Narda Fattori: ‘Cronache disadorne’

 

di Anna Maria Tamburini

 Il libro si apre al “ minuscolo” non tanto perché si dica di scene di vita ordinarie, non solo per coerenza tematica espressa dal titolo, Cronache disadorne, ma soprattutto perché, senza soluzione di continuità con il libro precedente, Verso Occidente, qui si fa discorso aperto e non concluso. Nella coerenza tematica, tuttavia, attraverso i vari libri, l’uso della parola per Narda Fattori è mutato: le dissonanze sintattiche si ricompongono in una colloquialità e il discorso tenta una coralità, si fa plurale come in crescendo, soprattutto nella seconda parte della raccolta. In primo luogo la Fattori rovescia il detto popolare o il proverbio: «predestinata allodola col rischio / degli specchi», che è l’autoritratto del testo di incipit. La poetessa tenta di liberarsi dagli schemi in un libero andare della parola sull’ onda lunga dell’ evocazione e della reduplicazione dei suoni, anche cacofonici, per controcanto: è ammesso il gergo del parlato giovanile, l’inglese del mondo globale e il lessico, per 1o più per dissenso, dei linguaggi specialistici: cash, password (p. 59), low dead, top gun (p. 62): «il mio vocabolario e un’ armata/ invincibile porge il miele/ e il sale che fa cuore» (p. 13). Può spingersi al risvolto ludico, si direbbe quasi per necessità di regressione all’infanzia, ma le trasgressioni segnalano uno stato patologico: alle «sghembe dis­armonie», giacche l’aggettivo qualifica entrambi i sostantivi: alla «dis-armante follia» corrisponde un cuore <<leso», una «donna con lesioni al mediastino». Fattori riesce così a nominare liricamente anche la dimensione etica, elaborando per via analogica l’ ammonimento evangelico di custodire la perla preziosa e non gettarla nel letamaio, ma insieme all’infanzia, e recuperato affettivamente anche il mito e il mondo della fiaba, per quanta capovolta, nella realtà: «Cenerentola non torna a mezzanotte / balla eros sui cubo» (p. 60). La vita si radica a luoghi precisi, come Viale Mazzini o Via Viole (p. 45) della casa paterna di Gatteo (p. 45), così tanta parte dell’esperienza si comunica apertamente al lettore: i sentimenti traditi senza perdere la speranza e la pazienza di amare, si fissano insieme alle tracce un passaggio: «del mio transito segnato nell’ardesia/ resta l’eco di un canto che fu ardito / non ci furono soste alla mia anima migrante» (p. 18), dove ritorna l’idea del nomadismo. La poesia, come la vita, si impone con immediatezza ed  è forma di una conoscenza complessa, ma anche elementare: la realtà è esperita in primo ­luogo attraverso le dita, persino con i polpastrelli e l’esperienza del dolore marca a fuoco questa parola poetica.  L’amore vive prove dolorose e gravi, ma non per  questo l’ autrice si chiude nella rinuncia, anzi, con fierezza sottolinea che “ pure così- a tentoni – non ho paura» (p. 10). C’è soprattutto il coraggio di amare. Le  patologie appartengono alla disarmonia, alla dismisura e il prefisso dis è anche visivamente rimarcato: dis-armonie, dis-armante follia. Come ai luoghi della vita,così la poetessa si radica ai luoghi della poesia e alle forme consacrate dalla tradizione, ­invoca i maestri in forma di preghiera e come circondati da un’ aura di venerazione-­«Oggi chiedo ai miei maestri tutti! di soccorrermi e portarmi a braccio/ oltre  questo cielo di grisaglia [ … ) portatemi sui palmo soffiatemi l’aria /ch’io respiri e mi si apra il cuore/ il seme dentro il suo nocciolo» (p. 8).

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