Parola ai Poeti: Giuseppina Amodei

 

Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?

Credo che la frammentazione dell’Io  che si è verificata in tutto il Novecento sul piano psicologico  a causa dei terribili eventi storico/politico/sociali abbia determinato una sorta di frammentazione dell’Io poetico,  di smarrimento dell’essere che ha influito anche sul modo di intendere e fare poesia. Oggi ognuno va per proprio conto, senza interessarsi della sinergia e del “fare/essere insieme”. La continua incessante volontà  di autoaffermazione – e oserei dire anche di vanità – non ha portato i poeti a cercare forme di sperimentazione comuni ma a una sorta di arroccamento, a un modus poetandi teso a gratificare il proprio Ego e non a ricercare il senso contemporaneo del fare poesia. Questo stato di fatto ha causato la proliferazione inarrestabile non solo di modalità poetiche differenziate ma soprattutto di veri e propri eserciti di persone che scrivono poesie, quasi che comporre versi sia una sorta di dictat per conquistare stima e valore. Una mitizzazione che nasconde – a mio avviso – quel timeo dissolvi, quella paura di non esistere,  di essere ingoiati dal tempo e di essere dimenticati. Fermo restando che scrivere poesie è – può essere – una attività che ha una sua dignità anche nel caso in cui sia solo catarsi o divertissement amatoriale, ritengo che la causa della “malasanità” della poesia non debba essere riscontrata nella scrittura della stessa ma nell’incapacità – da parte dei poeti – di prendere coscienza che la poesia serve prima di tutto a noi stessi  prima ancora che agli altri e che il cosiddetto “successo” dovrebbe essere solo un orpello e non il fine fondamentale. Questa forma egotica impedisce ai poeti di creare sinergia e di lavorare per un fine comune: di conseguenza ognuno coltiva il proprio orticello, se ne sta nella sua torricella, legge solo se stesso. Tutto ciò fa ammalare la poesia e in questo momento storico sembra non ci sia alcuna medicina che possa guarirla. Ma io sono una inguaribile ottimista e credo che – i giovani si renderanno conto quanto prima che la poesia ha bisogno di loro. Importante (essenziale) è che noi “vecchietti” dobbiamo “passare il testimone”, riappropriandoci dell’antica funzione: quella di educatori e guide.
Riusciremo a farlo?

Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto? Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?

Ho pubblicato la mia prima raccolta di poesie (avevo già una certa esperienza nel campo della didattica pedagogica) quasi per caso e su spinta di persone che avevano letto il mio Deserto Definito. L’editore – sconosciuto e alle prime armi – mi pubblicò gratis et amor dei e la cosa mi sorprese. Dopo due mesi l’opera venne premiata con “Fiorino d’oro” a Firenze: ero una perfetta sconosciuta e il riconoscimento mi lasciò letteralmente di stucco in quanto non avevo mai neppure sospettato di poter essere apprezzata per ciò che avevo tenuto ben nascosto nella mia cassapanca. Mi aiutò in quel momento la mia parte razionale e mi chiesi: sono la migliore dei ciuchi o la peggiore dei bravi? In altri termini, invece di crogiolarmi pensando di essere arrivata al traguardo, iniziai a confrontarmi col mondo letterario cercando di indagare, passo dopo passo,  se ciò che mi portavo dentro da sempre potesse avere un senso per chi mi leggeva. L’incontro con persone meravigliose che già navigavano nel campo letterario (Dante Maffia, Luciano Luisi, Sauro Albisani, Giorgio Linguaglossa, Peter Russell, Pasquale e Francesca Tuscano, Gabriele Digiammarino, Rubina Giorgi… tanto per fare dei nomi….) mi ha portata ad arricchire le mie conoscenze e a rendermi consapevole di ciò che sono, di ciò che potrei diventare e di ciò che non sarò mai. Credo che il mio tenere bene i piedi a terra sia stata la vera forza. La mia esperienza è stata dunque anomala: non sapevo quale fosse il momento giusto, non mi aspettavo niente, tutto è stato meravigliosamente gratificante, grazie soprattutto alla persona che mi ha incoraggiata e premiata e che è scomparsa oramai da un decennio: Mario Conti.

 

Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?

Ho una esperienza editoriale in quanto ho fondato la Paideia Firenze nel 1998 dando vita anche a due collane di poesia. Ho pubblicato alcune antologie e alcune opere di autori famosi e altre di giovani sconosciuti. Ho comunque dovuto rallentare la produzione in quanto – come è noto – la poesia è invendibile e ho fatto una enorme fatica a rientrare con le spese. Da una casa editrice mi aspetterei che facessero quello che ho cercato di fare io: non far pagare l’Autore, o almeno scegliere sulla base della qualità e non della quantità. Farei a questo punto una piccola distinzione tra le editrici importanti,  quelle cosiddette piccole e quelle sicuramente “selvagge”: le prime dovrebbero assumersi la responsabilità di indagare con più attenzione sugli Autori (è visibile a tutti che molti poeti di chiaro valore vengono trascurati a favore di amici, amichette e personalità di potere), dando all’Italia e al mondo la possibilità di comprendere che noi Italiani non siamo gli ultimi, né i soliti arruffoni;  le seconde fanno a mio avviso un lavoro egregio in quanto rischiano sulle loro finanze e sul loro nome: ritengo però che dovrebbero essere più aggressive e farsi largo con più forza e determinazione, in modo da far comprendere che le loro scelte sono di qualità e che i loro poeti meriterebbero uno sguardo più attento; le terze dovrebbero essere “arrestate” (ognuno dia alla parola l’accezione che preferisce) in quanto confondono il mercato, producono spazzatura poetica e – soprattutto – alimentano false illusioni. La poesia è una cosa seria e non la si può gestire facendo leva sulla vanità e sulla pelle dei poveri cristi ai quali si fa spesso credere di essere dei novelli Leopardi.

 

La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?

La poesia ha già trovato il suo spazio nel web: basti vedere quanti scrittori di versi mostrano le proprie composizioni nei vari blog. Il  nuovo modo di comunicare è inarrestabile ed è inutile la demonizzazione di quanto sta accadendo. Credo (spero) però che, a lungo andare, la pubblicazione nel web non determini la scomparsa del libro o la sua relegazione nel fondo degli scaffali ma, al contrario,  alimenti la curiosità e la volontà di andare a comprare una bella raccolta di poesia. Forse sono solo una illusa idealista ma credo che il pubblico non sia così stupido come si  pensa e che i giovani abbiano molte risorse intellettuali. In altri termini credo (spero) che – una volta selezionate e filtrate le opere poetiche sul web – molte persone ricorrano al cartaceo, in modo da poter toccare, vedere, “annusare” la carta e  inserirla nella propria libreria. Internet ha il vantaggio della comunicazione immediata (vivaiddio!) ma porta in seno il pericolo della “solitudine nella folla”. Si rischia cioè di restare – al pari di gocce nell’oceano – sempre più soli e di crogiolarsi nel proprio Ego proprio perché si vive non più nella piazza ma in una Agorà globale immaginaria/ dove saremo cento e dopo in mille…/e miliardi e miliardi/ uniti dal linguaggio universale/creato dal binario artificiale… con quel che segue.
Dovremmo – tutti insieme, poeti, artisti, uomini – rivoluzionare il concetto di mac-luhaniana memoria de “Il media E’ il messaggio, per ri-sostituirlo con “Il media HA (possiede) il messaggio”.
Cosa difficile da fare, in verità.

 

Pensi che attorno alla poesia – e all’arte in genere – si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?

E’ sotto gli occhi di tutti la proliferazione di critici e falsicritici, degli avventurieri delle recensioni e dei “quanto sei bravo tu”. Molti critici sembrano aver dimenticato – a mio avviso – i  parametri fondamentali della poesia che dovrebbero essere immutati: semantica, stile, musicalità del verso, originalità, passione, comunicabilità e – soprattutto – sincerità. Qualcuno si dovrebbe assumere la responsabilità di prendere una bella falce e tagliarci le gambe senza pietà: ma per farlo ci vuole coerenza, competenza, serietà, severità; doti che non sempre si riscontrano in chi legge (spesso in maniera superficiale) un poeta o un artista. La  critica, purtroppo, si è (s)venduta al potere e pochissime sono le persone che si assumono la responsabilità di leggere un poeta contemporaneo in tutta la sua produzione: molti infatti, dopo una lettura parziale (a volte basta avere sotto gli occhi poche poesie) si arrogano il diritto di dare giudizi di valutazione. E’ il “peccato” del nostro tempo: in questa epoca della velocizzazione estrema, ogni cosa deve essere bruciata nell’attimo; di conseguenza, il critico non ha più tempo da perdere e ogni prefazione o recensione diventa spesso una tessera della cultura del “sentito dire”. Naturalmente esistono per fortuna ancora persone serie e competenti che svolgono egregiamente il loro lavoro: ma l’elenco sembra farsi sempre più misero. E’ l’ora di farla finita con questo recensirci in faccia reciproco, altrimenti è meglio credere che la poesia  abbia  gambe proprie, e lasciare che sia il lettore a gioire, soffrire, farsi accapponare la pelle, disgustarsi di fronte a un’opera.
La critica è morta? Viva la critica!

 

Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?

Fermo restando che il canone, inteso come come corpus di testi e di autori che una società continua a tramandare, non può essere ignorato – pena la dissoluzione della nostra storia e della nostra cultura –  ritengo che alcune  regole più che scardinate possono essere  modificate ed arricchite nel tempo. Esistono parametri – come dicevo sopra – che restano immutabili  per cui è chiaro che una buona poesia non possa essere considerata tale se non possiede alcune caratteristiche fondamentali senza le quali rischia di diventare confabulazione mentale o dilettantismo. Sono però del parere che – così come si evolve il progresso – anche il linguaggio debba evolversi e, quando è veritiero, tentare la variabilità delle forme. In altri termini, in un’epoca globalizzata dove i linguaggi subiscono forti pressioni di contaminazione e ibridazione, credo che si debba tener conto di come parlano oggi i giovani: di conseguenza, ben vengano nuove regole, a condizione che siano vere sperimentazioni e non tentativi di egotica ricerca del “nuovo a tutti i costi”. Ciò che preoccupa è che, purtroppo, molti giovani  continuano ad usare un linguaggio desueto, quasi che quel tardopascolinismo da cui la mia generazione sembra non volere uscire, abbia infettato i ventenni e i trentenni (salvo, è chiaro, alcune eccezioni).
Qualche tempo fa, nella rivista Polimnia, facevo una considerazione proprio su questo aspetto: la riporto per esteso. “Prendiamo ad esempio come parametro  la musicalità del verso: così come si modifica il linguaggio parlato, anche il verso e la musica – attraverso la ricerca di nuovi termini e nuove (dis)armonie – si devono, in qualche misura, modificare, seguendo/inseguendo ritmi adeguati al tempo in cui viviamo. E, se un decasillabo somiglia a un valzer e un endecasillabo al nostro modo (italiano) di parlare, se un novenario ci richiama ai due momenti di un tango (4 + 5), non vedo perché due settenari in successione non possano rappresentare una sequenza Rap.
Con questi – mi sia concesso l’atteggiamento giocoso – piccoli esempi, intendo dire che la ricerca di nuove metriche o l’uso (s)considerato del verso libero non è un problema: il problema vero  è la intonazione del verso: anche un endecasillabo può essere stonato se non c’è accostamento a parole appropriate, così come un bisillabo o addirittura un monosillabo, in un certo contesto, possono assumere un forte significato simbolico, comunicare un alto valore semantico ed essere, nel contempo, musicali.
La ricerca di nuove forme metriche, sia nella poesia che nella musica, è auspicabile, a condizione però che sia vera e sincera e non – come purtroppo spesso accade – una sorta di gioco al “guarda come sono bravo a stupire gli altri”, un mero esercizio di stile senza anima”.

In un paese come il nostro che ruolo dovrebbe avere un Ministro della Cultura? Quali sono, a tuo avviso, i modi che andrebbero adottati per promuovere la buona Letteratura e, in particolare, la buona poesia?

Ho sempre pensato che, da quando i media sono arrivati nelle nostre case, fin dai tempi della popolarissima televisione, la letteratura non è riuscita a ritagliarsi una piccola fetta di visibilità. Niente programmi letterari, niente più teatro, niente più musica cosiddetta colta. Ho sempre ritenuto che un po’ di colpa sia stata anche degli artisti che si sono isolati, hanno preso la distanza – così come fanno adesso con internet – dalla Tv ritenendola non sufficientemente  adatta allo scopo culturale “vero”. I poeti hanno spesso creduto  – a torto – che il loro linguaggio fosse elitario e  dunque incapace di essere compreso dalla massa. La conseguenza è stata quella di aver lasciato il campo ai cantautori, ai parolieri di bassa lega, ai furbetti della cutura, ai guru celentanieri e jovinottieri. Cosa andiamo cercando adesso? Un Ministro della Cultura poco può fare per arginare questa incessante avanzata. Se fosse mandato in onda in prima serata TV un programma di poesia, lo sheare sarebbe meno dello zerovirgolazerozerounopercento: ed allora tutti direbbero: “Vedete? Al pubblico non piace la poesia. I programmi si costruiscono sulla base delle preferenze della gente”. Senza tener conto  (e basterebbe aver assimilato il concetto di effetto Pigmalione positivo) che il pubblico non desidera ciò che desidera ma ciò che tu desideri  che egli desideri. In parole povere, se i media avessero avuto, fin dai primissimi tempi, una funzione educativa (la cosa, si sa, fa orrore a molti) oggi avremmo giovani colti, amanti della poesia, della musica e del teatro. E, soprattutto, un po’ più rispettosi delle regole civili.

 

Quali sono i fattori che più influiscono – positivamente e negativamente – sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?

E, a proposito di educazione, non si capisce per quale motivo gli studenti – dopo aver letto per anni e anni poesia nelle scuole – appena conseguono il diploma non si sognano minimamente di comprare un libro di poesia, salvo alcuni appassionati che continuano liberamente il loro percorso educativo nella Facoltà di Lettere. Come se aver fatto incetta (ingozzamento) di poesia a scuola sia più che sufficiente e provochi una sorta di nausea. Allora viene il sospetto che molti insegnanti, invece che educare alla poesia, abbiano annoiato gli studenti, proponendo loro non le opere e i poeti ma  “pillole” di letteratura desueta e stantia. Da pedagogista – prima ancora che da scrittrice – credo che questo paradosso possa risolversi solo attraverso una vera e propria riforma delle materie di studio, dei programmi e delle metodologie educative: tutto è oramai scontato, fuori tempo, fuori contesto. I giovani non sono educati alla poesia per il fatto che non sono indirizzati alla lettura delle opere ma al riassuntino della storia della letteratura: non sono abituati a leggere una poesia, a saperla declamare prima ancora che analizzare, a goderne il ritmo e la musicalità, a drammatizzarla: in una parola, a (con)viverla.
Non può esistere educazione poetica di una Nazione senza una educazione poetica nella scuola: e la scuola in questo settore è carente, disattenta, disarticolata; in una parola: noiosa.
Ci vorrebbe un reset totale, altro che “rattoppi” gelminiani!

Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?

Un critico, leggendo le mie “piccole cose” mi ha definita anarchica e nomade. E’ stato il più bel complimento che abbia mai ricevuto. E dunque. Penso che il poeta sia contemporaneamente un cittadino e un apolide. E’ un cittadino perchè quando scrive non può non tener conto di far parte della sua comunità di appartenenza; è un apolide nel momento in cui la sua voce riesce a diventare ecumenica. Ritengo che il comportamento del poeta dovrebbe essere assolutamente libero e “democratico”; libero perché non piegato alle mistificazioni; democratico nel senso che dovrebbe accettare di recitare nelle piazze e nei castelli, nei palazzi e per le strade sterrate, per un pubblico virtuale e un pubblico reale, per centomila persone ed una sola. Credo inoltre che il poeta – nel momento in cui porge il proprio prodotto – debba avere l’umiltà di accettare gli applausi e i fischi, le critiche e le ovazioni. Penso che le caratteristiche fondamentali che differenziano  uno scrittore di versi da un vero poeta siano proprio l’umiltà e la sincerità. Molti sono in grado di comporre tecnicamente una buona poesia, pochi sono coloro che l’hanno fatta “strisciare sulla propria pelle”.
“Tu sei ciò che mangi”, affermava Feuerbach; a me del poeta, piace pensare “Tu sei ciò che scrivi”.

Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintilla e come la tieni accesa?

Non credo  sia sufficiente la tecnica di scrittura, ma neppure  un talento puro (salvo le eccezioni di alcune menti geniali): non esiste immaginazione creatrice senza conoscenza in quanto la prima è il modo di travalicare la seconda. Per travalicare bisogna raggiungere e per raggiungere è necessario conoscere.
Per quanto mi riguarda, la creazione di una poesia è un vero e proprio mistero: arriva in piena libertà, in un momento particolare, senza preavviso. Poi si cristallizza, prende forma, come se avesse una vita propria. Credo all’ispirazione: la disciplina è già dentro, fa parte del  vissuto, di una formazione culturale propria.

Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?

La mia scrittura è prevalentemente improntata su temi sociali e civili (non a caso nasco come pedagogista) e dunque, più che una emozione, credo di voler comunicare un’idea. La semantica spesso va a discapito dello stile; il mio obiettivo è la comunicazione di un messaggio e il tentativo di cogliere/offrire le emozioni attraverso uno sguardo sul mondo: la gioia, la sofferenza, le passioni dell’uomo in tutto il nostro pianeta.

Cosa pensano della poesia le persone che ami?

Mio marito e i miei figli (due maschi) mi prendono bonariamente in giro dicendo che la mia poesia somiglia al mio carattere: a volte è giocosa, altre passionale, bisbetica, drammatica, sferzante, buffa, seriosa…:  di ciò non posso che essere contenta, anche se a volte mi viene il sospetto di avere una personalità multipla (nella sua accezione positiva: non come disturbo psicotico ma come curiosità variegata…spero).
In linea generale, pensando alle persone che conosco, credo che non potrei amarle se non amano la poesia: per cui la domanda si annulla da sola.

Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?

Sono stata tra le fortunate che a un certo punto della loro vita, ancora giovane, ha potuto concludere la sua fase lavorativa e dedicarsi interamente alla scrittura. Vivo la mia condizione in maniera molto serena, proprio per il fatto che non ho più impegni di lavoro. La mia precedente esperienza lavorativa è stata comunque essenziale alla mia formazione in quanto il contatto con i giovani mi ha impedito di smarrire la curiosità, il senso dell’altro, la comunicabilità, la fantasia…
Ritengo che chi scrive per mestiere abbia delle gratificazioni sul piano economico e spesso del cosiddetto successo ma penso che in qualche misura sia un limite alla propria libertà di pensiero. Essere chiamati a redarre una recensione o a scrivere un romanzo l’anno può andare a discapito della propria libertà di dire ciò che si pensa veramente oppure di  forzare la propria creatività a fini utilitaristici. Per fortuna io non ho questi problemi: scrivo ciò che voglio, quando voglio e per chi mi convince appieno. Detesto le mistificazioni del proprio pensiero ma rispetto chi ha scelto (per volontà, per bisogno…) il mestiere di scrittore.

Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?

Non penso mai al mio futuro come scrittrice. Scrivo e basta. Anzi, vorrei, dopo aver pubblicato un libro, non dovermene più interessare, come fosse un figlio che impara a camminare da solo. Purtroppo ciò non è possibile e qualche volta sono costretta a proporlo e a partecipare a degli incontri. Pochi, in verità. Non amo gettare in faccia i miei libri, preferisco che qualcuno me li chieda.
Del futuro della poesia, non so che dire. La mia visione del futuro dell’arte non può che essere idealistica. Per cui è più adatto a me  il termine futuribile, che porta in sé la speranza  unita all’ipotesi, a ciò che dovrebbe/potrebbe accadere. La mia speranza è che i poeti escano dal loro guscio, la smettano di restare chiusi nei gruppi, nelle associazioni, nelle camarille, la smettano di becchettarsi e picchiarsi a colpi di frusta criticatrice come avviene spesso oggi.
Il vero poeta è poeta non solo nella scrittura ma anche nella vita: l’invidia, la vanità, il contrasto, l’egoismo, … non sono compatibili con la poesia, che ritengo essere – al pari della musica – l’arte sublime per eccellenza. La poesia non è una bella scrittura di versi ma oggetto della vita stessa: deve arrampicarsi sulla tua testa, esplodere dal ventre, scivolare e scorrere dentro le vene, dissanguare la tua anima. A molti poeti di oggi manca l’umiltà della sofferenza, la visione dell’altro, la capacità di leggere non solo loro stessi ma l’uomo tutto. In questo nostro tempo ogni angolo della terra non ha più segreti, ogni cosa è visibile, sotto gli occhi di tutti: per questo motivo  non è più possibile restare indifferenti di fronte alla sofferenza del mondo tutto, mondo che merita una attenzione vera e non una pietas pelosa. Solo attraverso la sinergia e la “compassione altra” si è veri poeti, capaci di guardare il Luogomondo non con lo sguardo miope ma con lo sguardo panoramico, capace di interpretare il tempo in cui viviamo, con le sue brutture e le sue bellezze. Capace – dopo anni di de-costruzione – di ri-costruire il senso alto della poesia e della vita. Il futuro della poesia dovrebbe essere demandato a quei  giovani che non temono il progresso, non hanno paura di addentrarsi nei pericoli dell’Agorà Globale Immaginaria, né di gridare nelle piazze reali. Alle nuove generazioni dunque il compito della RICOSTRUZIONE, in modo che L’UTOPIA   non sia più assenza di luogo né idealizzazione onirica  di società impossibili, né illusione, ma RAGIONE: la Pace si fa Padrona e la Terra diventa LUOGOMONDO DI REGOLE GLOBALI dove individuo e società – dopo l’abbattimento reale dei fili spinati – si ritrovano in un abbraccio scambievole, navigatori liberi della giusta dimensione.
Questa la mia idea futuribile.
Ma….


Giuseppina Amodei, calabrese di origine (Ferruzzano, RC, 1947) e toscana di adozione, vive a Piandiscò, nella campagna aretina. Dopo una intensa attività di insegnamento, lascia la scuola per dedicarsi interamente alla scrittura. Dal 1990 al 1996 pubblica, in collaborazone col prof. Pasquale Troìa, quattro studi di Pedagogia e Didattica per la formazione professionale docente (Il corpo e la Storia; Musica da creare; Strategie modulari per una educazione ai linguaggi; Insegnare). Dal 1997 fino ad oggi pubblico tre romanzi: Ladroncella (M.M.E. Pavia); La ragazza dal collo dipinto (Paideia Firenze); Spiccioli criminali (Maria Pacini Fazzi, Lucca). Due romanzi sono inediti.
Cinque le raccolte poetiche: Cartigli (Ass. cult. Firenze-Europa, 1994); Deserto Definito (M.M.E.-Pavia- Fiorino d’oro 1997); Mi sia concesso il dono (My I have); Il poeta muore ogni sera (Lepisma, Roma, 2007); Versi di marzapane (Paideia Firenze, 2008). I miei otto testi teatrali – tre dei quali precedentemente pubblicati – sono raccolti nell’opera omnia Il Sipario Smarrito (Lepisma, Roma 2011): alcuni messi in scena. Ho fatto esperienze di contaminazione artistica con musicisti di Contemporanea tra cui Piera Pistono, Fausto Tuscano e Gwyn Pritchard e con il regista fotografo Fabrizio Portalupi per le opere Femina Fera (Mondadori Electa 2006), che ha ricevuto il Premio Roberto Farina nello stesso anno di pubblicazione, e EuDemonia (Palazzo Spinelli Arte, Firenze), messo in scena al Teatro Studio di Scandicci. Mie poesie si trovano in antologie nazionali e internazionali, alcune musicate  e altre tradotte in inglese, spagnolo, turco e polacco. Sono stata spesso invitata in Paesi esteri a rappresentare la poesia italiana: Argentina, U.S.A., Venezuela, Perù, Turchia.

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