Dante Maffia: “Di Rosa e di rose”

 

di Fortuna Della Porta

Esistevano le ragioni affinché Dante Maffìa ponesse mano ad un poemetto sulla rosa. Sposato a Rosa- alla quale il libro di certo si volge come gesto di amore- proveniente da Roseto Capo Spulico, ma soprattutto fine intellettuale, in grado di risalire la letteratura che da tempo immemorabile celebra l’ostentata bellezza del fiore e di appigliarne la variegata metafora (la sensualità, l’inganno, la bellezza, la passione, la caducità…) che arriva a configurare la rosa, in un risorto platonismo, come l’archetipo per eccellenza, capace di soppiantare nei simboli e nei significati la luna.

Ancor di più la rosa appare come modello bifronte, col suscitare meraviglia per le accezioni positive del suo messaggio segreto e sgomento di cui si fa allegoria la sua precipitosa dissoluzione: entità metafisica, la rosa misteriosa, che sul limite della morte arriva a svelare l’enigma del prima e del dopo.

Antica è la configurazione soprasensibile, o comunque l’oltre da sé, che al fiore fu attribuita già dalla cultura araba e in particolare dalla poesia, ma, nella stessa veste, ha segnato l’esordio della nostra letteratura –rosa fresca aulentissima-, è proseguita con Dante che la recupererà nella mistica Rosa dei beati nell’empireo, nel trentesimo canto del Paradiso, e con Ludovico Ariosto nel I canto dell’Orlando furioso. E si potrebbe continuare ad libitum.

Il serpeggiante scavo di Maffìa arriva a Borges, al quale la cecità ha tolto la vista delle rose, ma ha concesso quello della Rosa. A questo punto non è difficile che torni alla mente anche il Nome della rosa di Eco, che ha chiarito in diverse postille l’omaggio che ha inteso rendere a Borges e che ci porge un aiuto prezioso allo svelamento completo della esemplare forma archetipa.

Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.

Persino Heidegger per spiegare uno dei capisaldi della sua filosofia si serve di un distico di Silesius che ancora una volta chiama in causa la rosa.

Un tale articolato e raffinato percorso si palesa come intento programmatico sin dalle rime poste ad epigrafe, che colgono i significati su indicati, relativi alla rosa, tutti insieme, perciò il primo fraintendimento da correggere percorrendo il canto è quello di un libretto ‘leggero’ per il numero contenuto delle pagine e l’esaltante nitidezza della scrittura.

Col suo andamento sornione e pacato, la poesia di Maffìa, dunque, non riesce a trarre in inganno. Nella filigrana si intravede questo recupero culturale multidirezionale, di cui il poeta si avvale per dipanare il tempo che è passato, il sentimento che lo ha infiltrato e i bilanci che ancora non disdegnano nuove rivelazioni.

I simboli si sono consumati,/le ortiche avvizzite. Una tempesta/insidia gli archetipi./ La rosa si ribella e sul balcone /danza discinta,/ canta a voce piena.

La rosa con passi agili crea/ improbabili parole. / Si ripete il suono/ che genera la vita.

Attraverso il susseguirsi delle metafore, Maffìa ripercorre il suo arco spirituale, del quale la rosa resta fedele compagna nella sua forma assoluta e onnicomprensiva.

I tratti su cui l’anima si affaccia –vento, tempesta, balconi, boccioli- sembrano ricondurci continuamente a luoghi fisici e geografici, invece sono sempre paesaggi del cuore e della mente, utili per riflette per poi ricondurre i sogni all’ovile.

Di tanto in tanto a ripercorrere la vita trascorsa in simbiosi di Rosa e della Rosa è pur tempo di emozione e di tristezza, senza che esse si trasformino in elegia:

Avido d’incanti/ ho distrutto gli orizzonti/ sprecando la tenerezza./ Adesso rosai infiniti tessono la malinconia.

Anzi se pur ispessiti dall’empito emotivo, legato a ciò che è stato, i versi si mantengono sobri, con una propria virile compostezza.

Questo senso della perdita della stagione più fulgida ritorna anche altrove. Le rose…colmano/le perdite disseminate lungo la mia vita.

Si ha l’impressione di leggere di un consuntivo, sul quale quasi sempre si stende il velo del rimpianto, ma non la disperazione, verificato con la saggezza di chi si avverte a fluire nella perennità delle cose nonostante gli inganni subiti, nell’attesa di verificare il progetto dietro le quotidiane caduche apparenze. Quindi non sembra affatto sottaciuta la fiducia in un disegno della divinità che pacifichi alla fine la sua creazione.

Era l’infanzia, l’inconsapevole/ sazietà dei sogni,/ il fiato di Dio/ che dai balconi dava segnali/ d’esistenza.

In questo senso è indicativa la scelta dell’omaggio ai due altri poeti di lingua spagnola. Gabriela Mistral simbolo del dolore, nei suoi sonetti nati dalla cruda esperienza del suicidio del marito e Jorge Guillen (ritorna il nome Jorge, voluto anche da Eco, ancora, mi piace pensare, per un’astuzia intellettuale), che intende la sua opera come una celebrazione dell’uomo, della natura, della creazione.

Nella poesia dedicata alla poetessa cilena si legge: Non proteggere la rosa: / t’incendierebbe con il suo splendore, ove mi pare adombrata la valenza sempre distruttiva della passione.

Speculare la vita umana alla rosa, dunque, dalla lucentezza iniziale alla caduta da cui tuttavia si affretta a ricominciare, in un flusso democriteo, eterno e irrimediabile.

Di Rosa e di rose si avvale di una lingua che oserei definire atemporale, per l’uso di una parola pura e incontaminata, incardinata in un ritmo suadente percorso da assonanze e vere e proprie allitterazioni (passi…passioni…rose rosse…)

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