Di questa poesia sospesa tra il fare la vittima e i suoi esorcismi
esci da questo corpo, ma per andare dove… la poesia che non ha corpo sembra incapace di direzione, pena una banalizzazione infantile.
Quando la poesia la penso – e oggi accade un po’ meno, la penso come missione incompuita, la penso un po’ da teppistello che maschera a parole una energia sessuale latente
di quella che ci fa deboli di organi genitali guizzanti
c’è ancora chi la poesia la pratica come il sesso sicuro, con il cappuccino per evitare di dire che poeta è solo chi si spende a più tavoli con o senza disciplina
e le parole che chiamano voglie quello che a volte si pronuncia delitti
perchè qui chi ha scritto 4 versi poi si sente un domatore e giù con il frustino a tenere a bada il mondo
e a qualcun altro che gli viene in mente che per annullare la diversità bisogna assorbirla e si inventa che la poesia è troppo diversa per essere emarginata
e gli altri terrestri sono solo coinquilini.
Chissà se oggi è la poesia ad attaccare il linguaggio, nella sindrome di Custer, o invece serva attaccarsi al linguaggio nella più nota sintomatologia dell’armiamoci e partite
io credo che in realtà non facciamo altro che stare alla larga dai sogni e per farlo inventiamo carrozze al posto di zucche
ci siamo spacciati come figli delle rivoluzioni convincenti e adesso siamo qui a gridare che ci si salva solo se cambiamo i gusti
è il mio istinto che mi impone di scrivere cazzate, se c’è un briciolo di speranza è che crediamo ai matrimoni poetici brevi
paghiamo tutti il tributo di aver prestato ascolto a chi usava la zappa per coltivare il cielo
e adesso che cerchiamo la luce nelle paroline opache, qualche trentenne ci sembra caravaggio
ma in questa strategia del malessere si fa in fretta a prendere lucciole per lanterne
Il poeta dovrebbe divertirsi ad affrontare i suoi grumi, perchè come diceva De Andrè “l’arte è ciò che facciamo, cultura è ciò che ci fanno”
e poi convincersi che fare poesia non è una cosa diversa, ma solo l’estremità di un gesto educato