Tutte le poesie di Alfredo de Palchi

 

[Dal volume di saggi “Alfredo de Palchi-La potenza della poesia” , a cura di Roberto Bertoldo, Ed. Dell’orso, AL, 2008]

Non è solo un libro carismatico, di corposa spiazzante poesia, questo Paradigma, raccolta dell’opera omnia dell’ottantenne poeta Alfredo de Palchi, edita da Roberto Bertoldo per Hebenon. È anche una bruciante straordinaria testimonianza di un uomo che ha attraversato il ‘900 in uno dei suoi periodi più bui, subendone in proprio ferite irrimarginate. E fu proprio la sua vicenda giovanile ad innescare l’incipit per una scrittura poetica personalissima e infuocata, ad orientare fatalmente l’autore verso una scelta letteraria irrinunciabile, ancora in essere.
Alfredo de Palchi subì da giovane sei anni di ingiusto carcere alla fine della seconda guerra mondiale, condanna da cui fu poi interamente prosciolto, ma le vessazioni subite lo influenzarono radicalmente orientandone la visione della vita e dell’uomo. Durante la reclusione avvenne l’innamoramento per la scrittura poetica, proseguito poi per la vita, vissuta in gran parte negli Stati Uniti, dove nel 1956 si stabilì definitivamente e dove ancora vive, scrive e dirige la prestigiosa Fondazione Sonia Raiziss attraverso cui si è reso benemerito divulgatore della migliore poesia italiana all’estero.
E Roberto Bertoldo colpisce nel segno quando in premessa definisce de Palchi il “Céline della poesia” per lo scossone dato all’accademismo operante. La scrittura di de Palchi è infatti segnata fin dagli esordi da un’invincibile insofferenza per ogni scuola tendenza canone, fedele solo al proprio irrinunciabile istinto di rottura. Ma più d’una sono le analogie con Céline: anche de Palchi, come Céline, non potrebbe mai somigliare al letterato istituzionale, di carriera, attento alla conquista del suo piccolo potere; anche lui, come Céline, autodidatta, iniziato in carcere con letture furiose, a cominciare dall’amato Villon, di cui riporta spesso in epigrafe alle raccolte versi fulminanti; anche lui con la sua denuncia della guerra, della disumanità, del falso moralismo, pessimista ad oltranza sul futuro dell’uomo; anche lui con un linguaggio nuovo, un lessico ibrido tra basso-colloquiale e alto-sofisticato di grande incisività, con cui trasfigura il materiale incandescente della sua vita. Come Céline, ancora, de Palchi si sente ovunque uno straniero, non credendo né al sogno americano né alla capacità risolutiva del sistema umano in toto, politico, scientifico o religioso che sia. De Palchi appare fidarsi soltanto dell’espressione libera, non ideologizzata, della parola.
Attraverso le varie raccolte succedutesi negli anni – molte delle quali stranamente pubblicate da piccole case editrici italiane – e fin dagli scritti carcerari (La buia danza di scorpione), si avverte l’impatto con una scrittura potente nella sua intatta freschezza: ho gli occhi pesti come / dopo l’incendio terrestre / la notte / la volontà di vedere quello che d’abitudine / si dimentica (p.43)
una parola lucida di disincanto: il pane della discordia / la trave nell’occhio / la fionda che punta il mondo / scroscio d’oro del gallo / nel giorno della disfatta trovo la verità (p.57)
testimone di intollerabile violenza: il dio assassino insiste / sì,sì / ho ucciso,basta! – / mi nettano lo spirito delle piaghe / non bevo acqua / sul pavimento chiazzato dalle mie bocche / ho vino e pane. (Sessioni con l’analista, p.114).
una scrittura manifestamente ironica sull’impossibile riscatto etico dell’umanità: la bandiera uno straccio / per infagottare chi muore per niente / la religione un tumore perché / marcisca la razza… / si suoni la sirena / per una civiltà nuova (Reportage, p.121).
Ed è nella raccolta Sessioni con l’analista che i fantasmi della sua vicenda di ragazzo sprofondato d’un tratto nel gioco assurdo di guerra trapassano in lunghi brani sarcastici in cui un immaginario dialogo con l’analista rivela, nel persistere dell’incomunicabilità, tutto il limite della scienza psicanalitica e l’impossibilità di una risposta di senso: il” perché” è domanda stupida / incomunicabile / quello che neanche mi disturba / – difficile – / impossibile estrarlo, rimane una cava / paleolitica, /impossibile cauterizzarlo e ancora il tuo “perché”.
Contemporaneamente rimandando il proprio dramma a quello della condizione dell’umanità intera: tutto è inconsistenza della costanza: / gli errori, i funghi / di veleno umani, i mimetismi pervasivi / evasivi, auscultare il prete e il malato, / ascoltare il giudice, l’oratore di piazza, /il politico che destreggia reali / irrealtà nelle menti deboli, / il mondo è quello che non è e vale un osso.
Tutta l’opera depalchiana è pervasa dalle dichiarate ossessioni dell’autore: oltre l’incancellabile ferita della violenza carceraria sono evidenti l’ossessione erotica e quella, benché presente in minore consistenza, della presenza metaforizzata di animali, dal maiale sgozzato agli insetti, dallo scorpione ai pesci, in cui l’autore spesso si identifica, volendo significare la partecipazione dell’intera natura alla globale desolazione, nella progressiva distruzione di una terra che continua a germogliare senza sbocco. Basta soffermarsi sugli intensissimi versi: scogli atolli continenti / in tumulto di uccelli e animali senza scampo / nelle nevi e siepi di orizzonti / dei gelidi groppi di abitati / arresi alla non ragione / e alla strada che aguzza la mente nel totale / della bianchezza – (Costellazioni anonime, p.183)
senza tralasciare che anche gli scenari prediletti – angoli intravisti dai vetri di una finestra – di una periferia urbana newyorkese degradata (come qualsiasi altra periferia del mondo) sono zone simboliche in cui poter attuare ogni giorno tentativi rinnovati di vita. È questo il senso dello spasmodico rivolgersi al corpo femminile, avvertito come luogo primigenio dispensatore d’energia per un altro oscuro domani.
Eppure in quello stare alla finestra di un mondo in disfacimento si arguisce una sottesa distanza, come una voglia sottile di estraneità, una speranza: …tra gli alberi / anneriti dalla bianchezza / che seppellisce il mio passo verso di te / là nel suolo / non dormire sul mio viso di vecchio bambino, / segui le rughe che segnano un’esperienza e impara / che la mutilazione dello spirito cresce in una nuova / dimensione come il grano sotto la neve (Le viziose avversioni, p.269)
Così anche la chiarità nella descrizione del fiume Adige, nel paesaggio depalchiano dei ricordi si fa simbolo di realtà possibile incontaminata, zona naturale neutra nella sua inconsapevole essenza di perennità: …Adige: primordiale che mi narra / lievita la scia in cui divento una lisca / ex pesce- questo / paesaggio d’apocalisse / acqua / pietra / è crudezza essenziale / e il fiume / prima speranza / non sente non sa della mia naufraga esistenza / non sente non sa dell’arcaico presente (Sessioni con l’analista, p.172).
E l’ossessione erotica, ampiamente dispiegata dapprima in Movimenti, poi nei più recenti testi di Essenza carnale, diventa scrittura di notevole suggestione, resa con punte di grande musicalità e usando un lessico che varia dal crudo, talvolta anche blasfemo, al fortemente visionario, come in: Sei: anagramma, motore, / ricettacolo, luce, una / parete rosa di compensati, asma, il boccio / fortuito che urla / e lacrima a testuggine, / una grammatica (Movimenti, p.245). Mi pieghi e da francescano prego sul tuo corpo / altare / tabernacolo / messa del mio cibo (ibidem, p.268).
Nel suo parossistico delirio il poeta arriva perfino a dubitare che la sua compagna “esista”, ad annullare perfino la propria “fierezza”, e volutamente esclude qualsiasi descrizione di dinamiche psicologiche. Ma la sua tensione insistita sulla fisicità si lega inconsciamente al persistente mistero femminile se, come egli stesso asserisce, la sua ansia di “sciogliere per sempre questa sua neve”, questa imprendibile essenza altra, è qualcosa che forse va oltre una mera visione di corporeità, oltre il se stesso “mortificato dalla mortificazione” del solo possesso carnale. Di sicuro il de Palchi erotico – come ogni altro poeta erotico – e come forse una lettura psicanalitica, più appropriata, potrebbe rivelare, appare uomo in fuga dalla propria memoria, deluso dallo svanire della promessa umana e questa espressione densa di fisicità nella scrittura è una dimensione di liberazione, una possibile via per ottenere ultime risposte. In tal senso la sua poesia traduce appieno il senso del tempo, è svelamento emblematico della insoddisfazione dell’oggi.
In “Mutazioni” il poeta continua a dare una definizione di sé nel mondo come forza sorda / o meglio un rumore nel niente, / vivendo in un affogo di mutazioni / privo di baluardi ed esiti e del tutto che si decompone-fungo / amletico / uomo spostato: ogni azione / risulta un fallimento, nell’insensato ripetersi della storia incapace di insegnamenti.
Il linguaggio depalchiano è, consequenziale al suo malessere, denso di termini che fanno riferimento alla corruzione e al marciume dell’uomo prima che delle cose e, per contrasto, realizza veri e propri fuochi d’artificio verbali laddove l’autore decide di perdersi e perdere le coordinate del presente. Con un lessico mai gergale, sebbene talora crudo. Lungo tutta l’opera la parola si muove in un continuo mosaico di registri, dove l’originalità è nella rottura sintattica e semantica, nel frangersi delle frasi all’interno del verso, come un voluto balbettio di fronte alla crudezza illuminata della realtà: …incontro gente che non capisco / e non capisce / come portare un fagotto / sulla schiena è la gioia / perché / temere quella strada / sono un bastardo che si gratta le pulci / il dominio del cuore è soggetto / femminile / e non dimentico / che nessuno mi ha crocifisso / se non io stesso (Le viziose avversioni, p.191) nel ripetuto uso dell’intransitivo come transitivo (mi indietreggia; fioriscila,etc.), nonché di infiniti termini inattesi originatori di straordinari effetti di straniamento.
Una poesia che è continua, spontanea, ineluttabile provocazione, che trova il suo felice compimento in una sorta di ubriacatura attraverso la parola, un delirio capace di raggiungere, e far raggiungere, i luoghi irraggiunti dalla ragione.
Poesia di libertà, come sostiene Alessandro Vettori nella sua lucidissima introduzione, irriducibile a qualsiasi modulo novecentesco.
Poesia capace di farsi varco al flusso totale della vita, al suo ascolto incondizionato e alla sua ineluttabile trasmissione attraverso la parola.
Una scrittura di tale tempra non può essere relegata, come già notato da Donatella Bisutti in un suo intervento sulla rivista Poesia, “in uno strano limbo” da una critica attenta.
Già, ma dove, oggi, la critica?

marzo 2007

Annamaria Ferramosca
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1 Comment

  • Ho letto la Sua presentazione alle poesie di Alfredo D. P., e sono d’accordo con Lei su molti giudizi emessi a difesa, ma bissogna anche attaccare e in questo io e lui siamo della stessa alta qualità… quandon ha letto l’anno trascorso i miei versi è restato come folgorato sulla via di Sagredo (cioè io, Antonio) che mi ha fatto una proposta che attendevo da 45 anni, e io ho acettato! Pubblicherà le mie poesie – in nome della Poesia – con la sua casa editrice; già contattato un valentissimo traduttore scelto da lui. E dunque si è avverato quanto io speravo, e cioè che giungerà il momento anche per me senza dare e togliere a chicchessia qualcosa.
    La ringrazio.
    antomìnio sagredo

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