senza regola. La libertà dal conosciuto implica comunque che il conosciuto ci sia stato. È proprio nella frattura, nello spaccare il conosciuto che sta il “fare” poetico». E la propria eticità: «c’è un’etica socratica di coincidenza tra Giusto e Bello».
    Ovviamente le professioni teoriche non sono sufficienti a determinare l’autenticità di una scrittura poetica, ma almeno evidenziano la coscienza e lo spessore di uno scrittore. Le sottrazioni a cui ci ha abituati la poesia di Milo De Angelis, anche se spesso sono avulsioni solo apparenti perché non ricostruiscono metonimicamente, sinestesicamente o analogicamente un altro significato, rappresentano un superamento del “conosciuto”, sono postrazionali, trascendenti, universalizzano la conoscenza prosciugandone la contingenza. Non sono quindi atti di un’operazione di puro nascondimento, come una fascinazione erotica, ma sono il tentativo di liberare ciò che è nascosto nell’esperienza individuale e quotidiana (il tentativo di «dare la parola / alle ossa» La buona notte): «La Doxa mi chiede per chi voterò. La voce / è di un ragazzo che, dall’altra parte, respira. Non so / quale chiarezza dentro la rovina. Tutto / ritorna qui, confine del luogo. Quel non parlato / di chiodi per terra» (Semifinale). Come «morire» è «perdere anche la morte» (Ibidem), così scrivere è perdere anche la scrittura e conoscere è perdere la conoscenza. La sottrazione salva la scrittura, salva la conoscenza e universalizza l’una e l’altra nel comprendere. Questa nostra dantesca e montaliana presbiopia consiglia dunque di tentare, come i romantici, la comprensione, che si attua nello sfinire della conoscenza: «Non abbiamo visto niente se non quel vedere / sfioriti i versi e la morte» (Storiografia) e «insieme diverremo quel pianto / che una poesia non ha potuto dire» (Cartina muta). Conclusione che ripropone la sofferta eticità del poeta, eticità che qui acquista, come in molti altri passi, quell’affettività che ne evidenzia il profondo valore poetico.

    (Hebenon, n. 11 della seconda serie, Aprile 2003)»

    Roberto Bertoldo

  • Non conoscevo questo blog, ho ricevuto la segnalazione da un conoscente. Non sono poeta, ma amo la poesia e l’arte, di cui mi occupo. Ho letto gli interventi seguiti alla riflessione di Linguaglossa (dalle notizie sull’ web scopro essere direttore della casa penitenziale di Rieti) e, al di là delle pertinenze e competenze in essi dispiegati, mi sono posto una domanda: fino a che punto la critica è utile a far comprendere e a far crescere, in questo caso, la poesia, se fatta in questi termini? Seguo con interesse per qualità, profondità, stile e sensibilità artistica, il fare critica di Cortellessa, Pontiggia, Casadei, Tesio, Mazzoni, Calandrone, per fare alcuni nomi. Qui alcuni interventi vanno nella direzione di cura per la poesia, ma altri mi sembrano più cinici giudizi volti a stroncare, a vivisezionare su un freddo tavolo anatomico, un autore e la sua opera, che è fatta da mano, mente, cuore. Mi sembra si sia trasceso e che molti degli interventi siano serviti più agli autori per mettersi in bella mostra con sfoggio di termini opacamente accademici e argomentazioni sbrananti. Una cieca volontà da cupio dissolvi. E anche sento mancanza di sacro fuoco e amore e arte.
    E non tratti i giovani con tanto sprezzo e supponenza, se hanno bisogno di un maestro, se ne sapranno anche liberare, con riconoscenza, mi auguro.

    Scusate la necessità di essere semplice e diretto.

    f. loriga

  • Ho letto lo scritto di Giuseppe Pedota, che ripete le tesi di Linguaglossa: stessi aggettivi, stessa struttura della frase. Sembra un doppione. Vorrei invece proporre un reperto storico, ossia il finale di un lungo scritto curiosamente elogiativo che nel 2002 lo stesso Linguaglossa dedicò a Milo De Angelis e in particolare a “Biografia sommaria”. Non posso trascriverlo tutto, ma chi vuole può andarselo a cercare in biblioteca (“Appunti critici”, edizioni Scettro del Re, Roma, 2002, pp. 53-55).

    Nicola Borletti
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    Giorgio Linguaglossa
    “Milo De Angelis e la poesia come destino”

    De Angelis porta con sè, nel suo stile inimitabile, tutta la ricchezza tecnica e compositiva delle precedenti esperienze poetiche, ma rimane accentrato, come avvitato alla tematica centrale del suo “universo”: Milano come luogo deputato dell’esperienza simbolica e luogo della scissione simbolica, che diventa scissione semantica. Molte poesie sono, nella sostanza, degli psicodrammi simbolici. L’andante largo di “Biografia sommaria” denota una nuova direzione, un nuovo sviluppo della sua poesia verso una rinnovata, più ricca e meno sincopata narratività, ed è significativo che questo nuovo sviluppo cada sul crinale degli anni Novanta, al termine delle esperienze del post-sperimentalismo e all’esaurimento delle poetiche che si ricongiungono al minimalismo lonbardo. E’ chiaro che Milo De Angelis è poeta rappresentativo non solo degli anni ottanta, sono ormai due decenni che il poeta milanese costituisce un punto di riferimento imprescindibile, e in un certo senso l’antologia del suo lavoro poetico “Dove eravamo già stati” (2001) sembra confermare le riflessioni che abbiamo fatto sin qui.

  • Gent.mi interlocutori,
    sono Giorgio Linguaglossa, ritengo utile a questo punto citare per intero lo stralcio che riguarda la poesia di De Angelis contenuto nel libro uscito postumo, dopo la scomparsa dell’autore, il poeta critico Giuseppe Pedota avvenuta nel 2010. Un intellettuale libero da pregiudizi e da appartenenze a conventicole con il quale ho avuto il privilegio di percorrere un tratto di strada insieme nella conduzione della rivista “Poiesis” dal 1993 al 2005.

    da Giuseppe Pedota Dopo il Moderno. Saggi sulla poesia contemporanea CFR, Piateda, 2012 pp. 97-99 – pp. 150 € 13,00

    Quando Milo De Angelis nel 1983 pubblica Millimetri con Einaudi, a distanza di otto anni dal libro di esordio Somiglianze (1976), il ventaglio stilematico dell’esistenzialismo milanese ha già conseguito i risultati strategici che si era prefissato. Prigioniera della sua geologia esistenziale la «parola» deangelisiana, sganciata dalla lingua di relazione, priva dei rapporti relazionali della sintassi, viene come dire?, liberata e posta frontalmente davanti al lettore; e quest’ultimo la riceve come una potenza, una numinosità che vuole minacciare mentre che si annuncia,
    e che vuole contenere, simultaneamente, tutti i significati laterali e caudali. La «parola» deangelisiana acquista in numinosità ciò che perde in valore relazionale. Dopo i vertici di rarefazione, di intensificazione, di sovrapposizione (e di sottrazione) di linguaggi eteronomi raggiunti con Millimetri, d’ora in avanti non resta all’autore milanese che procedere in discesa attraverso la parabola discendente di uno stile che è diventato
    una super stilizzazione, un modo di espressione, uno stile idiomatico che punta tutto sulle discontinuità, le spezzature, le inversioni tra aggettivo e sostantivo, il salto e la differenza semantica all’interno di un concetto
    ancora novecentesco di poesia come interiorizzazione e rammemorazione del significante. La poesia che appare sulla copertina dell’edizione di Millimetri esemplifica bene questa procedura:

    Ora c’è la disadorna
    e si compiono gli anni, a manciate,
    con ingegno di forbici e
    una boria che accosta
    al gas la bocca
    dura fino alla sua spina
    dove crede
    oppure i morti arrancano verso un campo
    che ha la testa cava
    e le miriadi
    si gettano nel battesimo
    per un soffio.

    Siamo giunti al limite della incomunicabilità e dell’autismo: sono saltati i complementi e quelli di specificazione, c’è l’aggettivo ma manca il sostantivo, oppure, c’è il sostantivo ma manca l’aggettivo, ovvero, mancano del tutto i verbi di moto e di azione, così che il testo ha soltanto una apparenza di movimenti e di cinetismi; i complementi sono divelti dai predicati verbali, è scomparso il soggetto ma anche dell’oggetto non v’è traccia alcuna; lontanissime analogie rispondono, al microfono di un telefono impazzito. Ma, in realtà, questo procedere tra il lambiccato e il dilemmatico, il passo orfico e l’espressione dichiarativa, l’imperioso e lo struggimento, nello scarto tra le imagery del sacro e del profano, di sfondi urbani e fraseologie lambiccate; questo costruire, o meglio, de-costruire il linguaggio poetico ereditato sconvolgendone l’ordine razionale e sintattico, alla fine raggiunge il suo risultato: la disarticolazione della sintassi e dei codici di collegamento tra le parole. Il conformista mondo della poesia grida al miracolo e al capolavoro. Si tratta, invece, della personalizzazione di un idioletto
    autistico, all’interno del quale è possibile coltivare, in vitro, ogni sorta di alchimia e di lambicco verbale. De Angelis è giunto ad un punto di non ritorno: un vero e proprio autismo stilistico. D’ora in poi la poesia più consapevole non avrà altra scelta che imboccare una strada del tutto nuova: voltare pagina, risalire la china. Avviene invece che l’esistenzialismo lombardo, già in De Angelis e poi nei suoi imitatori, assume i connotati di una poesia epigonica: un interminabile fenomeno di mimetismo stilistico e tematico.
    L’esistenzialismo lombardo non ha adesso altra scelta che tentare di forzare il blocco della saturazione del linguaggio poetico che ha costruito. Ma non lo vuole ammettere, e gira a vuoto attorno alla perduta centralità del proprio linguaggio poetico.

  • si legge sempre – e anch’io, come tutti, come sempre – secondo un percorso *proprio* ; questo percorso è la biografia di un uomo vecchio, o di una donna vecchia, che ha fatto una strada – un uomo o donna vecchio, o vecchia, anche quando ha venti anni. è giusto che *sia* così. non si arriva vergini ai libri. ci portiamo lo spirito di gravità addosso come Zarathustra: solo che ad un certo punto bisognerebbe dire come lui: *alt, Nano! o io! o tu!*

    alla fine i testi non contano molto: vale solo l’esperienza vitale che ce li fa – anche un po’ *aprioristicamente, cioè irrazionalmente – venerare. tutto è religione, alla fine. a me questi meccanismi-automatisti interessano anche più dei testi – qualche volta (e “il sempre sospirar nulla rileva”).

    usciamo dall’Umanesimo e andiamo al ristorante. non come clienti ma come camerieri. lì c’è Aldo Busi che incontra conosce deride abbandona Montale (il racconto è in Seminario sulla gioventù): un pachiderma gelatinoso… un furbone borghese…

    dopo il ristorante Busi diventa lo Scrittore con la S maiuscola. ovviamente è autoproclamato (e perché non dovrebbe essere *autoproclamato*? nessuno giustifica nessun altro). il “dott. Aldo Busi” – come recitava la sua carta intestata – emerge da anni di sguattero europeo, da una schiena rotta, da una ottima laurea tardiva, da un curriculum-signore; ad un certo punto scrive Nudo di madre.

    in Nudo di madre c’è una maledizione della poesia: la poesia è l’EPIGONA DELL’UMANO. ora: a Busi *non può* piacere questa poesia – come non gli piace quasi nessuna poesia, che vede o borghese o salottifera o soporifera o enervata: perché ne sentirebbe l’eccesso di passività rispetto ad una vita già passiva (la maggior parte della nostre vite: e ora un gruppo di giovani si ribella al titolo di “generazione perduta” e lo prende come *nome di battaglia* – e il nome è l’uomo).

    ma Busi legge Rimbaud e lo ama. perché lì non sente Milano, le ore dei corridoi di Segrate, non sente vita-e-morte, non sente nemmeno l’io. in Rimbaud non sente l’epigono dell’uomo: sente l’Eccesso che ha come contenuto l’Eccesso e arriva all’Eccesso dell’Eccesso e poi lo molla e non sa più che ci fu l’Eccesso e vive l’Eccesso della gamba tagliata e ama guadagna viaggia muore e perde e non sa più niente. [e l’Eccesso non fa scuola, perché non è scuola] [e io sono un maledetto decadente, ah sì: e un libro come la Lotta con il Demone di Zweig è davvero MORTALE sui nostri equilibri milanesi o romani, dominati dai dominatori! e detto l’ho perché doler CI debbia!]

    [ma a Genova sei *solo*… è talmente bello]

    Busi non è la Verità, proprio perché è lo Scrittore, e lo Scrittore in fondo è chi nega la Previsione, l’Automatismo, gli Istituti. la critica dell’*epigonismo umano* – qualcosa di simile alle critiche nietzscheane intorno al Parsifal – ha un grande peso. i poeti sono forse troppo poeti – e troppo poco altro. un ex cameriere poliglotta, il figlio di una madre-di-ferro… – NON trova pace in queste scritture, e in nulla che sia meno di Stendhal o di Dante , forse (e Busi disprezza Ph. Roth, ad esempio: “uno scrittore di genere”. Roth, che ha adepti come una religione!)

  • E’ vero, gentile Luigi, e me ne scuso: la recensione di Lorenzo Chiuchiu è uscita il 31.1..2012 su “Blanc de ta nuque”, il sito poetico di Stefano Guglielmin. A Roberto Russo – di cui non condivido neanch’io tutte le scelte, ma apprezzo lo slancio passionale – consiglierei per una prospettiva generale dell’opera di Milo De Angelis l’ottima introduzione di Isabella Vincentini al libro che raccoglie le interviste del poeta milanese: “Colloqui sulla poesia”, ed. La Vita Felice, Milano 2008.

    Ho trovato alla fine il saggio di Sauro Damiani, uscito sulla rivista “Soglie” nel 2010. Eccolo.
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    Milo De Angelis, “Quell’andarsene nel buio dei cortili”, Milano, Mondadori, 2010

    A pochi poeti può essere applicata, come a Milo De Angelis, l’osservazione di essere autori di un unico libro. Infatti in questa che è il suo settimo volume di poesia quasi non c’è parola, espressione, immagine che non sia rintracciabile in quelle precedenti, da “tangenziali” ad “asfalto”, da “citofono” a “sangue”, da “sciarpa” a “pallone”, da “l’unica data” a, perfino, “andarsene”. E l’enumerazione potrebbe continuare ancora per molto. Così gli oggetti finiscono per trasformarsi in emblemi, in entità sottratte al tempo e investite da un’aura magica, e la parola si fa mantra che evoca e risveglia, con la sua potenza, ciò che ogni momento minaccia di sprofondare nel buio e nel nulla. E a ben vedere non può essere che così. Infatti per De Angelis non esiste che “un’unica data” (espressione già presente in “Biografia sommaria”), al di fuori della quale il tempo non è che dispersione e distruzione, un andarsene senza meta. Quando poi il tempo assume la direzione del futuro (pensiamo solo al finale di “Cartina muta”, in “Biografia sommaria2), ebbene, quel tempo torna circolarmente, e ritualmente, su sé stesso. Non a caso il libro si conclude col verso “torneremo a casa, vi diremo”. L’andare, quando non è un infinito “andarsene”, è un tornare (“Per nascere occorre un ritorno”). È un collocarsi nel “luogo intero” (“Biografia sommaria”), nell’ “intero musicale”, dove la vita splende nella luce albare della “bella epopea”, dove, per usare espressioni tratte da “Tema dell’addio”, si ascolta la musica delle sfere e ogni episodio torna al ritmo. Nel luogo intero “quel ponte”, scrive il poeta in “Somiglianze”, con espressione quasi zen, “rimane là/è calmo, non è più/ciò che unisce due rive”. Sembra l’eterno presente dei mistici, su cui tornerò. E in questo libro troviamo un significativo “estasi del prato”, con riferimento alle “eroiche” battaglie sul campo sportivo (“La bella epopea”). Tuttavia De Angelis parla anche di “peso mortale di un pallone”. L’arcadia può trasformarsi in inferno, il tutto in nulla (“Ero lì, inchiodato/a un esistere sparito”). L’eletto, colui che porta il “segno sacro dell’alba”, è chiamato a obbedire a “un ordine oscuro” proveniente dall’oltre, a “rispondere all’immenso”, assumendosi la responsabilità della sua traduzione, sempre col pericolo dell’errore linguistico e vitale. Col pericolo di mancare salvezza e poesia. Così il “bacio” può trasformarsi in “spina”.
    Ma ora vorrei correggere quanto ho detto all’inizio, che cioè il poeta milanese è autore di un unico libro. Infatti basta anche un superficiale confronto con gli altri sei, tutti metricamente molto vari pur nella scelta di fondo del verso libero, per accorgersi della novità, e dunque della necessità, di questo ultimo. “Quell’andarsene nel buio dei cortili ” è infatti composto da 57 poesie, tutte brevi e monostrofiche, salvo due, che apportano una lieve ed elegante increspatura sulla voluta uniformità dell’insieme. Unità e uniformità anche di tono, se si eccettuano alcune liriche della sezione “Canzoncine”, dove il cielo si fa per un attimo “rosa tenue” “e ogni cosa per noi sembra creata”. Quella di De Angelis in questo libro mi sembra un’ operazione un po’ simile, mutatis mutandis, a quella dei “Mottetti montaliani”. La stessa brevità e densità, la stessa presenza di figure e situazioni enigmatiche, lo stesso rivelarsi delle figure salvifiche in un paesaggio “impoetico”. Nettamente diverse sono qui una tendenza al sentenzioso e all’epigrammatico (varie liriche sono di cinque o sei versi) e la forte tensione etica, la scelta di obbedire, costi quel che costi, con inflessibilità spartana, all’ ordine oscuro, di rispondere a una chiamata. Ciò che a livello formale comporta il ricorso a frase brevi, con frequenti enjambements, e a ripetizioni di parole o sintagmi, che danno a certe poesie un ritmo martellante, proprio dell’essere “inchiodato”, quasi crocifisso, all’“esistere sparito”. Esemplifico riportando integralmente una lirica della sezione “Sei perduto”, senza titolo come tutte le altre, salvo quelle dell’ultima sezione, “Canzoncine”. E un finale con titoli e per di più cantabile, seppure a bassa voce, è assai un significativo.

    La luce parlava. Sulla tua fronte
    il prodigio. La nudità
    di tutto il sangue. Un vestito,
    i gialli, gli azzurri,
    un colletto. Il citofono chiede ancora
    la tua voce. Se non parli,
    tutto si oscura. Solitudine saliente.
    Solitudine innata. Congiungersi
    dei petti nel nulla. Stretta alla terra,
    ruota la parola.

    Non potendo addentrarmi nell’analisi della lirica, vorrei solo far notare le frasi nominali (uso non infrequente nel libro) e il finale sentenzioso, con quella parola che non riesce a librarsi e ruota senza senso su di sé.
    Dicevo della risposta a una chiamata. Il che, detto fra parentesi, significa che quello che nel poeta sembra volontarismo superomistico è in realtà strenua fedeltà a un ordine superiore. L’iniziativa non è del soggetto ma di una trascendenza innominabile, i cui comandi sono decifrabili solo con difficoltà e pericolo. Come nella tradizione ebraica e cristiana, all’inizio c’è una chiamata. Chiamata che qui risuona nella “regio dissimilitudinis”, un luogo dove nessuna somiglianza è possibile perché vi opera la “collera storica e celeste/per ciò che non si compie” e “un sasso precipita su tutti gli dei del sorriso”. È una specie di peccato originale (De Angelis parla di “prima caduta”) che trasforma la luce dell’“unica data” in “filo spinato”. Così abbiamo luce e insieme buio, rivelazione e insieme occultamento, ritmo e insieme dispersione, fra loro mescolati: “la mela si mescola col tempo”, “il pane…si mescola/col sangue”, “le sillabe” sono “mescolate all’asfalto”. Ci sono dunque due inizi, metafisici naturalmente, uno subordinato all’altro: da una parte quello, fondativo dell’ordine cosmico, storico e individuale, che rivela l’“intero musicale” della “bella epopea” dell’infanzia e gli eroi (la Donatella e la Stefania Annovazzi di “Biografia sommaria”) che hanno compiuto lo sforzo di essere fedeli al “giuramento dell’infanzia”, ripetendo ritualmente, nel tempo, l’unica data, e dall’altra quello, subordinato, della distruzione dell’ordine, la caduta “nel tempo/delle sillabe tronche”, di “una sola e grande morte”: sì che il poeta può esclamare, nell’icastico, eloquentissimo verso finale di una lirica, “Distruzione, tu mi hai generato”. È la “rottura dell’alleanza”, di cui il poeta aveva parlato in un altro libro: rottura di un’alleanza precedente, si potrebbe dire più iniziale. “Somiglianze”, con la sua gioia vitalistica, era sotto il segno del primo inizio. La presente opera è segnata dall’esperienza di “questo freddo che, oltre i secoli, mi parla”. Perciò sono parole come “buio”, “notte”, “freddo”, “nudo” a costituire lo sfondo di questo libro di De Angelis, il suo basso continuo. Ecco dunque il tempo grammaticalmente infinito, e perciò senza soggetto, dell’andarsene nel buio dei cortili. Ma nella seconda lirica della sezione “Voci “(dalla quinta e ultima parte del libro intitolata “Canzoncine”) si assiste a una sorprendente inversione. “Quell’andarsene nel buio dei cortili” si trasforma in “quell’andarsene dei cortili nel buio…”. Ora sono i cortili a muoversi senza meta, a sprofondare nel buio. Lo spazio, anziché estendersi sicuro sotto i piedi, fondamento di una salda dimora, diventa tempo, il tempo infinito del buio e del “silenzio precedente”. Così il poeta può scrivere, nella terza lirica della sezione “Finale d’assedio”, “La casa si allontana/dai soggiorni”, o nell’incipit di un’altra lirica intimare “Fermalo. Il portone sta fuggendo”. Questa liquefazione dello spazio nel tempo esprime una situazione tipicamente novecentesca, quella del trovarsi fuori di casa, del sentirsi straniero nel mondo, del vagare senza meta. Dell’essere “profugo del tempo”.
    Ma gli eroi amati e invocati, benché “dispersi ai bordi della terra”, non sono scomparsi. Forse sono morti, ma “la terra appartiene/a chi l’ha abbandonata” e, come il poeta scrive nell’ultima poesia del libro, solo chi è stato morto può insegnare il cammino a chi è ancora vivo. Gli eroi paiono dunque assenti e lontani, e invece sono ancora lì e “nascosti” attendono il poeta. “L’acrobata della notte”, “la cacciatrice” “giungono, stanno giungendo”. Attendono, ma anche si presentano essi stessi, prendono l’iniziativa. Tornano magari in un bar di Affori, o nei cortili del “grande paese di Milano” abitato da “fantasmi”, le loro parole salgono, frantumate, da sotterranei e cantine; uscite dal “pozzo sigillato” trovano la strada per parlare al poeta affinché resti fedele al “feroce ordine dei canti”, perché non venga meno al mandato ricevuto e continui a coltivare la speranza di “un anno di luce completa”. Gli eroi sono vivi, continuano a combattere la battaglia senza esclusione di colpi, feroce, appunto, nella quale sono in gioco vita e poesia, strette in un unico abbraccio (“Il sangue delle frasi”). Battaglia. Ed ecco dunque il linguaggio militare: “armata dei corpi”, “pattuglia di ragazzi”, “drappello dei solitari” (si noti l’ossimoro. L’elezione è sempre singola e non può essere inglobata in nessuna totalità. E tuttavia “la perfezione di essere solo” non esclude la “comunione”, ultima parola di “Biografia sommaria”: la comunione degli eletti, soli e solitari in un mondo di fantasmi). Il drappello muove a battaglia. Ma lo scontro notturno “tra le tangenziali”, evocato in una splendida poesia della sezione “Un’oscura sete”, non può che avere un esito negativo, e la cacciatrice Artemide, la vergine che capeggia la schiera degli eletti, ferita, offre il seno al vuoto. Non è ancora il tempo della luce completa, il citofono non risponde, la vita è “acqua che beve sé stessa”. È il tempo del silenzio. “Silenzio” è una delle parole chiave del presente libro. È il silenzio della “notte minerale”, del dubbio di non capire e di sbagliare la traduzione, e come tale è associabile a buio, nudo, vuoto, solitudine ecc. Ma è anche, e soprattutto, il silenzio richiesto dagli eroi “con un dito sulle labbra”, ed è il silenzio da osservare “prima del frutto”. Silenzio dell’attesa e di una eroica fedeltà alla “interminabile parola data”. Perché l’eternità si può mancare anche solo “per un soffio”, e occorre un’estrema vigilanza.
    L’ultima, mirabile poesia del libro è un’invocazione a coloro che “sono stati morti” perché si stacchino dal tempo e si facciano presenti con una parola univoca e salvifica. Invocazione affinché il tempo infinito assuma la direzione del futuro, e il futuro torni, circolarmente, alla casa dell’unica data. L’evento sperato e atteso non può essere che improvviso, perché, come ho già detto, l’iniziativa non è del soggetto. Nessuna razionalità, di nessuna specie, può prevederlo e determinarlo. È infatti – per usare la terminologia della religione cristiana – un evento di grazia. Allora “le più alte/astrazioni” saranno gettate in un “sussulto di fiammiferi”, dei quotidiani, insignificanti eppure potenti fiammiferi (ricordiamo la sequenza di “Biografia sommaria” intitolata “Costruzione con fiammiferi”). Un sussulto, dunque, e sarà la vita. Ma quale vita? Ci indica la strada della risposta la parola “costruzione” e soprattutto una breve ma importante lirica di “Tema dell’addi”,, nella sezione “Scena muta”. Vi si parla di “un tempo/ che capivi a mano a mano, lente/costruzioni a mano a mano, calendario/terrestre”. Versi in cui le ripetizioni, diversamente da quanto abbiamo visto sopra, danno felicemente il senso di un movimento rallentato e quindi di un tempo sì della pazienza, ma anche dell’agio, della conquistata sicurezza. Il ritorno a casa non ha dunque nulla, nella poesia di De Angelis, dell’atemporale estasi mistica, e il tempo non si vanifica nell’eternità. Nell’unica data il tempo, che nell’andarsene senza meta era il luogo della distruzione, ora è il terreno che permette la costruzione. Costruzione della dimora. Siamo dunque di fronte al paradosso dell’unica data che si fa “calendario terrestre”, del dono di grazia che richiede l’impegno del soggetto. Il tempo è amico dell’uomo. Mentre nell’andarsene infinito lo spazio si trasformava in tempo, nell’unica data il tempo si dilata in spazio, luogo in cui edificare la dimora dove l’uomo è riconciliato con sé stesso e col mondo. Detto in termini più filosofici, il divenire non si contrappone all’essere, ma anzi ne esprime la vera dimensione, che non è quella di un’impersonale astrazione ma di una realtà vivente. Il tempo che torna ritualmente su sé stesso non è tempo vuoto, ma ritmo e danza, alla quale partecipano, in una comunione indistruttibile, vivi e morti.

    insegnatemi il cammino, voi che siete
    stati morti, attingete la nostra
    verità dal pozzo sigillato, staccatevi dal tempo
    e portateci oltre le tragiche colonne
    tra i fari dei camion e un piumino
    getteremo le più alte
    astrazioni in un sussulto di fiammiferi,
    torneremo a casa, vi diremo.

    —————————————————————————————–

    Sauro Damiani, da “Soglie”, Rivista Quadrimestrale di Poesia e Critica Letteraria, Aprile 2011

  • Caro Roberto,

    mi spiace non esser stato chiaro nel mio precedente commento, per cui le chiedo che parte di “non ho detto che la poesia di De Angelis faccia schifo” e di “mi piace come etc.” non ha capito. Di nuovo, non vedo come ci si possa impegnare nella “analisi” di una poesia quando non si riesce ad analizzare nemmeno ciò che è scritto senza metafore e senza ambiguità.

    Continuo a chiedermi in che modo si possa parlare dignitosamente di poesia e letteratura in generale senza che ciò significhi sempre e solo spompinarsi a vicenda.
    Aggettivare e predicare sono elementi necessari ma non sufficienti a spiegare. Il paragone con Aglieco le sembra una idiozia come a me sembra raccapricciante ciò che lei pensa di Di Ruscio. Il problema è che in questo modo non si va da nessuna parte: abbiamo solo creato due mostri, uno idiota e l’altro raccapricciante.
    Per questo continuo ad insistere dicendo che se proprio si vuole criticare/attaccare una posizione è necessario entrare nel merito del detto senza farsi prendere la mano da facili aggettivazioni che sottendono tutta una serie di ragioni che restano implicite e sconosciute ai più che leggono.
    Anche la diatriba Cianciani-Francisci non porta da nessuna parte perché nonostante gli sforzi, a me non sembra che entrino nel merito del detto ma solo mettono nero su bianco una sublimazione o desublimazione di un componimento letto secondo due prospettive differenti.
    Un discorso senza premesse non giunge a nessuna conclusione.
    LA cianciani e la Francisci potrebbero rimanere qui per sempre facendo sempre la stessa cosa; anche il gentile Nicola o chiunque altro potrebbe impiegare il resto della sua vita a cercare tutte le opinioni a favore di De Angelis e contro Linguaglossa. Cambierebbe qualcosa? Mi pare che come spesso accade nei blog, ci si sia allontanati dal discorso di partenza; anzi, credo che lo si sia trascurato del tutto, perché di nuovo non si è cercato di entrare nel merito del detto.

    Ad ogni modo continuo a pensare che il tono da vate, da predicatore posseduto dalla bellezza a sua insaputa è un atteggiamento adottato da molti poeti ma che io non approvo.
    Se la cosa le sembra una idiozia mi dispiace, ma senza struggimento. Non ho intenzione di convincere nessuno; solo condividere un pensiero e vedere di cavare il ragno dal buco con qualche illuminazione terza che al momento scarseggia.

    @Nicola: grazie mille per la rassegna utilissima per i confronti (a chi abbia voglia di farli, i confronti). Ho visto che stai inserendo i riferimenti bibliografici; ti chiedo solo di segnalare il link nel caso in cui qualche pezzo venisse dalla rete – non ho voglia di impegnarmi in discussioni surreali con dei personaggi potenzialmente offesi dal tentativo di plagio; nel mondo della poesia in rete succede anche questo 🙂

    Luigi B.

  • La ringrazio, Nicola Borletti, lei è di una cortesia eccelsa! Leggerò tutto e poi preciserò il mio parere su De Angelis nel blog o anche, se ritiene, privatamente.

    Roberto Russo

  • Gentile Roberto Russo,

    Non riesco a trovare la rivista “Soglie” di cui le dicevo, con lo studio di Sauro Damiani. Guarderò meglio. Intanto le invio – sperando che non le sia già nota – la riflessione del giovane poeta Alessandro Bellasio sull’ultimo libro di De Angelis

    LA FERITA IN CIRCOLO
    di Alessandro Bellasio

    «Insegnatemi il cammino, voi che siete | stati morti»: con questa richiesta di vita rivolta a chi sia «stato in un limite» (p. 20) inizia l’ultima poesia della nuova raccolta di Milo De Angelis, “Quell’andarsene nel buio dei cortili”. Un libro densissimo, percorso in modo compatto da una fede inalterata e ribadita nell’atto poetico come cardinale necessità («Stretta alla terra | ruota la parola», p. 55), cui fa da controcanto la coscienza di uno scarto radicale tra atto della scrittura e fede nel dettato. Uno scarto da patire affinché la ferita in cui esso si imprime trasmetta una parola amata: «Ciò che vedo […] era | una frase che, penetrando | nella ferita più buia, la fa sua, | la guarisce, l’aggrava, la sposa» (p. 15). Questa ferita è inquadrata nella certezza di una perdita che sembra irrevocabile: «È tardi | nettamente» (p. 28); eppure, dal tempo spezzato e vacante che ne resta è forse possibile carpire un nocciolo che parli ancora la lingua delle linfe vive: «Non esiste un cerchio in cui fermarsi, un nome | pieno da ribadire sulle labbra […] Ogni frase | diventa linea perduta, annuncio di una volta» (p. 27). Se il cerchio viene inteso come area, come spazio pieno, la sua negazione significa che non c’è presenza, pienezza d’essere. Resistono, tuttavia, i margini: la linea della ferita sanguinata tra passato e futuro, perdita e annuncio; il perimetro delle labbra rappreso tra sillabe e silenzio. Se «l’ultima frase sfiora la prima» (p. 66), allora il tardi netto potrebbe formare la sua circonferenza, figura del tempo tragico, congiunto con un presto appena dicibile, fremente:

    Indietreggia
    ogni evento fino alla sua cellula, mutarsi
    della luce in filo spinato
    quel balbettio delle mani
    diventò una sentenza.. 18)

    Le frasi si sgretolano oscillando nel proprio balbettio, prossime al dolore fondante della sillaba, unità minimale del senso, dell’incontro tra sangue e suono, vera linea di confine tra articolazione e disarticolazione del corpo verbale. Ma questo indietreggiare non ha niente della retromarcia nostalgica, perché lungo quel margine che è una circonferenza non esiste successione, «non puoi | creare un precedente» (p. 16) quando la vita circola «nella vigilia | sconfinata che ti chiama» (p. 74): il tempo è poiesis, creazione che aggrava e sposa le morti che investe di futuro. Al suo centro, custodita e palpitante, l’infanzia è la presenza:

    Torna antica la parola
    e quella stanza era un suono
    di fogli e neon, lesione
    nella castità delle dita
    a precipizio tra due pareti,
    scendo in un giorno remoto,
    il polpaccio si indurisce,
    tutto finisce a mezzogiorno, di ombra
    in ombra si abbrevia una vita,
    l’erba cresce nei corridoi
    bisogna consegnare,
    tra qualche minuto, bisogna
    consegnare anche la brutta. (p. 42)

    Proiettata indietro nel futuro, avanti nel passato, lesione centrale che si irradia come «brandelli d’estate» (p. 43), l’infanzia è l’atto totale dello scrivere, il momento poetico in cui tutto il corpo è impegnato nella lotta con le parole, in bilico sopra il silenzio, e la grafia ne sanguina. La “brutta” è questo corpo primo e irripetibile della scrittura, calligrafia originale del gesto. L’infanzia non è un dato anagrafico, ma sincronia solare del tempo, vigilia perduta che la poesia torna a interrogare, a decifrare, a tradurre. È, l’infanzia, proprio quel dettato per cui «noi cominciamo la parafrasi» (p. 72), e di fronte al quale, per lo scarto che guida l’azione, siamo sempre «i supplici | rimasti ad ascoltare» (p. 14). Chiamati dall’urgenza di colmare l’area spolpata che tuttavia ruota proprio grazie al perno di quella presenza originale, possiamo guardare negli occhi la fine, il limite, fiduciosi che il suo sguardo, per quanto indecifrabile, non si sottrarrà al suo principio, alla nostra interrogazione, come nella poesia che inaugura la raccolta:

    A volte, sull’orlo della notte, si rimane sospesi
    e non si muore. Si rimane dentro un solo respiro,
    a lungo, nel giorno mai compiuto, si vede
    la porta spalancata da un grido. La mano feriva
    con una precisione vicina alla dolcezza. Così
    si trascorre dal primo sangue fino a qui,
    fino agli attimi che tornano a capire e restano
    imperfetti e interrogati.
    (p. 9)

    MILO DE ANGELIS, “Quell’andarsene nel buio dei cortili”, Milano, Mondadori, 2010, pp.77, € 14,00.

  • Gentile Signor Russo, la ringrazio per gli apprezzamenti. Le mando subito la breve nota di Lorenzo Chiuchiu, che ha un forte accento filosofico, assai originale. Per quanto riguarda uno studio più ampio su Milo De Angelis – a parte il libro di Eraldo Affinati, che lei sicuramente conoscerà – ho pensato a un intervento più recente di Sauro Damiani, apparso sulla rivista toscana “Soglie”.Ma non è in rete. Se mi lascia un po’ di tempo, glielo trascrivo.

    Cordialmente

    Nicola Borletti

    Per “Quell’andarsene nel buio dei cortili” di Milo De Angelis

    Era buio. Il centro di agosto era buio
    come il corpo nudo. Non potevo
    trovare riposo né movimento: solo il battere
    del sangue sulle labbra. Il buio
    giungeva dal respiro aperto, dalla freccia alata
    che entra nel mondo. Il buio
    era lì. Era lì, nel vertice
    della prima caduta, era me stesso,
    questo freddo che, oltre i secoli, mi parla.
    (p. 11)

    La poesia di Milo De Angelis è sempre un’epifania e una catastrofe: apparire – nel senso forte di phainestai, di imporsi al visibile – di un tempo aionico, assolto dallo scorrere e segnato dalla sua indeducibilità; e catastrofe di questa eternità caduta nel tempo fino ad esserne ferita. L’eterno che appare al poeta non è l’inconcusso, l’eterno di Milo De Angelis può morire, e muore in un gesto, in una luce mentale, in un «cielo che nasce / in ognuno di noi» (p. 14) e che con noi tramonta.

    Il buio è il luogo dove si congiungono e si combattono all’ultimo sangue la biografia e la fine di ogni storia, spazio nel quale accade l’irreparabile e la grazia: «feroce ordine dei canti» (p. 47) e «bacio / tradotto da una spina» (p. 51).

    Il buio non deve dunque essere assimilato né al simbolo (almeno al simbolo così come è stato inteso, ad esempio, nella glaciazione della lirica mallarmeana, forse differente sarebbe il discorso per la sfera tautegorica del simbolo orientale), né tanto meno all’archetipo. L’origine della voce poetica con il suo «respiro fratello e nemico» (p. 15), la sua disappartenenza tanto alla vita quanto alla morte, non affonda nella costellazione, nonostante tutto rassicurante, del simbolico né emerge dalla polisemia dell’archetipo.

    In Milo De Angelis il buio – così come il sangue, le ombre, l’inizio – conduce a una specie di acmeismo esistenziale e insieme mitico che precipita la solitudine irrimediabile del poeta novecentesco nell’«antichissima notte» della Grecia dei Misteri o nel cuore della follia, dove una volta per tutte si è visto che ogni opposizione si sfigura risucchiata in un gorgo e che dunque nessuna dialettica arriva all’essenziale. Ecco la particolarità dell’inaudito di Milo De Angelis, ecco la sua oscurità. Oscurità che non è un invito all’investigazione e che non ha perciò parentele né con la Schwärmerei che accumula impressioni né con il surrealismo e le sue ascendenze psicanalitiche.

    Il buio è qui la voce del destino, non della coscienza: «Vicina all’anima è la linea verticale» (p. 14). La prossimità fra la linea verticale e la psyke – farfalla che attraversa la morte, respiro e identità personale – è icona della responsabilità del singolo per il destino. La linea verticale è la semiretta del destino cui De Angelis fa riferimento in Poesia e destino: «una semiretta verticale contrassegnante il punto da cui parte il cammino verso l’alto o verso il basso. Il destino diventa questa semiretta, trampolino dell’inabissamento o del volo» (p. 28). È «l’eternità spezzata» di Hebbel che da un punto esatto – la mia vita, la mia parola, l’assoluta responsabilità anche per ciò di cui mi illudo di non esserlo – fa nascere il «cielo in ognuno di noi» (p. 14) e insieme l’inabissarsi del «non siamo tornati mai più» (p. 69).

    «L’infinito appare nel poco», ma anche «tutto / è consegnato all’evidenza / della fine» (p. 28).
    Gli «attimi imperfetti e interrogati» (p. 9) appartengono a un tempo generato interamente dall’impatto tra telos e contingenza: il tempo tragico non è un sostrato nel quale accadono gli eventi, ma è l’esito di un telos che ritorna sui propri passi e che lo genera. Come dire: la profezia e la mantica non descrivono ciò che accadrà, ma creano l’articolazione complessiva delle estasi della temporalità (ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà).

    Come le sorti gettate sono enigmatica figura del telos, e non una sua anticipazione, così le parole del poeta dipendono dalla legge sconosciuta che lo ha nominato: «Come rispondere all’immenso?», il “come” è proprio il tempo umano; se «solo ora, come un grido, mi raggiunge» (p. 52) significa che esso era prima che l’uomo fosse e che l’uomo è temporale perché investito dal telos. Si tratta di dire la «frase che, penetrando / nella ferità più buia, la fa sua, la guarisce, l’aggrava» (p. 15). «L’ultima frase sfiora la prima»: l’ultima frase è la stessa pronunciata dalla «sola e grande morte» (p. 20). La voce del poeta confonde i tempi storici per fedeltà al tragico: l’eterno presente «di voi che siete stati morti» rende indecidibile la realtà o l’illusorietà dei tempi mondani.

    Tutta una vita, nell’istante, può mostrare la sua illusorietà («l’assenza di destino, il dysmoron, è la nostra debolezza», scrive Hölderlin), oppure può incendiarsi, ascendere e incontrare «gioia e fine avvinghiate» (p. 67).
    Allora «ogni frase / diventa linea perduta, annuncio di una volta» (p. 27), perché «nessuno sapeva se la vita era immensa / oppure niente» (p. 26).

    Lorenzo Chiuchiu
    _______________________________________________________________

  • Scusi, Signora Canciani, ma non credo che abbia senso continuare a fare ironie e sarcasmi su ogni verso di Milo De Angelis. Così non convince nessuno. E nessuno convincerà lei. Un vicolo cieco. E poi lei, Signora, dice sempre le stesse cose. E parte visibilmente da un pregiudizioe, ha un tono da predicatore televisivo, più che da lettore serio. De Angelis per lei è una fissazione! Sembra che la sua poesia – emblema del male – si stia impossessando di lei come un demonio. Più che a un blog dovrebbe rivolgersi a un esorcista.

    Vorrei invece chiedere a Nicola Borletti (che è molto attento, vedo, alla bibliografia di De Angelis) se può inserire nel blog lo scritto di Lorenzo Chiuchiu ed eventualmente indicare uno studio più vasto sul poeta milanese, che parta sì dall’ultimo libro, ma poi si estenda a una visione d’insieme. Io sono entrato tardi in questo dibattito, forse alla fine, lo so. Mi dispiace, sono tornato a Roma solo ieri. Lo trovo comunque di grande interesse. Lo trovo quasi all’altezza del precedente su De Angelis apparso su “Absolute ville” nel 2007 e ancora consultabile. Devo però notare che in questo caso, forse, si parte da una premessa sbagliata. Fortini questa volta ha semplificato fino alla menzogna. “Poesia dei sentimenti personali / poesia dei rapporti”. Una specie di aut- aut. Ma siamo pazzi? Esiste un rapporto spogliato da implicazioni sentimentali? E allora De Nerval o Giovanni Pascoli? Ma stiamo scherzando? Ma siamo impazziti a tracciare questi steccati? E’ un vangelo, Franco Fortini? Ricordiamoci che Fortini era un uomo assediato dai rimorsi di classe, uno che faceva le prefazioni a Giulio Stocchi o a Luigi Di Ruscio, ossia al peggio della demagogia sentimentale e nostalgica che giustamente Linguaglossa redarguisce. Per fortuna se ne sono accorti, in questo blog, Roberto Bertoldo e Daniele Barbieri, che hanno saputo esplicitarlo meglio di me. I loro interventi sono quelli più lucidi. Poi mi ha colpito “m”, così sofferente e carica di presagi mortali, con quelle sue allusioni cifrate. E poi ho stimato la studentessa Elena Francisci per l’ analisi di quella poesia di De Angelis (“Ho saputo, amica mia”) che ci apre davvero gli occhi sull’estrema chance: incontrarsi nella zona più vuota dell’esistenza! Ho invece trovato mediocre ogni intervento del “redattore” Luigi B, che ignora, insieme alla poesia di oggi, le donne di altri tempi e le foto in bianco e nero. Un capolavoro di idiozia è il paragone con Aglieco! Ringrazio invece nuovamente il premuroso Signor Nicola Borletti, che ci ha messo a disposizione alcuni dei contributi più convincenti di questi anni sull’ultimo libro di Milo De Angelis e ci ha ricordato più volte le parole citate da Stefano Verdino in modo magistrale, parole che non si scordano. Qui, in due versi secchi, si gioca la partita tra emozione e realtà, tra soggetto e destino naturale:. “E’ tardi/nettamente”.

    Roberto Russo

  • Per i gentili lettori, trascrivo qui sotto la poesia citata da Azzolini quale exemplum della capacita scrittoria di De Angelis. La commentero verso per verso:

    Di sera ti sanguina la bocca
    e ti aggiri frenetico
    nel cerchio della tua necessità
    nel dormitorio senza finestre
    mentre interi popoli guardano
    i bei quadri, tu
    rivedi i passi giovanili
    con gli occhi sbarrati della fine:
    non l’idea reggente, ma quell’immobile
    raffica che ti esige fino all’ultimo,
    ti chiede l’esatta versione e l’esatto
    andare a capo, te lo chiede interamente
    mentre ti aggiravi a un centimetro
    dai corpi ed eri ciò che resta muto
    quando due si lasceranno
    quanta poca vita rimane in un saluto
    tu eri questo.

    La composizione inizia cosi “Di sera ti sanguina la bocca”; come non notare che questo incipit e sopra le righe? A nessuno sanguina la bocca se non per una malattia tipo gengivite o una patologia ben piu grave come un cancro, e allora, questo primo verso e manifestamente fuorviante, sopra le righe, quindi falso. Ma voi direte: ma e la liberta del poeta che qui ha luogo! E io rispondo: miei cari lettori il poeta non ha alcun diritto di accentuare i toni fino all assurdo (che la letteratura dell assurdo e un altra cosa!), il poeta non ha diritto di inventare delle situazioni manifestamente sanguinarie per ipnotizzare e abbindolare il lettore improvvido. Da quiel primo verso sopra le righe De Angelis procede a tratteggiare tutta una composizone sopra le righe, e cosi continua: “nel dormitorio senza finestre \ mentre interi popoli guardano
    i bei quadri”; Ora, passi per quel “dormitorio senza finestre” che appare come una forzatura espressionistica del tutto arbitraria ma quando si arriva all enuciato “mentre interi popoli guardano i bei quadri”, beh, io mi fermo allibita e mi chiedo: ma come si fa a cambiare le carte in tavola in questo modo? tra il dormitorio e i popoli che guardano i bei quadri non c e nessun nesso referenziale e nessuna necessita metaforica… la metafora (detto in altri termini) e gratuita e arbitraria… e se alcuni critici non rilevano l arbitrarieta di fondo delle composizioni di De Angelis e una questione che spetta ai critici chiarire, evidentemente non vogliono inimicarsi i poteri editoriali forti e le istituzioni di poesia che contano in Italia, anche se qua e la, come nel commento di dante Isella trqaspare una certa presa di distanze. Ma continuiamo la lettura. Cosi continua la poesia: “tu rivedi i passi giovanili
    con gli occhi sbarrati della fine”; anche qui si nota una certa sovra eccitazione in quel tu con gli occhi sbarrati, del tutto arbitraria e sovra dimensionata… anche perche non si comprende qual e il prblema di tutto questo agitarsi di sovra eccitazioni e di stati sensazionali, di sensazionalismi fuori di sesto. Insomma, se conituiamo la lettura ci imbattiamo nella medesima procedura che congloba sensazionalismi e virtuosismi semantici e drammatizzazioni posticce per blandire il lettore non provveduto, intimidirlo con qualche ellisse e qualche raccourci e infine disarmarlo delle sue facolta critiche. Ma e un trucco manifesto, e una procedura truccata. In realta nella composizione citata non c e alcun dramma, c e pero una drammatizzazione forzata, non c e alcuna situazione chiaramente messa a fuoco, ma ci sono sensazionalismi e feticismi del linguaggio, trucchi da retoricoeur e virtuosismi da prestidigitatore, palleggi da palleggiatore da circo piu che da calciatore di calcio.
    Vorrei dire, per concludere (lascio a voi il compito di compitare il resto della poesia) che fare poesia non e un atto di illusionismo e di prestidigitazione come sembra voler far credere De Angelis, la scrittura deve essere innanzitutto onesta, non deve ricorrere a trucchi e a sensazionalismi (che tra l altro possono essere scoperti facilmente), nel fare poesia e meglio evitare personalismi e pose da attore da avanspettacolo, infingimenti del cuore e illusionismi da mago da circo.
    Due parole per le presunte mie “antipatie”: non ho antipatie per nessuno, ormai non ho piu l eta per queste cose, non ho antipatie ne per le persone conosciute ne per quelle che non conosco personalmente, e tanto meno ne ho per la persona di Milo De Angelis, della signorina Francisci o per gli altri lettori di questo blog. So che e difficile capirlo ma non ho antipatie veramente per nessuno. buongiorno

  • Gentile Azzolini, leggo in diretta la sua richiesta. Ebbene, se mi concede qualche minuto, le invio al più presto il saggio di Gilberto Isella su “Quell’andarsene nel buio dei cortili”, saggio che a volte è critico nei confronti di quest’ultimo libro, ma in modo ponderato e intelligente, come vedrà, come vedrete.

    Gilberto Isella su “Quell’andarsene nel buio dei cortili”
    di Milo De Angelis

    Un gruppo di versi, nella raccolta “Quell’andarsene nel buio dei cortili” (Mondadori, 2010) ci trasmette in modo ellittico ma tutt’altro che ambiguo la visione del mondo di Milo De Angelis: “Restammo vicino al passaggio a livello./ Tu perdevi i tuoi cieli. Come rispondere/ all’immenso? Eravamo una frazione della voce,/ sillabe disperse”. Dove a colpirci, entro l’opposizione di fondo piccolo/ grande, alto /basso, è il dato di partenza (il trovarsi in un luogo fisico, l’essere individui parlanti nella precarietà), che muove da un’ipotesi realistica ma è presto messo in relazione con l’imponderabile.

    Come leggiamo in altri versi, la nostra vita sembra infatti consistere in un rapporto conflittuale tra la contingenza che ci vincola (siamo creature frammentarie, in perdita d’assoluto, “dispersi ai bordi della terra”) e l’agire misterioso, aleatorio, di un’entità illimitata che investe ogni segmento del quotidiano. Non dal divino e dalle sue epifanie è segnata tale immensità, bensì dal vuoto e dall’assenza (ontologica e storica) di un evento fondante o di un senso riconosciuto.

    .Essa dà forma a uno scenario enigmatico – posto in noi e fuori di noi nello stesso tempo, quasi “una linea verticale” vicina all’anima – dal quale partono segnali perturbanti suscettibili di trasformarsi in allucinazioni (qualcosa che assomiglia all’unheimlich freudiano). Il destinatario li registra nel cerchio ristretto e ombroso del suo metaforico “cortile” e del suo isolamento domestico, ma direi soprattutto nei territori dell’accidia epocale, sordidamente fautrice di violenza anche se espressa quasi unicamente per cenni e allusioni, che lo circonda.

    Sono le frecce o le furie di un tempo non risanabile: “una furia/ che scende verso l’oscuro e dilaga/ tra i muri passeggeri e sgretolati/ dove ognuno è solo il suo andarsene”. L’oscurità ci tiene in ostaggio, il nostro difenderci assomiglia a quello delle talpe, affidato all’inconscio della tana con tutti i suoi reagenti fantastici, eppure non mancano momenti di sollievo e di tregua nel libro, allorché, ricuperando per un attimo la condizione infantile o certi ambienti familiari, e ridando fiducia alle risorse del canto e dell’epopea, possiamo ascoltare “il cielo che nasce in ognuno di noi”.

    De Angelis sa che, come la poesia contemporanea ha attestato innumerevoli volte, esistono zone dell’esperienza negate alla rappresentazione piena (“Non esiste un cerchio in cui fermarsi, un nome/ pieno da ribadire sulle labbra”), rischiarate perciò solo da brevi ed effimeri bagliori e descrivibili attraverso percorsi enunciativi crivellati, cosparsi di parole in frantumi. “Sillabe disperse”, la “sillaba che ci chiama dai sotterranei”, “un impasto di frasi sull’asfalto”, dove il paradigma rimane quello, vero e proprio sigillo di un’età culturale non ancora compiuta, della “storta sillaba” montaliana.

    L’investimento obliquo della parola, invitata da De Angelis a condividere “le oscure cantine” della condizione esistenziale, corrisponde a un esercizio verbale che si affida alle seduzioni dell’ellissi e alle ripetute modifiche di prospettiva, fino a ottenere accostamenti insoliti di immagini e incrinature dell’ordine spazio-temporale. Di questo stile rappresentativo spaesante, talvolta visionario ma che sa anche fare appello alla concretezza (una concretezza di secondo grado, per intenderci) .

    De Angelis è stato un maestro soprattutto nelle opere precedenti, come “Millimetri “(1983) e “Distante un padre” (1989). Nella presente raccolta i toni appaiono addolciti dal ricorso a una dizione meno aspra, incline a una certa armoniosità, come si può rilevare dalle” Canzoncine” che costituiscono l’ultima sezione. Ma questo va messo sul conto di un’evoluzione naturale. Raggiunto il massimo punto di tensione, il linguaggio poetico non può che distendersi, ripristinare configurazioni più compatibili con l’espressione quotidiana.

    Gilberto Isella

  • La ringrazio, Signor Borletti, per il saggio di Sebastiano Aglieco. Aglieco è ottimo critico e ottimo poeta, non solo a parer mio, ma forse con un eccesso di simpatia per Milo De Angelis. Forse si vuole compensare l’eccesso di antipatia che si nota in Linguaglossa? C’è un problema, comunque. e mi rivolgo a lei: non riesco a trovare sul web lo scritto di Gilberto Isella. Mi può fornire, gentilmente, qualche indicazione più dettagliata?

    Marco Azzolini

  • Grazie @Nicola per voler saggiamente smorzare i toni.
    Qui non si tratta di aver torto o ragione: la ragione è dei fatti, delle cose, non delle loro interpretazioni, cioè nostra.

    Detto questo, ritengo che le opinioni di tutti abbiano tutte la medesima dignità. La questione è la prospettiva con cui si accompagna e su cui si poggia l’atto della lettura – ricordiamolo, altrettanto artistico che quello della scrittura. Se ciò è vero, qui è come se ciascuno stesse discutendo sulla versione finale da dare ad una poesia comune, il che lascia il tempo che trova.
    A ciò si aggiunge il fatto che ogni operazione artistica racchiude in sé, nel suo nucleo, l’ossessione da cui sprigiona che appartiene a chi l’ha portata a termine. Tale ossessione non sempre è condivisa: alcune volte non viene percepita, altre viene ipercondivisa.

    Se escludessimo in qualche modo tutto ciò ed entrassimo nel merito di ciò che è stato detto da De Angelis e il come, ovvero se entrassimo nel merito dello stile e del linguaggio, personalmente intravvedo un certo drammatismo mieloso anacronistico e non più sufficiente a leggere gli eventi che accadono ora, oggi, con lucidità.
    Non sto dicendo che la poesia di De Angelis faccia schifo – non siamo su Facebook. Sto solo dicendo che il piacere che provo leggendo “Quell’andarsene…” è simile – forse troppo – al piacere che posso provare per il mobiliario vintage, o le foto in bianco e nero, o un pezzo d’antiquariato o una donna d’altri tempi. È un piacere, cioè, mediato da una serie di costrutti e sovrastrutture socioculturali che lo rende effimero, privo di lucidità, a volte retorico.
    Ovviamente, ci tengo a dirlo, questa non è la verità ma il mio modo di vedere le cose. Credo anche che molto di quanto stiamo dicendo abbia a che vedere con l’esposizione a certa poesia piuttosto che a cert’altra – cosa da non sottovalutare.
    Dunque si sta parlando della bontà della poesia di De Angelis per me (e tutti gli intervenuti) piuttosto che della bontà della poesia di De Angelis in sé.

    Quando qualcuno si è chiesto cosa ne pensassero gli altri redattori di P2.0, avrei voluto volentieri portare l’esempio di Sebastiano Aglieco, ma vista la piega che stava prendendo la discussione ho preferito non farlo per non tirare in ballo chi non vuole o non può ballare.
    Siccome però qualcuno si è accorto della predilezione di Sebastiano per De Angelis, allora mi sembra più opportuno parlarne. E ne parlerò così: la poesia di Sebastiano, per esempio quella di Giornata letta ultimamente, è sicuramente il risultato di una ispirazione senza epigonismo rispetto a De Angelis. Diciamo che condividono la prospettiva, forse qualche ossessione o più semplicemente la dimensione quasi-religiosa all’interno della quale vivono tale ossessione. Però per molti versi trovo la poesia di Sebastiano nettamente superiore rispetto a quella di De Angelis. Ci sono dei passaggi in Giornata davvero memorabili; una trasversalità dell’esperienza rispetto a tutti i pronomi che tocca tutti: chi scrive, chi legge e chi non legge.
    Ora, se rientriamo un attimo in ambito critico ed entriamo nel merito del detto e del suo stile, mi chiedo nuovamente cosa ci sia di male nel criticare il libro di un grande poeta, suggerendo ai lettori di investire il loro tempo nella lettura di un altro poeta che possiede la stessa forza, condivide la prospettiva o atteggiamento di De Angelis ed ha scritto una raccolta superiore però meno nota.

    Luigi B.

  • Vorrei smorzare i toni, visto che Canciani e Francisci continuano ad accapigliarsi, in modo ormai stucchevole. Propongo il saggio che Sebastiano Aglieco – uno dei redattori di Poesia 2.0 – ha scritto sull’ultimo libro di Milo De Angelis. L’ho apprezzato. Mi sembra uno dei migliori tra quelli che si possono reperire facilmente in rete, insieme a Gilberto Isella e Lorenzo Chiuchiu. Ne propongo la parte iniziale.

    Nicola Borletti

    CI FRASTORNA QUESTA FURIA DI VOCI
    Alcune ricorrenze nella poesia di Milo De Angelis
    insegnatemi il cammino, voi che siete
    stati morti, attingete la nostra
    verità dal pozzo sigillato, staccatevi dal tempo
    e portateci oltre le tragiche colonne
    tra i fari dei camion e un piumino
    getteremo le più alte
    astrazioni in un sussulto di fiammiferi,
    torneremo a casa, vi diremo.

    Si conclude, dunque, con un ritorno, questo nuovo libro di Milo De Angelis: Quell’andarsene nel buio del cortili, Mondadori 2010. E’ scritto in una stagione della vita che ha travalicato le porte dei sussulti e delle domande ma che, piuttosto, si rivolge alle ombre con uno sguardo riassuntivo, sostando ossessivamente nell’idea di una ripetizione destinale. Sono poesie che abitano ancora il cono d’ombra del libro precedente. Lì si invocava l’addio, la distanza necessaria, delle ombre, dal nostro non poterle più contenere; qui un pensiero portato avanti, come, invece, a volerle raggiungere col passo attardato e un po’ stanco del pellegrino; rendere le armi con onore: perchè «ognuno è solo il suo andarsene», disposti, ora, a imparare qualcosa, «siamo i supplici/rimasti ad ascoltare».

    Se dovessi riassumere tutta l’avventura poetica di Milo De Angelis, sceglierei la parola compito, quel gesto feroce e necessario del portare a termine a tutti i costi e che ereditiamo fin dalla nascita per statuto ontologico della specie: «sentirai ogni battito del tuo cuore/come un piccolo dovere», anche subendone l’irrazionalità; gesto che non ha niente a che fare con la concatenazione delle cause e degli effetti, debito e resa, perdita e ricavo, ma rilevante solo perché è la consegna.

    «Adesso tu/devi tradurre». Che cosa tradurre? Non si tratta di responsi, vaticini, certezze da interpretare, ma sillabe per le quali trovare un ordine provvisorio. Pur ammettendo l’inconoscibilità del reale, e che ogni cosa è sottomessa a una legge oscura e precisa, a un vero ordine riconosciuto, il poeta non può sottrarsi alla ripetizione del gesto – che è la sua stessa parola – altrimenti, scrivendo, scriverebbe compiutamente una sola volta, e per sempre. Le voci si presentano, invece, sempre, ossessive. Non sono mai acquietate. Il vero nome che si cela dietro ogni nome, è la necessità di dover ricominciare ogni volta, proclamando la grande luce oscura del segreto e ribadendo l’impronunciabilità di ogni verità. Ciò che splende allora, è la voce strozzata, la ferita, le parole offerte al grande Nulla, come se scrivere non fosse altro che questo gesto paradossale del ribadire, del rinascere tutte le volte alla necessità di una medesima dichiarazione.

    L’opera di Milo De Angelis è tutta tesa al compito – attraverso la ricerca inaudita di una pronuncia esattissima – di accorciare lo scarto di tempo che separa le parole dalle cose. Perché ciò che esiste veramente, in realtà è già accaduto e noi possiamo solo celebrarne il precario, doloroso splendore. La parola è sempre tesa, fino al rischio della rottura, «l’idea/e lo scisma nell’idea»; cioè l’ammutinamento all’interno della stessa fortezza mentale.
    Sebastiano Aglieco (da La Mosca di Milano n. 23)

  • Signora Canciani, suvvia! Ancora una volta lei perde il controllo. Vuole avere sempre l’ultima parola? Se la prenda pure, si accomodi. E’ l’ultima volta che le rispondo. Non ci casco più. Lei è una boccia di veleno. E poi sempre a parlare della sua età. Sembra una donnetta dei suoi rotocalchi femminili, quelli che lei cita ogni due righe. Abbiamo capito che non le gusta Milo De Angelis: nemmeno un libro, nemmeno una poesia, nemmeno un verso, nemmeno una parola. Va bene. Faccia pure. Non me la prenderò per così poco. Adieu!

    Elena F.

  • Ho visto che è facile trovare in rete numerosi interventi sull’ultimo libro di Milo De Angelis, “Quell’andarsene nel buio dei cortili”. E ho visto anche che uno di questi, particolarmente notevole, porta la firma di Sebastiano Aglieco, redattore di Poesia 2.0. Più difficile reperire gli interventi su rivista. Così ho pensato di trascrivere (in parte) uno scritto di Stefano Verdino apparso “Poesia”. Verdino, come sapete, è uno dei nostri maggiori critici, studioso serissimo della poesia attuale, curatore del Meridiano di Mario Luzi e conoscitore, fin dagli inizi, dell’opera di De Angelis. Credo che abbia un senso riproporlo qui, dal momento che tocca alcuni nodi della discussione in corso e vi introduce una nota lontana dal pregiudizio.

    Nicola Borletti

    “Quasi sempre, leggendo i versi di Milo De Angelis ho avuto un trasalimento, ne sono a un tempo affascinato e spiazzato, tanto da trovarmi fuori di un comune sentire, subito dentro una lingua così forte e convincente, da creare un mondo. Ad ogni nuovo libro, da oltre trent’anni, si rinnova – fedele e diversa – questa particolare esperienza, che credo condivisa da non pochi lettori, che ben sanno che Milo De Angelis è uno dei grandi poeti del nostro tempo (….) Ma il sortilegio di questa poesia sta nel suo statuto così ineguagliabile, e mi spiego: il tono è ultimativo, da congedo, addirittura, ma non vi è patetismo o commozione, vi è solo un procedere nelle modalità di un referto, che ci fa intendere l’ineludibile darsi di un linguaggio denso di significato come di annunci, a partire dall’incipit “E’ tardi / nettamente”. Già in queste tre parole ritrovo la strategia di una personale elaborazione di poesia, perché il combinare una canonica espressione d’avviso (spesso allarmato) come “E’ tardi” con quell’imprevisto connotatore avverbiale di “nettamente” stronca appunto ogni possibilità di patetico (“E’ tardi” era anche il grido di Violetta nel melodramma) e configura l’intera espressione in un particolare ambito dove l’emotività e la passione si combinano con un esito di astrazione. Ed il tutto avviene in una lingua comune e ordinaria, dove al poeta basta poco, da una combinazione imprevista, a un gioco metaforico (sempre meno pesante e più sottile nel decorso delle raccolte), a un tragitto intransitivo della frase per costruire appunto un mondo”.

    Stefano Verdino (“Poesia”, ed. Crocetti luglio 2010)

  • alla signorina Francisci (e ai suoi giovani colleghi) che si ostina a scegliere il peggio della poesia di De Angelis, come nella poesia che lei cita, e che riporto qui sotto, non posso non chiedere: non si accorge delle note stonate, dei toni al di sopra del pentagramma, delle stecche con la voce strozzata, degli acuti infarciti di strida di cui e piena questa poesia? rileggiamola:

    Il ragazzo che si tuffa
    in un crawl potente e urta un sasso…
    …la ciocca insanguinata…
    …la giovinezza prese la forma
    di un passo oscuro, di una rosa
    appesa alla finestra
    “salvami, padre, da quest’ora dolorosa”
    la gente saliva, scendeva, cercava
    una fune, una cosa
    qualsiasi, sputava, gettava in aqua
    il suo fazzoletto, ciascuno
    parlava all’orecchio
    di un altro, diceva
    Dio non ha più desiderio,
    una volta aveva freddo, Dio, tendeva
    le mani per indossare
    un cappotto, il primo, anche questo
    che è vecchio, guarda,
    toccalo, tienilo pure…
    un cappotto, capisci, non i velluti
    scesi dal cielo, ma questo,
    il mio, persino il mio cappotto.

    come non rilevare la retorica di quella “rosa appesa alla finestra”, quel dramma da rotocalco del ragazzo che si tuffa e sbatte la testa contro qualcosa di solido e si rompe la zucca… come non notare la retorica di “un cappotto… che e vecchio” etc., come non rilevare lo stile:un micidiale guazzabuglio di letterine del cuore al sig. direttore di “Amica” e di “Oggi” (tutti rispettabili giornaletti femminili che assolvono la nobile funzione dello stupidario di massa)… come non rilevare la pseudo intimita tra l io e il tu condita con postremi frasi pseudo intime irrigate da accattivanti e gratuiti “sputava” tanto per condire con lemmi ad effetto i finti drammi del cuore e della zucca rotta del protagonista nella poesia citata… come non rilevare che tutta la composizione e manifestamente forzata, inflazionata di asperrime angosce di indicibili existenze, tutto quello pseudo giovanilismo che fa buon gioco e trucca le carte dinanzi a giovani sprovveduti di studi di letteratura? Come non rilevare tutta la forzatura lessicale e semantica dl dramma (inesistente) che si lelebra sotto gli occhi del lettore?

    E poi una precisazione per Roberto Bertoldo che so studioso serio e profondo: se ho commentato una poesia del Nostro e perche la poesia in questione era stata citata da altri come capolavoro del Nostro, e quindi era mio diritto commentare il testo di quella poesia… e se mi permetto di esprimere il mio punto di vistasu cose di poesia, lo faccio perche ho sulle spalle 50 anni di letture in tal campo e lo faccio grazie alla mia eta non piu giovanissima e per mettere in guardia il Nostro: al posto suo io non mi sentirei obbligato a pubblicare un libro ogni 3 anni se non ho nulla da dire, al punto in cui e giunto De Angelis sarebbe preferibile un sano silenzio a infelici pubblicazioni…

  • Scusate, sono Marco Azzolini . Ho seguito la discussione su De Angelis, compresi gli ultimi interventi. E ho apprezzato due cose. La prima è il discorso di Roberto Bertoldo, che fa il punto con il suo valore consueto su Milo De Angelis e Alfonso Gatto, analogie e diversità. La seconda è lo scritto di Elena Francisci, impressionante per intelligenza e penetrazione, essendo tra l’altro lei così giovane. Ringrazio poi la medesima Francisci per la poesia, “Idroscalo”, che mi ogni volta mi sorprende con il suo tono basso di parlato e la sua tensione metafisica. Un parlato di poveri cristi suburbani. I quali però, di fronte alla morte di un ragazzo nel bacino artificiale di Milano, imbastiscono un dialogo celeste e concretissimo con dio, con le sue colpe. e con le proprie! “Una volta aveva freddo, dio!.”. Solo una cosa vorrei ricordare alla Francisci. Ed è questa: c’è una poesia del libro “Biografia sommaria” che mi pare importante per capire meglio quella da lei esaminata poco fa. Si trova a pagina 230 dell’Oscar Mondadori, curato da Eraldo Affinati nel 2008, e si intitola “Nel cuore della trasmissione”. Racconta anch’essa di un uomo imprigionato, un uomo sanguinante chiuso in un dormitorio, non troppo diverso dall’uomo notturno dell’ultimo libro,. Non dico altro. Ecco la poesia, con un saluto a tutti voi lettori.:

    Di sera ti sanguina la bocca
    e ti aggiri frenetico
    nel cerchio della tua necessità
    nel dormitorio senza finestre
    mentre interi popoli guardano
    i bei quadri, tu
    rivedi i passi giovanili
    con gli occhi sbarrati della fine:
    non l’idea reggente, ma quell’immobile
    raffica che ti esige fino all’ultimo,
    ti chiede l’esatta versione e l’esatto
    andare a capo, te lo chiede interamente
    mentre ti aggiravi a un centimetro
    dai corpi ed eri ciò che resta muto
    quando due si lasceranno
    quanta poca vita rimane in un saluto
    tu eri questo.

  • Gent.ma Francisci,

    davanti a un atto d amore e di fede cosi appassionato e ingenuo non ho parole. manca soltanto il CD con la musichetta

  • “Ho saputo, amica mia…”. L’ abbiamo letta tante volte, nel nostro gruppetto, questa poesia di Milo De Angelis. Io, devo dire, non mi stanco mai di leggerla. E’ una poesia tragica. Mi ferisce a sangue. E mi conduce in un limite, come l’amica a cui è dedicata. Attenzione: qui non si tratta di “giungere al limite”, ma di entrare in questo limite. Trascorrere la notte, addirittura, in un limite. Non si può uscirne illesi. E’ qualcosa che Milo De Angelis deve avere provato. Ne parla sempre. Ma mai come in questo libro, che io giudico il suo più grande con” Biografia sommaria”, si intuisce l’origine naturale e insanabile della lesione. Il tragico, appunto. “Ho saputo, amica mia,/che sei stata in un limite”. Non sappiamo da chi giunge la notizia, non sappiamo dove o quando. E’ avvenuto, naturalmente e per sempre. Ed è avvenuto a un’amica. Fermiamoci un attimo. Non a una moglie, a un’amante, a una figlia. No, a un’amica. Solo l’amicizia ha lo sguardo impietoso che perfora. Solo a lei si può dire la verità. Questo è tipico di De Angelis e delle sue compagne di giochi, di gare, di squadra. L’amica valorosa. Valorosa e trafitta. “Ho saputo, amica mia”. La notizia è giunta. Partiamo da qui. “Anch’io/negli intervalli di una sola e grande morte”. Ecco, a poco a poco, si squarcia il velo. “Anch’io”. C’è un uomo assediato dalla morte, che può respirare solo nelle brevi pause concesse. Può parlare soltanto negli intervalli di questo demone, grande e unitario, conosciuto con il nome di morte. “Anch’io dormivo tra i casolari/dove si raccolgono d’inverno”. I casolari. Immagine di campagna, rara in De Angelis. E per di più immagine invernale, anch’essa rara negli ultimi libri. “Dove i pazzi si raccolgono d’inverno”, era scritto in una precedente versione su rivista. Scompaiono i pazzi. Troppo facile. Ora non sappiamo più chi sono gli abitanti. Ma ci sono. Si raccolgono lì e ci riguardano. Hanno la parola disunita e qualcosa di troppo fitto nell’idea. Disunita. Non vuol dire solo divisa. “Divisa” mostra le parti già separate, l’amputazione già eseguita. “Disunita” mostra invece l’unità perduta da poco, ancora visibile. Le idee si urtano in uno spazio angusto. Non si distendono. Non si spiegano, in ogni senso, come si dice delle ali e come si dice di un discorso. Ma proprio lì, in quel casolare, avviene qualcosa. Non sappiamo esattamente cosa e tantomeno se giungerà a realizzarsi. Tutta questa poesia è mossa dall’ incompiuto. Perfino gli endecasillabi non si compiono, sfiorano il numero giusto ma non lo centrano: ipometri o ipermetri, proprio come il titolo del libro, “Quell’andarsene nel buio dei cortili”. Dunque avviene qualcosa: un antico profumo di passito, come l’uvetta dei dolci, un odore festivo di compleanno, solenne come una nevicata. “La neve dell’incontro ha percepito/la mia notte nella tua”. Anche qui dobbiamo stare accorti: il poeta non dice “attuato” o “congiunto”. Non è detto che avvenga, questo incontro tra le due notti. Per ora è stato “percepito”. E anche noi rimaniamo così, sospesi, nell’imminenza. Detto per inciso: sono sempre stata impressionata da questo participio, “percepito”. Che non è “sentito” o “provato”, ma qualcosa di più netto, di più oggettivo, come quando una pantera percepisce nella notte la presenza di un’altra pantera e si mette in ascolto con le orecchie tese. Milo De Angelis, l’ultima volta che è venuto in Toscana, ci ha parlato di come è stato difficile arrivare a questo verbo. “Avevo bisogno di un participio passato della terza, possibilmente non breve, per mie ragioni ritmiche…e per qualche giorno mi sono spaccato il cervello. Niente da fare. Alla fine l’ ho trovato su un vecchio rimario: per-ce-pi-to, quattro belle e lunghe sillabe”. “Su un rimario?!?”, ho chiesto un po’sbigottita. “Sì, su un rimario, scusate, ma è successo così…mi è successo proprio questo”.

    Basta, mi sono dilungata a dismisura. Prometto che non scriverò più! Perché mi piace questa poesia? Perché è classica e dilaniata. Non trema, ma dice il terremoto segreto di chi è stato “in un limite”. Perché c’è una costruzione severa (pensate all’alternarsi di passato prossimo e imperfetto, ossia di attuale e leggendario) che lascia tuttavia intravedere il suo crollo, la sua parte indifesa e indifendibile, mortalmente ferita. E poi, insomma, lasciatemi in pace: una poesia è una poesia, una poesia, una poesia.

    Elena Francisci

  • Ah, dover rispondere ancora! Va bene, sia. Alla giovane (sbaglio?) ed entusiasta (non sbaglio) Francisci dico che non ero certo a Rimini per spiare De Angelis (più semplicemente a trovare amici, che mi hanno portato a castel Sismondo – dove ho sentito anche altro, quel sabato, degno di censura o di plauso) e che non gli applausi al poeta De Angelis mi hanno disturbato, ma gli applausi di acquiescenza al nome pubblico De Angelis. Se la ragazza (sbaglio?) non capisce la differenza, pazienza… A me, De Angelis non è mai piaciuto. Posso dirlo senza sentirmi squalificato o tacciato da demente? Che piaccia a molti e molti epigoni della sua scrittura… beh, mi dispiace, ma è un loro diritto. Evidentemente non hanno letto abbastanza per capire certe differenze di qualità, quantità ecc., fermandosi solo là dove l’apparenza più risalta e si esalta (ma inganna, come si sa). Posso dire che Sanguineti non mi piace? Posso dire che mi piace Palmery (che De Angelis, certo, conosce, mentre la giovane pulzella, credo, no). Posso dire che mi piace Dalessandro (idem), o Pontiggia, o Goroni, o…, o… (altri nomi potrei fare che la giovane Francisci o il giovane – sbaglio? – Borletti non sanno, è probabile, chi sono). Ma questo cosa prova? Per la poesia in sé, valori a parte, quasi niente. Per la cronaca, che la maggiore notorietà di De Angelis lo porterà sempre a primeggiare sugli altri nomi fatti, ma neanche questo conta molto, mi pare. Ancora una volta ha ragione il buon senso (se egli – ah vedete, io sono uno che scrive ancora “egli” – me lo permette) di Bertoldo. Quanto a Luigi Bosco, non mi pare che si possa censurare in alcunché. Viva l’understatement, dunque. D.M.

  • Certo, giudicare un poeta da una sola poesia o una sola raccolta è sicuramente un giudizio incompleto, ingiusto anche.
    Però, per capirci, visto che qualcuno lamentava l’assenza di critica verso altri poeti più nell’ombra (un classico, insomma), è necessario creare dello spazio per questi, evitando ai poeti laureati di vivere di rendita. Così, quando un ottimo poeta come De Angelis scrive una raccolta mediocre, non mi sembra eccessivo dirlo e non mi sembra scorretto suggerire di investire il tempo nella lettura proprio di quei poeti meno conosciuti.
    Sempre per capirci:

    C’è un passare di gente,
    di visi in vetrina e sotto i portici
    l’arco più basso delle labbra.

    Non è l’inverno ad abbottonarla,
    mi convinco, se i cappotti
    stringono i gesti a farli simili
    a un viale senza deviazioni;

    sarà la paura di urtarsi
    pari al desiderio di urtarsi,
    sui marciapiedi un vestirsi a sorriso
    che più eccede e più lascia

    nudi: così, per non sentirci
    assenza o incrocio mancato,
    gente a passarsi in mezzo,
    in vetrina, a passare, a non conoscersi.

    Questa poesia e questo poeta (Davide Castiglione, critico anche) sono sicuramente di impostazione deangelisiana e allo stesso tempo una sua evoluzione: la complicità c’è, ma non è una complicità ruffiana poiché sorge inevitabilmente dalla condivisione di circostanze comuni e soprattutto riconoscibili al minimo livello interpretativo.

    Lo stesso vale per la Carnaroli (anche se qui cambiamo assolutamente di “genere”, di atteggiamento):

    tredici luglio uccide

    la sua Ex l’amico

    poi si toglie

    la vita

    dramma della

    gelosia

    nel c

    eri davanti all’agip e non dovevi fare benzina stavi con lui

    stavi abbracciata e io ho fatto a metà

    come si fa con le pasticche del cuore

    mezza la mattina e mezza all’inferno

    sei caduta come l’olio

    che muore piano sugli scalini resta

    trattiene il pianto gli urli il vaso di gerani

    si vede se c’hai il malocchio le fatture i gambi di finocchio

    sotto il letto

    se c’è il sole

    frigge la tua penna di porca

    madonna sul portone

    gli angeli di cemento si staccano a pezzi

    piovono sull’erbetta

    Ovvio che De Angelis ha scritto anche delle ottime poesie, ma mi è sembrato inutile sottolinearlo.

    Luigi B.

  • Signorina Francisci,
    se invece di pronunciare insulti a me e a Linguaglossa lei volesse commentare la poesia CHE LEI HA PROPOSTO gliene sarei grata. Ci dica qual e il suo pensiero, cerchi di argomentare il suo “meraviglioso” con qualche considerazione di ordine prosodico, metrico, metaforico, ritmico, simbolico etc. non basta sbandierare una manifestazione d amore e una adesione fideistica condite di insulti ma dovrebbe cercare di spiegare, a noi lettori digiuni di poesia, le sue ragioni critiche (se ne ha e se ne e capace). qui non siamo come nel campionato di calcio dove ci sono i tifosi delle varie squadre, qui si cerca di ragionare con considerazioni critiche mettendole a confronto, se lei non e capace di usare questa doverosa cortesia ma si lascia fuorviare dagli insulti alle persone e dal rancore verso l esercizio del pensiero critico (che tanto la infastidisce), allora, lasci che glielo dica, non e degna di entrare in un dibattito critico che deve avere alla sua base il rispetto per le ragioni esposte da altri interlocutori.
    A lei la parola dunque.

    quanto al signor Borletti,
    il quale stigmatizza che una redazione “stronchi” il poeta proposto dal sito, mi chiedo se lui ritiene intoccabili (come i santi in paradiso) gli autori proposti e se essi siano coperti dal dogma dell infallibilita per cui non debbano essere sottoposti che a una visione salvifica ed edificante. Forse per il Borletti l esercizio del pensiero critico e piu simile alla pratica dell eresia? veramente tempi cupi davvero questi dove una folla di epigoni si accalca e scalpita in difesa dei propri “santini”… e sguaina la scimitarra in difesa dell ortodossia!
    al signor Borletti vorrei ricordare che un testo di poesia (di chiunque sia) una volta pubblicato e sottoposto alla elementare regola democratica delle opinioni critiche che possono essere, come Lei sa, le piu diverse e disparate… E anche per Lei vale quanto detto per la Francisci, se ne e capace, cerchi di argomentare la sua opinione critico fideistica nei confronti del Nostro.

  • Le critiche che ho sentito in questi anni su De Angelis (tra i tanti apprezzamenti, per fortuna) mi ricordano un po’, sia pure per motivi differenti, quelle che ho sentito negli ultimi vent’anni su Alfonso Gatto. Gatto, nello specifico, è stato giudicato da alcuni ampolloso, melodrammatico, vuoto, ecc. Gatto parlava con la sonorità, è stato un cantore eccezionale, ha scritto uno dei libri più ‘forti’ sulla guerra, quella “Storia delle vittime” che fa vibrare corde poetiche inusuali, tra l’ermetismo e il surrealismo. Amai per molti anni Gatto, pur senza condividerne lo stile, ne divorai i libri più e più volte. Ebbene, oggi lo trovo superato. Ma è normale, un poeta che legge va sempre oltre, dopo aver digerito ciò che ha letto e amato, come direbbe Eliot. Ma Gatto, per me e qualcuno della mia generazione, e De Angelis, per qualcuno delle generazioni successive, restano, come sono rimasti Ungaretti, Montale, ecc., ed è giusto così. Ci si può lamentare che magari altri altrettanto importanti non sono rimasti e altri che non sono visibili, ma niente di più. Bisogna dunque rispettare De Angelis e i suoi lettori, ci sono poeti per tutte le sensibilità e per tutte le intelligenze, del resto non siamo noi a fare la storia della letteratura e non dobbiamo neppure ritenerci all’altezza di poterla fare. Riguardo alla poesia di De Angelis, come ho già detto, qualche riserva ce l’ho, ma l’apprezzo e d’altronde non ritengo giusto giudicare una poesia estrapolando singoli versi: facendo così in ogni poeta si possono trovare tanto apparenti banalità quanto vere o finte profondità. Il giudizio sulla poesia, più di quello su altre espressioni letterarie, anche se onesto risente sempre troppo, positivo o negativo che sia, del livello di sensibilità, intelligenza, preparazione, confidenza con la scrittura, ecc., di chi la valuta. E questo livello non è mai quello di chi la scrive, è sempre più alto o più basso.

  • Perché non chiudiamo (o riprendiamo) con le parole del poeta? C’è un’altra poesia di Milo De Angelis(da “Biografia sommaria”, 1999) che mi ha sempre colpito e che ora vi propongo:

    IDROSCALO

    Il ragazzo che si tuffa
    in un crawl potente e urta un sasso…
    …la ciocca insanguinata…
    …la giovinezza prese la forma
    di un passo oscuro, di una rosa
    appesa alla finestra
    “salvami, padre, da quest’ora dolorosa”
    la gente saliva, scendeva, cercava
    una fune, una cosa
    qualsiasi, sputava, gettava in aqua
    il suo fazzoletto, ciascuno
    parlava all’orecchio
    di un altro, diceva
    Dio non ha più desiderio,
    una volta aveva freddo, Dio, tendeva
    le mani per indossare
    un cappotto, il primo, anche questo
    che è vecchio, guarda,
    toccalo, tienilo pure…
    un cappotto, capisci, non i velluti
    scesi dal cielo, ma questo,
    il mio, persino il mio cappotto.

  • Senza animo di offendere nessuno, però bisognerebbe imparare a leggere l’italiano spicciolo come il mio prima di spingersi verso mete più impegnative quali la poesia.

    Da nessuna parte mi pare ci sia scritto in Poesia 2.0 né da nessuna parte mi pare di aver detto o scritto nulla di simile a ciò che mi si rimprovera; nello specifico:

    – non credo di aver detto o scritto che non si può stroncare un poeta che si presenta; di De Angelis c’è una monografia in cui si raccolgono varie opinioni di vari autori tutte valide: che ciascuno scelga la più affine ai propri pensieri.

    – non credo di aver detto o scritto che gli altri della redazione sono d’accordo con me; se lo sono o meno, io non posso saperlo, io sono Luigi Bosco e parlo a mio nome, nome che è in calce al mio commento. Gli altri se vorranno dire la loro lo faranno. Ad ogni modo, la presenza di articoli contenenti giudizi anche molto distanti tra loro su di uno stesso poeta è indicativo del fatto che in questo posto sono benvenute quasi tutte le opinioni, che non è raro siano diverse a partire proprio dai membri della redazione.

    – non credo di aver detto o scritto che P2.0 è mia;

    – non credo di aver detto o scritto di voler tirare le somme; piuttosto, mi pare di aver espresso esattamente il contrario dicendo che è ciò che io penso senza pretese critiche.

    Ora, vedendo l’elevato livello interpretativo di alcuni partecipanti alla discussione, inizio a pensare che è forse questo il mio limite che mi impedisce di percepire nella poesia di De Angelis personalmente letta fin’ora tutto quanto altri hanno percepito.

    Ad ogni modo, vorrei sottolineare che nessuno degli ultimi tre commentatori è entrato nel merito del detto; uno timidamente ha cercato di inserire almeno qualche riferimento a ciò che ho scritto, limitandosi a definirli un modo di “troncare la discussione” – a mio modo di vedere siamo lontanissimi dalla pratica critica, cosa che scoraggia il discorso o il dialogo prima immaginato forse a causa di una svista.

    Nel frattempo, mentre cerco altri tremila esempi di poesia e prosa in cui la vita è stata definita metaforicamente intervallo della morte durante gli ultimi 200 anni, qualcuno di buona volontà che mi spieghi quando e dove ha sentito profumo di uva passa e mi dica a che somiglia lo troviamo?

    Luigi B.

  • Ho seguito in disparte il dibattito su Milo De Angelis. Non è il primo, lo so, ma è sempre bello. Trovo però imbarazzante l’intervento di Luigi.B, che vorrebbe dire la sua senza nemmeno avere letto il poeta. E poi come si esprime costui? L’esempio del ragazzo che gonfia il petto o del sommeiller sono ridicoli. Luigi B. vuole tirare le somme. Ma a me sembra l’uomo della strada, il dilettante, il pappagallo.

    Marco

  • Sono d’accordo con Borletti. Ma a nome di chi parla Luigi Bosco? Poesia 2.0 è di sua proprietà?

    Elena Francisci

  • Scusate, ma è inaudirto! Sto parlando dell’intervento “conclusivo”. Mai vista una redazione che stronca il poeta che proposto! Dapprima lo introduce con il saggio più negativo tra tra i tanti usciti sul web . Poi tronca la discussione, utilizzando espressioni come “bagliori artificiali” o “sentimenti posticci”. Ma gli altri della Redazione sono d’accordo su Milo De Angelis e su questa maniera di presentare un poeta? Persone come Aglieco, Travi o Ermini sono d’accordo? Scusate, ma sono sbigottito!

    N.B.

  • Circa la questione deangelisiana: non conosco (non ancora) l’opera omnia del poeta, dunque non posso spingermi in paragoni tra passato e presente. Posso però valutare ciò che ho letto in sé, nel qual caso mi vedo costretto a dar ragione a Linguaglossa.
    La complicità che De Angelis cerca di insinuare al lettore con fuochi d’artificio, bagliori artificiali e sentimenti posticci mi pare evidente: se non è brutto e/o inaccettabile in sé, mi pare quantomeno un anacronismo continuare ad usare certi espedienti poetici per far colpo come l’adolescente che gonfia le spalle quando vede passare una bella ragazza.
    Prendendo proprio spunto dalla poesia proposta da Francisci, mi sembra eclatante la compulsione del poeta che vuole a tutti i costi affascinare il lettore, cercandone la complicità (“amica mia”) ed avvolgendolo in un profumo antico di neve e uva passa – che è un po’ come quando un sommelier di vini dice che sa di sandalo e allo stesso tempo sa che nessuno ha capito un cazzo anche se applaude. Un applauso che, in una circostanza del genere, somiglia più ad un atto di fede che ad un apprezzamento cosciente.
    Con tutto quello che sta succedendo nel mondo e, quindi, in poesia, continuare ad insistere sull’uva passa, la neve e l’intervallo della grande morte mi sembra un esercizio stilistico simile ad un titillamento aristocratico.
    Ovviamente, questo è solo un parere, uno dei tanti, senza alcuna aspirazione critica (intesa accademicamente), ma solo con l’intenzione di esprimere un gusto o una direzione del gusto. Sulla critica, sono d’accordo con Bertoldo.

    Ad ogni modo, indipendentemente dalle ragioni e dai torti di De Angelis e Linguaglossa, credo che non siano da sottovalutare 20 commenti ad un post pubblicato in un blog di poesia dove di solito non commenta nessuno, per giunta in pieno agosto. Magari, al di lá di De Angelis, ciò significa che se uno ha davvero qualcosa da dire e la dice senza girarci intorno, un discorso è possibile. Forse addirittura un dialogo. Pensiamoci.

    Luigi B.

  • non è un delirio [io credo]: è un’opinione, anche spiegata.
    non è patetico [io credo]: ha il pathos. per il poco che vale questo poco *mio*, dal cuore delirante di una vita che vorrebbe essere “imperiale” e si sta solo dissociando…

    è che si vorrebbe da un poeta che fosse un dio della poesia, e che lo fosse sempre, e che me avesse i tratti prima magnetici e poi aberranti del *viso* di Artaud, e la voce incerta di Celan e di Rosselli – un dio, anche incondito ma un dio della poesia, e poi – ovvio – il non riconosciuto legislatore ecc. – e non riconoscerlo, non poterlo più riconoscere fa male [io credo]. e detto l’ho perché doler *mi* debbia!

  • Ringrazio Elena Francisci. Anch’io ho trovato assai notevole la poesia di De Angelis – con quelle due creature che s’incontrano in una zona tragica dell’esistenza – e vi ritrovo la sua tipica pronuncia, misteriosa e insieme netta. Patetico invece il delirio di Laura Canciani.

  • Signora Laura Canciani, lei ha perso la testa! Sembra un’innamorata respinta!
    E poi, diamine, un po’ di contegno alla sua età! Si occupa di poesia da cinquant’anni e si esprime come una viperetta! Ma forse è la poesia che non si occupa di lei. D’altra parte la povera Signora Canciani non sfigura nel circo di personaggi che Giorgio Linguaglossa si porta in giro per le praterie del web. Non sfigura accanto a Domenico Ludovici, il quale va a spiare De Angelis a Rimini e digrigna le mascelle per gli applausi. E nemmeno sfigura accanto al rozzo e rancoroso Linguaglossa, di cui ripete supina i predicozzi, come una cagnolina obbediente. Anch’io, nel mio orticello toscano di provincia, studio la poesia di oggi. Ma sul serio. E mi accorgo che Milo De Angelis porta con sè, storicamente, passioni incontenibili di amore e odio. Dall’esordio del 1975 – con gli elogi esclamativi di Dario Bellezza e Franco Fortini – fino al recente blog di Absolute Poetry, c’è intorno a lui una pubblica passione. Lei invece, Laura Canciani, non l’ho mai sentita nominare.

  • sono contenta che sia stata la signora Francisci a scegliere questa poesia, evidentemente ritenendola una cosa, con le sue parole, “meravigliosa” quando invece a me appare penosa, con quell incipit buonista ”ho saputo amica mia” che reca il sigillo delle chiacchiere dei cuori solitari dei rotocalchi… non mi meraviglia che dei lettori non letterati possano amare certi parlari dei rotocalchi buonisti e tele genici ma non si puo richiedere la medesima adesione a delle persone che masticano letteratura da circa 50 anni. la poesia indicata dalla Francisci e l esempio di pessimo gusto per le cose di cartapesta, di rotocalco, da giornaletto per femminucce disoccupate, insomma, e un vero e proprio exemplum di tutto il corrivo e il buonismo di questi anni di terribile recessione dell intelligenza per il nostro paese. e poi quell ‘entrava un profumno di uva passa etc’, come non accorgersi che e tutto artefatto, posticcio, buonista? DAVVERO, MI CHIEDO DOVE SIA FINITO L AUTORE DI “Somiglianze”… mi chiedo come sia potuto accadere che De Angelis si sia messo a scrivere poesia per le rubriche di cuori solitari dei rotocalchi femminili…

  • “Quell’andarsene nel buio dei cortili” di Milo De Angelis è un libro meraviglioso! Nessun vortice analogico. Anzi. è’ spoglio, logico, essenziale. Leggete la poesia a pagina 20:

    Ho saputo, amica mia,
    che sei stata in un limite. Anch’io
    negli intervalli di una sola e grande morte
    dormivo tra i casolari
    dove si raccolgono d’inverno
    con la parola disunita e il fitto
    delle idee: entrava
    un profumo di uva passa e la neve
    dell’incontro ha percepito
    la mia notte nella tua.

  • il fatto e che la poesia del primo de Angelis puntava tutto sul principio del montaggio, puntava sullo choc. Ma dopo che lo choc ha perso ogni mordente, oggi, dopo 40 anni, si e scoperto che quella poesia che puntava sullo choc e sul montaggio, oggi mostra tutti i segni di “costruttivismo”, dell intervento attivo del soggetto. Oggi lo choc e diventato materiale indifferente e il costruttivismo che di quell effetto estetico faceva dogma invece suona lo strumento del piffero. Oggi e necessaria una critica del principio del montaggio e di una critica del costruttivismo. E cambiata la sensibilita e la percezione della poesia. Direi che non e semplicistico il procedimento critico di Linguaglossa ma che e semplicistico il procedimento del montaggio della poesia di de Angelis, il quale punta a stupire il lettore, punta allo choc con inversioni, ellissi gratuite, salti non giustificabili tra il soggetto e gli enunciati, abbonda di frasi nominali slegate da ogni costrutto razionale per rifugiarsi nei costruttivismi soggettivistici, dove, tutto e possibile. Diciamo che De Angelis (da Somiglianze in poi) ha vissuto di rendita per 40 anni di rendita, ha ripetuto svogliatamente gli stessi artifici retorici. Penso che sia giunta l ora anche per lui di cambiare spartito e strumenti musicali.

  • Ho trovato davvero modesta la lettura di Linguaglossa. Non si può ridurre un poeta profondo come Milo De Angelis allo schema aggettivale/sostantivale. Non si può ridurre nessun poeta a questi termini. Inoltre, a mio parere, non si può isolare un verso e accanirsi. Oltretutto Linguaglossa è semplicistico persino nella lettura di questo verso. Scrivendo “Il citofono chiede ancora la tua voce”, De Angelis ci mostra la forza degli oggetti cittadini che ci interpellano e ci domandano di tornare. Proporre di sostituirlo con “la voce chiede ancora il citofono”, come fa Linguaglossa, azzera ogni fascino e rende il verso banale. Un brutto modo, insomma, di leggere una poesia e un poeta.

    Nicola Borletti

  • la scialuppa del post-Novecento è già piena di profughi del Novecento (la Grande Nave che è affondata: ma chi se n’è accorto?), la poesia di Pasolini gronda di atmosfera nostalgico retorica (oggi certe poesie di Pasolini e non solo di lui sono illeggibili), dobbiamo chiederci: Perché? Perché la poesia di Pasolini dopo “Le ceneri di Gramsci” si apre alla retorica e al rapporto desiderante con il suo oggetto agognato: il sottoproletariato? Ebbene, vogliamo dirlo? Il sottoproletariato di Pasolini è stato un bluff, una pseudo categoria di pessimo marxismo, il sottoproletariato non è mai esistito nella Storia, è sempre stato invisibile, al servizio dei Padroni, come invisibili sono stati le centinaia di migliaia di schiavi egiziani che hanno costruito le piramidi. Si ha il sospetto che Pasolini abbia utilizzato quegli invisibili come materia di canto per la sua Musa, ma è un canto farlocco, una ipotiposi, una messinscena che oggi non mi illude più, mi annoia quella generosa retorica che abbonda nei versi di Pasolini, e mi annoia per quella visione nostalgica restaurativa che era propria al suo marxismo ingenuo e popolareggiante, così come mi annoia e non mi diverte affatto il proposito cattocomunista di un Giudici di mettere “la vita in versi”, altra guisa e altra forma per avere nei confronti del reale una visione piccolo borghese consolatoria e pacificatrice. Anche la poesia di Milo De Angelis è fondata su un concetto catartico della commozione, ancora del tutto novecentesco. ritengo che oggi bisogna esserne coscienti. Oggi bisogna avere le idee chiare, chiarissime su questo punto. Direi, per semplificare: ABOLIAMO NON IL CHIARO DI LUNA MA LA VISIONE NOSTALGICO RESTAURATRICE dei cattolici con il portafoglio ben gonfio di banconote e delle categorie marxiane annacquate da personalismi e da lirismi popolareschi. Il problema del CETO MEDIO MEDIATICO non è un problema metafisico, ma politico, reale, concreto. Dinanzi alla BALENA BIANCA della visione piccolo borghese io ritengo che bisogna essere chiarissimi: un NO PIENO E DISINTERESSATO. Di fronte alla visione del ceto medio metodista si va dritti nel buco della serratura della cultura finto progressista ma in realtà reazionaria degli scrittori di Palazzo, del nuovo palazzo populista abitato dagli inquilini dei Parioli e di via Montenapoleone. Tutto ciò neanche più mi indigna, mi annoia. Il programma oggi per un intellettuale con un etto di dignità, dinanzi allo sfascio sociale e spirituale del Paese, non può che essere di PRESA DI DISTANZA dal Ceto Medio, dal Ceto Basso e dal Ceto Alto. Distanza da tutti i Ceti e dalla Tradizione che ha esercitato l’egemonia dei Vincitori della rivoluzione telematica.
    Mi ritornano alla mente le parole del principe di Salina ne “Il Gattopardo”: “cambiare tutto per non cambiare nulla”.

  • Mi sa che gugl non ha tutti i torti.
    Inoltre, con tutto il (grandissimo) rispetto per Fortini, ho la sensazione che le distinzioni tra i rapporti predicativi (aggettivali) e quelli operativi, tra quelli grammaticali e quelli sintattici, tra quelli ritmici e quelli metrici siano confuse al punto che è davvero difficile distinguere chiaramente tra i primi e i secondi, se non in casi banali – e né Fortini né De Angelis sono banali a sufficienza.
    Inoltre (bis), per dirla sino in fondo, anche i sentimenti sono oggetti (condizioni rapporti), e l’autore di Composita solvantur lo sapeva benissimo.
    Quanto al consenso sul fondamento della commozione, nemmeno Fortini ne poteva davvero fare a meno; e le sue dichiarazioni di intenti non sembrano spiegare gran che nemmeno della sua stessa poesia, figuriamoci di quella di De Angelis – anche quando sono idealmente condivisibili (ma qual è il “sistema” di cui si sta parlando qui? e qualunque esso sia la poesia vi si deve davvero contrapporre?)
    Dobbiamo proprio buttarla via tutta, l’acqua sporca, per capire che è piena di bambini?
    db

  • Ma se De Angelis e Gualtieri sono l’espressione della tarda modernità decadente, forse è perché ci siamo dentro sino al collo: non si esce da un bosco (leggi: paradigma) cambiando strada (leggi: poetica), se il bosco ci dà l’ossigeno.

  • No, mi scusi, ho detto alias perché ho ritenuto lei fosse l’autore con pseudonimo dei “Sonetti del nostro adulterio” di cui ho letto in un blog “Compianto”. Non so dove lei veda una considerazione poco amichevole, anzi lei con chiarezza aveva spiegato il suo punto di vista che condivido, a parte la possibilità di riconoscere senza dubbio le astrazioni. Per fortuna non riesco a vedere nemici, soprattutto in chi, similmente a me, soffre di insonnia e passa le notti a leggere. Per ora le invio un caro saluto, poi le scriverò in privato.

  • Gent.mo Linguaglossa,
    a me sembra che il suo richiamo a spostare il centro di gravità del discorso poetico dai rapporti aggettivali a quelli sostanziali con il suo richiamo a Fortini (un grande maestro del Novecento) colga nel segno. Ormai siamo arrivati ad un punto di non ritorno, o meglio, di non svolta, la poesia corrente si è dissolta negli idioletti dialettali di un Franco Loi e negli idioletti da cuore infermo di Mariangela Gualtieri. Lungo questo pendio piastrellato dai post-minimalismi e dai post-lombardismi che vengono allevati in casa come una batteria di polli in quanto del tutto inoffensivi (e però fanno da cuscinetto!) sembra non esserci più alcun limite al ridicolo di operazioni scrittorie (definirle poesie è un platonismo) che non hanno neanche il pudore né il timore del ridicolo e del patetico. Come riconosce Cristian Sinicco, è lo studio e l’ìapplicazione ferrea della sintassi che può potenziare il discorso poetico e non l’inversione e l’ellissi, l’accumulo di aggettivi o di sostantivi de-sostantivati! A rileggere oggi nel 2012 l’opera di esordio di De Angelis “Somiglianze” del 1976 non possiamo non notare tutto lo “spavento” per la civiltà industriale in fase avanzata… ma oggi quello “spavento” non ci dice più nulla, occorrono altre armi intellettuali per affrontare il problema dell’essere moderni, oggi che quello sviluppo industriale si è risolto in una, questa sì, spaventosa recessione, Oggi alla nuova poesia il pubblico richiede “coraggio” e non “spavento”, impegno e non disimpegno, responsabilità e non deresponsabilizzazione, quadratura della sintassi e non inflazione di procedure ellittiche e seduttive.

  • Non vedo la separazione tra elementi predicativi (aggettivali), grammaticali e ritmici da una parte e quelli operativi, sintattici e metrici dall’altra. La semplificazione fortiniana disconosce il fatto che l’oggettivazione ha sempre una natura sentimentale e questo disconoscimento determina, a mio avviso, la semplificazione, per quanto intelligente, del giudizio che ne deriva su De Angelis. Non ho il tempo di sviluppare il discorso, mi interessai tempo fa di De Angelis (del De Angelis precedente “Tema d’addio”), apprezzandolo in parte e criticando la sua tecnica pascoliana che chiamai dell’avulsione, che consiste nel creare arbitrariamente la suggestione. Ho smesso di fare il critico quando ho capito che la complessità della creazione poetica non può essere affrontata criticamente, non è per esempio sempre distinguibile l’astrazione del poeta dalla nostra incomprensione emotiva o intellettuale. Nessuno di noi, fosse anche poeta in proprio, nel momento in cui si pone come critico riesce a conservare, nell’analisi e nella valutazione, l’intensità emotiva e creativa che il poeta ha messo in campo, a meno che basti un minimo di sensibilità e di intelligenza in quanto il poeta è superficiale o usa e quando usa, come in questo caso pare, i “travestimenti” di cui parlate. Posso solo dire che non vedo nulla di nuovo, tecnicamente parlando, nella poesia di De Angelis, se penso anche solo all’ermetismo, ma al di là della tecnica le novità di una poesia (sempre ammesso che sia così necessaria la novità, secondo me basta e avanza la singolarità o personalità che dir si voglia) possono infilarsi in ogni suo aspetto, tonale metrico sintattico semantico retorico ecc., soprattutto se tale poesia è piagata dalla sensibilità del poeta. Comunque, e mi riferisco alle osservazioni di alias Domenico Ludovici, un poeta “avvelena” solo i pozzi dei suoi epigoni e dei suoi leccapiedi, e questo avvelenamento non è poi così negativo, anzi ci libera dalle scardole della poesia.

    • Caro Bertoldo, potrà stupirla, ma sono quasi del tutto d’accordo con lei. Il termine ‘avulsione’ è ben trovato ed esprime bene il concetto. Avevo già letto da qualche altra parte delle sue note in merito e mi trova d’accordo quando parla di oscurità volute o intrinseche, necessarie (semplifico, naturalmente). Apprezzo le ragioni del suo abbandono della critica (e non sto facendo del sarcasmo, come forse penserà). Come vede non la considero un nemico, come lei sembra considerare me (del resto, non ci conosciamo, no?). Perché mi chiama alias? Se leggerà questa risposta, mi piacerebbe che mi scrivesse direttamente. Lo faccia se vuole, non ho difficoltà a darle la mia mail, qui:
      Quanto a Linguaglossa: ringrazio della risposta. Spesso non sono d’accordo con quel che lei scrive e spesso lo ritengo confuso e troppo tecnicistico (ma, come accennavo, forse sono gli strumenti che a me mancano per comprendere a fondo: i miei studi non letterari, appunto). Poi, sì, sulle introduzioni inutili e spesso dannose, come pure certe recensioni (e qui ritorna Bertoldo con la sua rinuncia), sono più che d’accordo. Ne ho lette un paio di recente di quel tale che è riuscito a introdurre anche un ex ministro che potrebbero fare da prototipo. Per i poeti che lei cita: sì, li ritengo un po’ sovrastimati, anche se buoni poeti; dispiace semmai che non ne abbia letti e seguiti altri anche più nascosti (io come accennavo, soffro d’insonnia, e andando a letto tardi e svegliandomi presto, mi dedico alla lettura) e per me migliori. Ma, come lei dice, ci sta: non si può leggere e conoscere tutto, anche quando si ha la pretesa della completezza, come lei tende a fare nel suo libro
      (che, mi lasci dire, trovo un po’ farraginoso, massime nella seconda parte).

  • La questione è interessante, ma la questione è più semplice: dopo Somiglianze le tecniche di accumulazione si sono impossessate della scrittura di De Angelis, e le possiamo osservare in in altri poeti a lui vicini. Tuttavia non credo si tratti solo di un’influenza della poetica di un individuo sull’ambiente… Recentemente un poeta di Pordenone, Roberto Cescon, ha ipotizzato che certo sbilanciamento verso la questione dell’accumulazione sia una risposta automatica delle scritture all’incessante produzione di informazioni che si attua nella società contemporanea – il senso di ciò starebbe nella “mimesi della schizofrenia universale” come scrive Carlucci http://poesia2punto0.com/2010/10/20/note-sull%E2%80%99influenza-della-neoavanguardia-italiana-sulla-mia-poesia-con-particolare-riferimento-alla-poesia-in-prosa/#.T7d59VIxbBY? Non mi convince del tutto la tesi di Fortini, ma potrebbe darsi appunto che pratiche di mimesi producano la conferma del/al sistema. La consapevolezza di essere caduti in un tranello potrebbe indurre i poeti legati a certe tecniche a modificare la propria strategia – in generale è difficile, ma qualche esempio possiamo farlo http://christiansinicco.wordpress.com/2012/05/24/nelle-ferite-della-critica-la-discussione-sulla-nuova-poesia-italiana/. Un appunto: è evidente che lo studio della sintassi, che è legato alla logica, potenzia la scrittura, ma non è detto che miglioramenti “operativi” e “sintattici” non possano coesistere con una certa ritmica, che sia la metrica, sola, la depositaria del labor sui nessi – quell’inciso di Fortini, che non conoscevo, pare a me un po’ “furbo”? A cosa si contrapponeva Fortini nel 1962?

  • gent.mo Domenico Ludovici,
    Lei scrive: «che alcuni nomi fatti da Linguaglossa mi sembrano sovrastimati»; nulla quaestio, mi sono occupato di tanti autori contemporanei che ne ho perso il conto. Dopo i miei scritti sulla loro opera, alcuni non mi rivolgono né la parola né il saluto, altri mi ignorano volutamente, altri ancora tentano di delegittimarmi nella mia veste di critico, altri mi censurano e tentano di circondarmi con una cortina di silenzio, altri ancora, dopo avermi commissionato uno scritto a mo’ di prefazione ai loro libri, hanno preferito togliere la prefazione perché non in linea con la moda celebrativa e autoconsolatoria in voga nel nostro paese. Sì, mi sono occupato di tanti autori, è vero, alcuni si sono sentiti maltrattati, altri quasi, altri no ma mi guardano come una specie di ircocervo. Il fatto è molto semplicemente che io sono una persona libera che non deve rispondere ad alcun padrone né ad alcun mandato editoriale o istituzionale, che scrive quello che pensa e che cerca di mettere su carta un pensiero che non sia suscettibile di azione di scambio. Così è avvenuto che sono ritenuto da alcuni mediocri «una persona pericolosa» in quanto non sono aduso agli usi del voto di scambio e delle recensioni amicali. Ah, dimenticavo: ci sono stati anche autori i quali hanno dichiarato che non capivano quello che avevo scritto sulla loro opera, la qual cosa non depone certo in favore della loro intelligenza! Comunque, giusto o errato ritengo che chi faccia il critico debba accettare tutti questi risvolti, diciamo, poco simpatici, e io infatti li accetto, anzi li dò già per scontati in anticipo. Inoltre, io ritengo che per parlare di poesia bisogna parlare dei libri di poesia e non del sesso degli angeli come fanno molti autori che fanno moda, oppure, che evitano di impegnarsi in una prefazione. Ma allora, mi chiedo, perché accettano di firmare una prefazione che non dice nulla? Anzi, che tenta in tutti i modi di evitare di dire qualcosa? Noto con stupore che una tale prassi è diventata una consuetudine generalizzata. E allora, vogliamo dirlo? Perché si accetta di fare una prefazione (o una recensione) se si sta bene attenti a non dire nulla di nulla? Qual è il vantaggio? E c’è un vantaggio? Ecco, queste sono interrogativi di «un marziano a Roma» (dove abito) direbbe Flaiano.

  • Confidiamo dunque sul fatto che la “massa” poetica ( il “corpo”) non sia rigida, in questo caso il centro di massa cambia o cambierà
    anzi auspico che si distribuisca in più centri-fuoco
    (un unico monolitico o prioritario mi pare infatti sempre e cmq limitativo);
    in questo, per la messa a “fuoco” intendo, che entri dunque in gioco la critica, come in questa nota molto interessante e, complimenti!, chiara.

  • Interessantissimo. Linguaglossa ha scritto qualcosa che penso: certo De Angelis, stilisticamente, si è insterilito e ha insterilito. Sarei più cauto, in generale, perché la ricerca di tutti i suoi libri mi sembra altissima, eccettuati gli ultimi due. E pensare che proprio Fortini è stato mentore di De Angelis, e De Angelis gli ha dedicato alcune poesie. Proprio a Rimini mi è capitato di parlarci, di esprimergli la mia vera ammirazione per la sua poesia (perché è indubbio che la potenza ipnotica e la personalità dei suoi versi hanno pochi rivali, e quindi non sono affatto d’accordo con Domenico, che strumentalmente forza il discorso di Linguaglossa); quando anche avrei voluto dirgli, ne avessi avuto il coraggio, delle secche in cui si è messo negli ultimi libri. Perché? perché la ricerca dei libri precedenti non era semplicemente aggettivale e metaforica, era anche ritmica, sintattica, intrecciava colloquiale e accensione… poi si è sostituito questo monolinguismo che a me non piace. C’è anche da dire che “Millimetri” è un libro freddo, davvero non si può tacciare il primo De Angelis di puntare solo sulla commozione, o almeno non sulla commozione “lirica”. Mi piacerebbe a mia volta scrivere di tutto ciò, intanto faccio i complimenti a Linguaglossa. Vorrei leggere più critica di questo tipo.

  • Per una volta credo d’essere d’accordo con Linguaglossa: sono trentacinque anni che Milo De Angelis avvelena i pozzi della poesia italiana, anzi, ne ha interrotto le sorgive. Cito: “I metaforismi di De Angelis sono dei travestimenti che ormai non sorprendono più nessuno, sono un linguaggio che rivela la sclerosi multipla della significazione”. Le astrazioni di cui è infarcita quella poesia, da ‘Somiglianze’ in poi (il picco massimo, credo, è in ‘Millimetri’, per poi regredire nelle scopiazzature di ‘Distante un padre’), fino all’ultimo libro (se eccezione è data, lo è forse ‘Il tema dell’addio’, ma solo per la ‘forzatura’ dei sentimenti e per una forma d’imitazione della poesia della Sicari stessa). Il verso citato da Linguaglossa e ribaltato da Manzi dimostra appunto che, nella versione originale, esso è un’astrazione; nel ribaltamento di Manzi, una banalità; in entrambi i casi è un’immagine inutile e da evitare. La poesia di De Angelis e dei suoi numerosi e (alcuni) agguerriti epigoni e imitatori rende davvero il mondo più incomprensibile (ma, per onestà, devo aggiungere che anche certa critica, come spesso quella di Linguaglossa, ha lo stesso effetto).
    Ma io vengo da studi giuridici e perciò ho poca dimestichezza con le teorizzazioni poetiche e critiche, dunque capisco male già l’assunto fortiniano di partenza, però credo che non sia questione di preminenza fra ‘raffigurazione di oggetti’ e ‘raffigurazione di sentimenti’. Credo che sia questione di pensiero poetante, ovvero di descrivere cose e sentimenti fino a darne un’immagine parlante: chi ne ascolta la voce deve comprendere senso ed emozione. Così la penso. Ho letto e leggo quasi tutto quel che posso reperire della poesia italiana contemporanea ormai da quarant’anni e oltre, perciò supplisco alle carenze critiche di base (i miei studi giurisprudenziali, diciamo) con l’esperienza (insonne) di lettura e mi permetto di dire che ci sono poeti in giro che dovrebbero essere completamente ignorati, mentre invece sono fin troppo incensati. È appunto il caso di De Angelis, al quale tutti – o quasi – sono propensi a riconoscere il ruolo del ‘più grande poeta italiano vivente’ (ora che i vari grandi vecchi – e anche qui ci sarebbe da ridire su diversi di loro – sono via via scomparsi): non più tardi di sabato scorso ero di passaggio a Rimini, e visto che al castello malatestiano c’era una manifestazione poetica chiamata ‘Parco poesia’ mi sono trattenuto ad ascoltare qualcosa. Sono capitato proprio ad un reading o recital di De Angelis e di un’attrice (che leggeva, come tutti gli attori, in maniera enfatica, le lettere di alcuni poeti), seguito da una lettura del ‘nostro’ molto applaudita dal numeroso pubblico (fatto per l’ottanta per cento, sono certo, di poeti, poetini e sedicenti tali); dico esibizione applauditissima quasi a voler riconoscere al poeta una supremazia che nei fatti (poetici) io so bene (e, pare, anche Linguaglossa e Manzi sanno) egli non ha. Tralascio di dire quali sono i poeti che prediligo (qualcuno si potrà leggere nella mia segnalazione dei ‘Libri diversi’, quando la Redazione del blog che ci ospita avrà deciso di pubblicarla), ma preciso che alcuni nomi fatti da Linguaglossa mi sembrano sovrastimati. Cordialmente,
    Domenico Ludovici

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