Per una sintetica web-introduzione alla poetica di Giorgio Bàrberi Squarotti

 

di Riccardo Raimondo

«Io non/ vedo nulla, vecchia anima talpa che così poco scava dentro di sé, e/ preferisce le voci d’altri i libri d’altri i cataloghi degli archivi» – scriveva così Giorgio Bàrberi Squarotti in Tre soli anni, una poesia del 1974, pubblicata nella silloge La quarta triade (Milano, 2000).
E c’è tutta una dichiarazione di poetica in questi pochi versi, c’è il segno di un orientamento.
La vista è il senso cruciale per comprendere a fondo la poesia di Squarotti, la vista più che la voce, la «voce/ vuota nell’ombra di un cespuglio debole» (Le vane nevi, Verona, 2002).
Seguiamo, potremmo dire, attraverso tutto il percorso poetico, il dipanarsi di un’intricatissima sfiducia nella voce, nella Parola – o meglio nel «vero/ mondo da sempre, povero di esistere,/ incapace di udire la parola,/ cieco, fra i fiori solari, il tremare/ delle acque illimpidite, la purezza/ dei corpi intatti che la luce accendono».

Ecco, questi corpi di luce, che si mostrano alla vista, sono il fuoco dell’obbiettivo poetico di Squarotti, sono le epifanie che salvano la voce dal farsi grido. Testimoniano allo stesso tempo una «vacanza e l’attesa o la nostalgia di un pieno» – così Franco Pappalardo La Rosa nella sua prefazione a Le Langhe e i sogni (2003) descrive l’universo di Squarotti «da cui traspare una concezione dominata dall’angoscia del sospetto che l’essere, la realtà, la storia non abbiano significato», per questo «egli usa la scrittura poetica per dare – o per ridare – un senso all’universo».
Questi corpi di luce sono le testimonianze che Squarotti cerca, di un Essere che sta al di là della Realtà, eppure la compenetra: «I punti di riferimento dell’io sono la sua intrinseca assenza, il suo tentativo di esistere al di là delle pure emozioni, della pura contemplazione di qualcosa che vibra nella luce e che, dissolvendosi rapidamente, ci illude della continuità del nostro essere nel tempo».

Siamo di fronte a una poetica dello sguardo – per usare un’idea di Antonio Prete, che scrive nel Trattato della lontananza qualcosa a cui ho subito pensato rileggendo i versi di Squarotti: «cercare nel visibile una sorta di complicità, o persino di protezione […] un movimento dello sguardo che porta sul limite del pensiero: sulla soglia, cioè, dove il pensiero si libera da sé stesso»; e così il poeta approfondisce le sue «rifrazioni interiori», per trascenderle.
Questi versi «si strutturano in una dimensione che vuole ignorare l’io e il tempo, il mondo esterno e il divenire della Storia» – così scrive il Ennio Bispuri (Direttore dell’Istituto italiano di Barcellona) su «l’eterno presente» nella poesia di Squarotti. Ed è un eterno presente che si fa carne in un altro ossimoro, sinestetico: «corpi intatti che la luce accendono», corpi di luce.

«Il centro della poetica di Bàrberi Squarotti, il nucleo più profondo e più nascosto della sua Poesia sembra essere dunque questo contrasto, questo confronto e questo collegamento costante fra un Essere senza tempo, seducente e ammaliatore, che, lasciandosi contemplare solo attraverso singoli frammenti, appare incontaminato della sua fissità, e un Divenire», un universo inferiore – per usare un’espressione di Sant’Agostino – impossibile da cogliere nella sua interezza. «Forse per questo – continua Bispuri –  l’insistenza esplicita su continue folgorazioni rende esplicita la poesia di Bàrberi Squarotti, che obbedisce senza eccezioni al metabolismo emozionale dell’attenzione verso ciò che di più lo seduce: l’immagine della donna giovane e bella. Si potrebbero citare decine e decine di versi, più o meno costruiti sul tema proustiano delle jeunes filles en fleur».

Ma non mi pare essere la dimensione umorale, metabolica del corpo a interessare Squarotti. Scrive Nerval in Sylvie: «la donna reale rivoltava la nostra ingenuità. Bisognava ch’ella apparisse come una regina o una dea e, soprattutto, che non la si potesse avvicinare».
Più che donne reali, dunque, sono – come per Nerval – figlie del fuoco le donne di Squarotti. Sono folgorazioni, apparizioni in cui s’incontra il Terreno e il Divino.
Tilopa (mahasiddha indiano del Buddhismo Vajrayana, 928 – 1009) scrive: «Qual è questa realtà che trascende le forme eppure le compenetra?».

Le filles di Squarotti oscillano sempre fra il celeste e il terrestre  (da Trionfi d’inverno: «è la ragazza che si è spogliata/ tra gli arbusti e i fiori ancora accesi», «la ragazzina sola, nella luce/ verde di arance acerbe e di limoni», «la ragazza con l’ombelico nudo,/ in corsa sulla riva dell’aurora», «…la ragazza apparve agile/ nello sciame del buio, uscendo fuori/ dal fiume di luce che eterno scorre», «… una ragazza fresca/ davanti alla facciata d’ombra della chiesa»; da Le vane nevi: «e la ragazza che volò nell’aria/ per sbaglio…»,  «come l’amore/ che mi resta, sognato nel ricordo/ della ragazza quasi nuda…»,  «il vestito leggero e luminoso/ della ragazza…», «l’alta ragazza bruna, nel meriggio/ d’agosto incerto fra ansia e afa, annoiata/ e pigra contemplava dalla via/ eterna di Alba il silenzio dubbioso», «…una ragazza dolce si era seduta su una panca, aveva/ strettissimo il vestito, nuda l’anima/ abbronzata più d’ogni altra ora vera»).

Sono anche Ragazze che personificano Miti e simboli. E con Nerval Squarotti ha in comune anche il Mito: «il Mito costruito ai margini del vuoto» – come scrive Bispuri. Il Mito che è congegno di lettura, espressione e organizzazione della Realtà. Il Mito che è ponte mistico fra l’Idea e il Fenomeno e, di questa opposizione, esprime tutto il contrasto, il dolore, la tragedia: «Lo spettacolo/ ambiguo: orrore, ansia,/ sospensione e anche accelerato tempo,/ attesa e invocazione e volti astratti,/ ed echi d’echi e infinitamente/ ripetuti, […] le esplosioni che qui e in ogni altro luogo/ distruggono e reinnalzano le case:/ il sapiente sa che tutto è verità,/ e alle spalle è l’inganno, invece, il sogno,/ l’illusione felice, li vorrebbe / contemplare e poi scrivere e descrivere,/ e invece piange, senza fine piange» (Platone, 2002).

Dunque la poesia di Bàrberi Squarotti possiamo intenderla come «il racconto dei propri sogni e dei propri miti, che si accendono e si esauriscono nel puro atto contemplativo» (Bispuri).
In Squarotti, «visivo di razza», troviamo una contemplazione attivissima, furiosa, un velocissimo e frenetico esercizio spirituale che prende forma in un verso agilissimo, in una coscienza sempre desta, «nel bagliore, nello scatto ellittico, nell’ebbrezza di un costrutto verbale, d’una frase, o nell’eleganza di un’immagine, di una visione, di una visività catturate dall’occhio fisico, o dalle mente o dalla fantasia» (Franco Pappalardo La Rosa, dalla prefazione a Le Langhe e i sogni).

Squarotti riprende in questo la dimensione mistica della poesia di Leopardi, in una coraggiosa circospezione del «nulla/ così limpido che più non è la mente stessa di Dio» (La quarta triade): un’indagine nel finito dell’esistenza, nel suo drama, nella sua angoscia.
Scrive Leopardi: «La cagione di questi sentimenti, è quell’infinito che contiene in se stesso l’idea di una cosa terminata, cioè al di là di cui non v’è più nulla; di una cosa terminata per sempre, e che non tornerà mai più» (Zibaldone, 10 dicembre 1821)
Scrive Giuseppe Savoca in Leopardi, profilo e studi: «si tratta di un nulla religioso, al limite la “nada” dei mistici spagnoli e anche il “nulla” che sarà di Turoldo […] Siamo di fronte  alla narrazione di un’esperienza di innalzamento di sogno e di estasi […] anche per la cascata di congiunzioni “e” che segnano la sintassi». Una congiunzione, una “e spirituale presente anche in tutta la poetica di Squarotti ma che, nei suoi ultimi approdi – potremmo dire –, dialoga con una disgiunzione: la “e, accumulatoria, si alterna a una mistica “o” , che distingue senza dividere, che traccia le distanze semantiche senza acuire le opposizioni, una “o” che percorre coordinate trasversali.

L’azzurro della speranza, di Giorgio Bàrberi Squarotti (Samuele Editore, 2012).

«C’era un fragore non si sa se d’ira/ o festa , e grida o canti, applausi o furie ,/ per il viale lunghissimo che porta alla fine del mondo (o forse era/ l’inizio, oh non si capiva bene, tanto confuso era il cammino e storto, […] c’erano troppi vecchi e troppi giovani/ afoni per esasperate voci/ o più probabilmente perché vuota/ è ormai la parola, spenta, esaurita)./ Soltanto due ragazze, finalmente […] si erano abbracciate e si baciavano/ nel pieno ardore e senza fine: emblemi» – così Squarotti apre L’azzurro della speranza, con questa splendida meditazione che rinnova, purificate, tutte le istanze della sua poetica.

Queste poesie, tutte composte dal 2003 al 2010, compongono una breve ma intensa cosmogonia quotidiana che miscela efficacemente toni diaristici con realtà mitiche e surreali ( «-Ti giuro, era l’autunno, un po’ nebbiose/ le colline, mi allontanai appena/ nel boschetto, ma folto ancora e acceso dall’oro delle foglie, e d’improvviso/ vidi in un breve spiazzo d’erba il satiro/ che mi guardava»; «Barbara […] lì nuda, dritta/, enigmatica un poco e sorridente / per il trionfo certo, come quello/ di Diana sulle dèe fotografate/ al mare, sulla conchiglia, in cima/ a Diano o al Citerone, in discoteca»).

Non mancano riflessioni socio-politiche – evento insolito nella poesia di Squarotti – dai toni amari, sarcastici e provocatori. Scrive in Conad, Coop (Roma, 4 marzo 2010): «Ho trentacinque anni e sono ancora/ bella: guardami, bionda, alta, sì forse/ un poco troppo magra, ma pronta, agile […] (vedi, io sono in grado anche di dire/ parole da poeta per il tuo/ stupore, e poi citare alla rinfusa/ Omero, Dante -no, non quello della/ canzone del torrente di Monforte/ o è un altro nome, forse di Provenza-,/ Giacomo, William, il caro zio Ezra,/ con cui fui tutta una notte a Parigi/ nel candido hotel di Babilonia e Suisse)./ Dico: è il destino baro. Mia sorella,/ che è moglie di un politico e l’amante/ di un operaio giovane dell’Eden,/ dice che è colpa della mia sventata/ pruderie (usa la parola inglese / per più disprezzo)./ Forse è vero. Faccio/ la commessa del minimercato/ della Piazza Martiri […]».

Il volumetto si apre con una citazione di Wisława Szymborska, da cui: «Nella prosa può esserci tutto, anche poesia,/ ma nella poesia deve esserci solo poesia».
Subito mi viene in mente un recente articolo di Carlo Carabba dal titolo Meno Sanguineti più Szymborska: liberiamo la poesia (la Lettura, n.17, domenica 11 marzo 2012, qui il testo completo). Carabba denuncia l’autoreferenzialità della poesia contemporanea, e scrive: «[…] La poesia contemporanea aveva abituato il lettore a una perplessità annoiata, cui seguivano scuse infastidite: “Mi dispiace, io la poesia proprio non la capisco”. A un’obiezione del genere Edoardo Sanguineti, sprezzante come suo costume, replicò: “Non mi capiscono? Che studino!”. Bene. Studiare cosa? Verosimilmente dei saggi firmati da esperti che mostrino e dimostrino che Sanguineti è il massimo fra i poeti. Così, secondo la critica post-avanguardista, eliminato il giudizio di gusto mi piace/non mi piace, la possibilità di valutare una poesia segue il possesso di regole rigide e inconfutabili, di competenze iniziatiche, criteri pseudoscientifici e autoreferenziali».
La forte provocazione di Carabba, lì dove può apparire intransigente segnala però una forte mancanza, uno spazio lasciato vuoto da un continuo degrado del lirismo, che ha allontanato la poesia dai lettori, la poesia dalla poesia stessa.
E proprio questo lirismo Squarotti recupera vivacissimo, applicando spiriti antichi a un linguaggio moderno, ma senza scomodare lo sperimentalismo o l’avanguardia. Lo stesso lirismo che Vincenzo Ostuni, nella prefazione all’antologia da lui curata Poeti degli anni Zero (2011), denuncia e abborisce, cavalcando l’onda debolissima di una sperimentazione “post-modern-ica”.

In questo senso la poesia di Squarotti s’innesta in un ampio e attualissimo dibattito, testimoniando lo spirito di un lirismo novecentesco ancora vivo, e che si erge come un alfiere immobile sul disordine della poesia contemporanea.

Mini-sitografia:

Poesie, Giorgio Bàrberi Squarotti di Giovanni Nuscis (lapoesiaelospirito.wordpress.com). Una breve selezione di versi dal 1974 al 2003

Le langhe e i sogni (poiein.it). Prefazione di F. Pappalardo La Rosa, e alcune poesie

L’eterno presente nella poesia di Giorgio Bàrberi Squarotti di Ennio Bispuri (raco.cat, Quaderni di Italianistica)

La buona gara (libroitaliano.it). Silloge

Una selezione di versi da L’azzurro della speranza (samueleeditore.it)

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