A proposito di “Addio alle Armi”

 

In tal modo all’infinito, attraverso il tempo, gli esseri del mondo si odieranno
e contro ogni simpatía manterranno il loro feroce appetito.

Michel Foucault

 

[Per i complottisti ed i sospettosi valga la seguente avvertenza: nessun invito alla massoneria o ortodossia poetica. Per i cinici ed i paranoici solo pacche sulle spalle e consigli medici in privato.
Queste parole e quelle che seguono sono di chi scrive. Ad esse si aggiungeranno, di giorno in giorno, quelle di tutti coloro che avranno qualccosa da dire. lb]

È necessario fare uno sforzo perché la poesia torni ad essere una cosa seria: questo il “leitmotiv” che ci ha accompagnati durante l’incontro di Verona di qualche giorno fa.
Uno sforzo non perché la poesia possa dettare le regole – come forse mai è riuscita a fare, ma perché torni ad aprire dei varchi. Non una questione di potere, dunque, ma di possibilità.

Far rientrare dalla finestra del retro la poesia (e, suvvia, i poeti!) che Platone fece uscire dalle porte principali della sua Repubblica – chiusa a più mandate da un cartesianismo trasformato in scientismo senza scrupoli – potrebbe essere una alternativa (o una soluzione) al “loop” tautologico in cui ci ha rinchiusi il linguaggio operativizzato del nostro secolo, coerente solo rispetto a se stesso ed alle sue regole interne che tendono sempre più a separare definitivamente l’enunciato dall’enunciazione e dall’enunciatore, ovvero: dall’esperienza.

In un mondo dove la unica dimensione pare essere quella tecnologica, in cui il reale è razionale, il razionale è funzionale e il funzionale è operativo, il rischio è quello di assistere all’estinzione dei concetti, rimpiazzati da un insieme di operazioni che descrivono senza sfumature, senza dare spazio ad altre possibilità. Già nel 1928 c’era chi affermava che «non ci permettiamo più di usare come strumenti, quando pensiamo, i concetti di cui non possiamo dare una descrizione adeguata in termini di operazioni» [1].

La pertinenza di tale osservazione ci riguarda tutti, indistintamente e da vicino, nella misura in cui le conseguenze della sua verità si ripercuotono sullo stile[2] nell’accezione jüngeriana del termine, ovvero sull’esercizio, all’interno di una necessità storica, di quella libertà che decide delle sorti di un popolo.
Per questo motivo, ogni epoca letteraria è una involontaria confessione della società che l’ha prodotta[3]: le sue opere sono una dichiarazione di poetica, mentre gli stili rappresentano la direzione verso cui la stessa società ha scelto di spingere l’esercizio della sua libertà. Per lo stesso motivo, la portata etica di ogni atto di scrittura e lettura si manifesta in tutta la sua evidenza.

Da questo discorso che sembra torcersi retoricamente su se stesso, sono molte le cose che, a mio avviso, possono evincersi. In particolare:

a) che la varietà, la differenza degli stili è una risorsa, non un ostacolo, e come tale va salvaguardata, apprezzata, rispettata. Il feroce appetito di cui parla Foucault[4] è l’appetito di essere che, nonostante le similitudini capaci di ridurre tutto a un punto, spinge ogni entità a preservare la sua esistenza. separandosi attraverso la differenza.

b) che la critica è uno strumento indispensabile di comprensione e “democratizzazione” dell’esercizio della libertà nella misura in cui riesce a darsi come luogo di scambio osmotico tra singolo e comunità, come intermediazione tra realtà e immaginazione, tra autore e lettore.Critica, dunque, come luogo della transustanziazione della mania, della idiosincresia, della ossessione del singolo a norma etica della comunità.

c) che tale osmosi, tale scambio onesto è augurabile su tutti i livelli, perché la varietà da risorsa non si trasformi in limite, perché la critica non diventi pedante cronacismo e perché la lettura non rappresenti un mero intrattenimento.

Come disse qualcuno una volta, la letteratura non la fanno i libri ma i discorsi sui libri. È importante, allora, non solo – e non tanto – scrivere libri o leggerli, ma parlarne – possibilmente non a vanvera e con cognizione di causa.

Che la lettura sia un atto tutt’altro che passivo, che sia altrettanto creativo che quello della scrittura e che un libro scritto e non letto rappresenti un atto incompiuto sono cose risapute che, però, non fa male ricordare ogni volta che se ne ha l’occasione. (Per maggiori approfondimenti sull’atto della scrittura e della lettura, rimando alle lucide e condivisibili tesi del Sartre di Cos’è la letteratura). Ciò che, invece, ritengo che debba essere affrontato più dettagliatamente sono le più comuni tra le obiezioni dei nonlettori di poesia.

1)      La poesia ed i poeti sono incomprensibili, noiosi, autoreferenziali. Questa la ritengo – magari a torto – delle obiezioni la più diffusa tra i nonlettori di poesia. Ora, io non metto in dubbio che ciò sia vero. Vorrei però capire dov’è la comprensibilità, l’intrattenimento e la referenzialità della economia, della tecnologia, della biologia, solo per fare alcuni esempi pratici di tematiche complesse con cui abbiamo a che fare quotidianamente – penso allo spread, agli apparati tecnologici, all’inseminazione artificiale, alla eutanasia, all’ospedalizzazione in generale: tutti argomenti la cui complessità richiede un linguaggio proprio, specifico, ed un determinato apparato logico a cui tutti, in maggiore o minore misura, si sforzano di adattarsi, abituarsi.
Mi si dirà: ma il linguaggio dello spread, dell’inseminazione artificiale, dell’iPad, di internet, pur essendo complesso, pur essendo una noia, pur essendo incomprensibile, ci riguarda perché decide delle sorti del mondo.
Vero, verissimo! Però è pur vero che la stessa cosa possa dirsi della poesia, nella misura in cui si smettono i panni del nonlettore naif che cerca nella poesia l’emozione del “miracolo, del mistero e dell’autorità” e si comincia a vederla per ciò che realmente è: un sistema complesso con le sue proprie regole, con il suo proprio apparato logico e un linguaggio specifico alle prese con il linguaggio stesso. Detta in altre parole, la poesia è una attività oggettivamente seria, soggettivamente appassionante e socialmente determinante, proprio come la scienza, la tecnologia, la economia, e non capisco perché, se nessuno legge Stiglitz in spiaggia, tutti pretendono leggere Foscolo sotto l’ombrellone.

2)      La poesia ed i poeti, la solita solfa: parlano sempre delle stesse cose, vivono nel loro mondo, non si interessano di politica, non si preoccupano della società della quale fanno parte. Bene: non vi è nulla di più falso. Non essendo abituato a fare di tutta l’erba un fascio, non escludo che ciò sia vero in certi casi, ma non in tutti – rimanendo in ambito botanico, Einstein scrisse che un bosco non può essere fatto solo di rampicanti. Appunto.
Detto ciò ed ammettendo che tale obiezione sia vera, mi chiedo: ma gli economisti, gli antropologi, i fisici, non vivono anch’essi nel loro mondo? Non parlano anch’essi sempre delle stesse cose. E soprattutto, perché si pretende dai poeti che siano esperti di tutto e si occupino di politica, sociologia, antropologia, psicologia, e magari letteratura, e non si chiede ai fisici di occuparsi di poesia, ai matematici di antropologia, ai biologi di economia? Qualcuno faccia luce su questo, perché qui è davvero il buio.

Ecco, senza dilungarmi oltre, mi fermo, convinto di aver offerto abbastanza ragioni (che spero valide) per dimostrare che anche la poesia è una cosa seria, con una dignità pari a quella di qualuque altro atto volto alla conoscenza dell’uomo .

A questo punto, però, perché la poesia possa dirsi degna nel rispetto di quelli che sono i criteri che il secolo in cui viviamo ci impone, come dicevamo nell’invito per Addio alle Armi, risulta necessaria “non tanto una sistematizzazione dei risultati in termini canonici, quanto una organizzazione strutturale del campo poetico”.
Ciò non significa cercare accordi forzosi, creare artificialmente dei gruppi privi di affinità o forzare la poesia entro degli argini tassonomici impossibili da costruire; al contrario, significa creare delle alleanze dove l’interesse per l’altro, per la differenza, riempie lo spazio di una affinità assente che altrimenti rimarrebbe vuoto. Un vuoto che, con il tempo, rischia di trasformarsi in baratro, voragine, rendendo impossibile la costituzione di una comunità ed alimentando il focolaio delle comunelle.

Alleanza, interesse, affinità e comunità sono le parole chiave emerse durante il dibattito. Riprodurre l’alleanza che c’è tra le pagine di un libro, secondo la bella metafora di Flavio Ermini, vorrebbe essere lo scopo: ogni pagina è legata all’altra dal filo rosso del senso o semplicemente da quello bianco della rilegatura; sta assieme alle altre non necessariamente per affinità e senza perdere la sua identità di pagina.
L’affinità, come suggeriva Serse Cardellini, è sicuramente importante per capirsi, per intendersi e non fraintendersi e deve essere alimentata, sostenuta, facilitata, non per fare associazionismo ma per fare comunità – due cose molto diverse, come sottolineava Alessandro Assiri. E nel momento in cui non vi fosse affinità è necessario fare in modo che subentri l’interesse: l’interesse per il semplice fatto di avere delle cose in comune che possono essere condivise, come il fatto di essere umani e quello di interessarsi di poesia.

Un annuario di poesia, un “diario di bordo” della poesia contemporanea italiana ha la pretesa di voler rappresentare la sintesi di tutti questi elementi: della alleanza, dell’interesse, dell’affinità, della comunità.
Un embrione di qualcosa si lascia intravedere all’orizzonte. Per tutto il resto, tempo al tempo.


[1] W. Bridgman, The Logic of Modern Physics, Macmillan, 1928

[2] Ernst Jünger, Trattato del Ribelle, Adelphi, 2007

[3] Luigi Capuana, Cronache Letterarie, Giannotta Editore, 1899

[4] Michel Foucault, La prosa del mondo, Bur 2009.

Luigi Bosco
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21 Comments

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  • @ Enzo (e di riflesso @ Christian):
    la proposta operativa era inizialmente Poesia2.0, nata proprio per i propositi su cui stiamo discutendo.
    In un editoriale che ho scritto per l’occazione del primo compleanno di P2.0, però, ho spiegato la necessità di aggiustare il tiro: nonostante i buoni propositi, anche poesia 2.0 si stava trasformando nell’ennesimo gruppo che porta avanti certe idee, certi principi, certi programmi sempre però un po’ per i cazzi suoi (per dirla con un linguaggio chiaro ed esplicito). Dopo un anno di attività mi sono accorto che, nonostante l’obiettivo fondante del progetto di fare comunità, P2.0 stava rischiando di diventare l’ennesima comunella, un altro piccolo orticello da coltivare appassionatamente con gli amici della redazione.
    Non che ciò sia il male assoluto; semplicemente non rispondeva alle esigenze di partenza per cui è stato fondato il sito/progetto – come se non ci fossero abbastanza siti, riviste o luoghi virtuali e fisici che parlano di poesia.
    Da qui, la necessità di correggere il tiro, di fare un ulteriore tentativo e vedere cosa succede (si va, ormai, per prove ed errori, con la imprescindibile necessità ed onestà di ammettere questi ultimi quando ci sono).
    Tu chiedi: d’accordo sulla comunità, però: come farla? e Christian (giustamente) dice (sempre in parole povere): fatti, non pugnette.
    Bene. Su come si faccia una comunità non rispondo con un discorso perché non lo so. Posso però rispondere con dei fatti, degli atteggiamenti, delle proposte.
    Sulla concretizzazione dei buoni principi, dico che è necessario creare un contesto all’interno del quale l’esercizio della “sinergia” diventa una pratica non solo possibile, ma auspicabile da tutti. la dispersione è a mio avviso il problema principale che caratterizza l’ambito poetico: mi hai inviato un tuo intervento che parla del tuo progetto Esistenze e Resistenze. Ecco, non per sminuirlo (anzi!), però non credo sia l’unico che viaggia sui medesimi binari. Mi viene in mente, per esempio, Thauma, con delle intenzioni molto simili. Anche Poesia Condivisa di Annamaria Ferramosca è un ottimo progetto che si sforza tantissimo al servizio delle numerose voci poetiche cercando di metterle in contatto con il mondo che pare se ne freghi. Allo stesso modo, non credo sia l’unico. Poesia 2.0 stesso è un bel progetto, ma non l’unico! Dunque è questo che credo bisogna capire e cercare di sfruttare in modi più produttivi: che ogni progetto, iniziativa nell’ambito poetico non sono unici. Da qui l’esigenza di sinergia tra le innumerevoli iniziative che, sconnesse da tutto il resto, possiedono si una loro forza, ma pur sempre una forza limitata.
    Ora credo sia evidente che ho detto tutto e niente e credo sia evidente che non si possa pretendere di cambiare lo stato attuale delle cose in un giorno. Ma bisogna cominciare da un punto. E quello che abbiamo pensato è stato innanzitutto mettere in contatto tra loro tutte le realtà che si occupano di poesia per scoraggiare l’isolazionismo in cui tendono a chiudersi o vengono messe per circostanze terze. Non si può pretendere di arrivare a “tutti” se non si riesce ad arrivare nemmeno a chi ci sta accanto.
    L’annuario/almanacco ci è sembrata una buona idea, da un lato per fare un po’ d’ordine ed organizzare strutturalmente (e non canonicamente o tassonomicamente) l’ambito poetico, dall’altro per fare in modo che anche relatà distanti e diverse tra loro comunichino all’interno di un ambiente che fa della differenza una forza e tenendo ben presente che la differenza si situa nelle pratiche e negli approcci, non negli obiettivi.
    Dunque la traduzione pratica dei buoni principi, su cui tutti sarebbero d’accordo perché buoni e che risulterebbero retorici se si continuasse solo a parlarne, è questo almanacco della poesia italiana contemporanea risultato (e non obiettivo) degli incontri fissi che annualmente si riusciranno a mettere in piedi durante i quali tutti sono invitati ad esercitare questa famosa pratica della sinergia.
    Ad ogni modo, altri aggiornamenti arriveranno un po’ per volta man mano che le succedono cose 🙂
    L.

  • Mi scuso con tutti i presenti per arrivare con un eccessivo e inqualificabile ritardo, ma oramai è diventato il leit motiv della mia esistenza (resistenza?).
    In risposta all’articolo “Addio alle armi – per una convivenza delle poetiche” e ai commenti lasciati, in ordine sparso (e con la necessaria “opinabilità” che mi contraddistingue), una serie di considerazioni:

    “Partecipazione” (Alessandro Assiri), senz’altro. Un doveroso, ma nemmeno tanto scontato, punto di partenza. Mi soffermerei anche su “edificante”, rimarcando l’accezione della mera costruzione, ovvero di una messa al lavoro di un qualcosa che può e deve crescere, creare cioè un edificio ideale ove concordare, pianificare, inventare (e consolidare) possibilità di sviluppo. In ultima (primultima) istanza il “libro”, come oggetto reale, concreto e palpabile, come strumento e tramite, perché il libro è un oggetto pesante e pensante, si fa depositario del peso (anche la leggerezza e l’arealità hanno il loro peso, beninteso) della scrittura, veicola il pensiero di chi si è concesso il lusso di inchiostrarlo. Questo oggetto è il vero “soggetto” di cui abbiamo bisogno per “spacciare” letteratura.

    *

    “Volontà” (Sebastiano Aglieco), altra parola-chiave. In anni di attività sul campo mi sono reso conto di come questa parola sia spesso male (o comunque superficialmente) interpretata. La volontà non va confusa con la semplice voglia di fare, è una condizione umana-soggettiva (talvolta innata o addirittura pre-logica) prima ancora che sociale-oggettiva. Non va quantificata e risolta in una semplice estroversione verso l’esterno. Chi è conscio di possederla (chi cioè non la considera una mera caratteristica, ma tenta di metterla al lavoro come una “qualità”) sa che la sua declinazione pretende, a monte, un’ “apertura” senza limiti di gettata né tanto meno restrizioni ideologiche.
    Voglio che sia ben chiaro (almeno per quel che mi riguarda): la volontà di in solo individuo, per quanto fattiva e determinata, non potrà mai produrre risultati duraturi, di grande apertura e di forte impatto sociale. Da qui (e da tanto altro) la necessità di una “comunità” che operi in modo programmatico e che doni un plus valore alle singole volontà partecipative.

    *

    “Dobbiamo evitare di essere in guerra con noi stessi” (Marco Furia), verità sacrosanta. La guerra “intestina” non può che amplificarsi in una simile prosecuzione verso il “fuori”, ovvero nei rapporti con altro e altri.
    Deporre le armi non vuol dire porsi una situazione di sottomissione e resa, né tanto meno di considerare la poesia come un accessorio inutile e superfluo, di cui si può fare a meno e che non incide in nessun modo a migliorare o comunque a diversificare la qualità della vita. Non credo che il problema debba essere posto in termini di utilità o di inutilità, di presunta grandezza o pressappochismo, di sostanza del passato e di pochezza del presente, di forma o di contenuto, di tematiche empiriche o pragmatiche. Sono falsi problemi e non incidono in termini di fattività, di progettualità e di aggregazione. Anzi sono picchetti che rallentano (talvolta precludono) il raggiungimento di un obiettivo. E’ sbagliato e controproducente “dannarsi” sul solo aspetto concettuale. Vogliamo ripetere l’errore che tanti singoli, gruppi, associazioni ecc hanno verificato sulle loro spalle nel corso degli ultimi anni (almeno dal 68 in poi) ? Vogliamo inondare la rete di miriadi di pagine virtuali e spendere fiumi di parole su pareri soggettivi che andranno sempre a scontrarsi gli uni con gli altri e che non arriveranno mai a costruire un qualcosa che sia degno di essere considerato come il mattone inaugurale di quell’edificio virtuale cui si accennava prima? La questione va verificata sul campo, in corso d’opera, magari aggiustando il tiro di volta in volta, magari sbagliando (Luigi Bosco), ma comunque senza perdere di vista il fatto che uno degli obiettivi primari consiste nel non trasformare mai un “incontro” in uno “scontro”.
    Deporre le armi vuol dire innanzitutto comprendere che le guerre non portano mai a niente, che bisognerebbe essere in grado (e possedere l’umiltà) di abbandonare la “posizione” e di scendere dal piedistallo, che, oggi come oggi, diventa indispensabile “mescolarsi” con l’ “altro” e con gli altri, meglio ancora se diversi e orientati verso una metodologia di scrittura in antitesi alla propria. La propensione all’alterco, l’innata urgenza (?) di cercare la “questione”, sempre e comunque, a priori e a prescindere, sono caratteristiche e tratti dominanti del tempo in cui viviamo; ed è anche su aspetti come questi che bisognerebbe lavorare, su tutti gli aspetti che Marco Furia definisce, giustamente, “elementi di ostilità”.

    *

    La lingua non dovrebbe essere ridotta alla stregua di un dialetto (Gianmario), ovvero in posizione secondaria rispetto a musica, pittura e scultura, solo perché si presume che le ultime abbiano un’immediatezza e una universalità di comprensione più ampia e articolata della prima. La lingua è e rimane il principio primo della comunicazione (e che sia parlata o scritta è irrilevante). Come già accennato da altri la poesia, più di ogni altro genere letterario (sarebbe più appropriato definirle “modalità di scrittura”), si fonda su una struttura meta-linguistica ed è irriducibile a schemi, leggi, parametri oggettivi, insomma a tutto ciò che è preordinato e precostituito o che comunque ne limiti il raggio d’azione e le possibilità evolutive. Inoltre questa sua peculiarità si presta alla ricerca e alla sperimentazione di sempre nuovi canoni e modalità espressive. Vogliamo ingabbiarla in una metrica obsoleta che non interessa più a nessuno? Vogliamo fossilizzarla in un solo e unico aspetto? Vogliamo continuare ad illuderci che essa possegga un’ “unità” specifica e che il suo motore non sia da ricercarsi nella “molteplicità”? Vogliamo precluderci la possibilità di esplorare (e di esplorarci) sentieri non ancora ( o comunque poco) battuti ? Vogliamo continuare a incensare e glorificare un “io” sempre più anacronistico e sempre più inutile? Non credo che la nostra presenza qui si riduca a questo. Allora – facendo comunque tesoro delle esperienze che ci hanno preceduto – lasciamo che siano le nostre “forze attive e fattive” a dettare (anche qui sarebbe più appropriato usare una terminologia diversa: ad indicare e a proporre) la scansione e l’ordinamento dei mattoni che, affiancandosi e impilandosi, andranno a costruire l’edificio. Cos’è e cosa rappresenta questo edificio?. Molto semplicemente un luogo ideale ove “fare sinergia, individuare e leggere le diversità” (Aglieco), ove mettere al lavoro la “varietà come risorsa” (Margherita Ealla), allo scopo primultimo di abolire, una volta per tutte, qualsiasi tipo di pregiudizio e categoricità (anche e soprattutto “giudizi” pre-confezionati basati su canoni di riferimento e improbabili comparazioni) e di fare comunità. Come si fa comunità? Ecco, questo è il nocciolo della questione. Una possibile risposta ci è stata data da Annamaria Ferramosca : “si fa comunità quando si è disponibili ad ascoltare la voce di tutti, accoglierla ed offrirla al consenso/dissenso generale”. Ma questa è solo una delle tante risposte. Bisognerebbe che ce ne fossero altre. Sono d’accordo con Christian Sinicco quando invita Luigi Bosco a fare una proposta operativa (un po’ meno d’accordo sull’essenzialità di un proprio rigido sistema di critica, sull’idealizzazione della necessarietà di un “giudizio”, sulla ricorrenza – quasi penalizzante – della parola “selezione”, ma questo è un altro discorso), perché poi, alla fine, ogni progetto deve trovare un riscontro pratico se non vuole restare per l’appunto un progetto.

    *

    Purtroppo anch’io, come Christian, non sono riuscito, causa forza maggiore, ad essere fisicamente presente il 21 Gennaio a Verona e non so quali e quante altre proposte siano state messe sul tavolo, per cui, almeno per il momento, mi limiterò a mettere in campo la mia personale esperienza e il mio impegno in tal senso attraverso un contributo che ho inviato alla redazione.

    Buon weekend a tutti (avversità atmosferiche permettendo)!

  • @ Marco:
    scusami ma mi ero perso il tuo secondo commento.
    Ok, pensavo non fossi d’accordo ed ho cercato di disambiguare un po’ il discorso.
    Si, hai perfettamente ragione: le sfaccettature sono molteplici. Allora la domanda che mi sovviene è: come rendere il discorso meno ambiguo? su che livelli bisogna lavorare duro per raggiungere un livello di chiarezza soddisfacente, perché tutti possano chiaramente capire di che si tratta, di che si parla senza ambiguità o fraintendimenti?
    (mi viene ora in mente il discorso sulle affinità che faceva Serse Cardellini a Verona, un discorso importantissimo che in soldoni diceva: non ci si legge e non si scambia informazione perché non ci si capisce; perché i sistemi di riferimento sono così diversi da essere come lingue diverse. Qui l’interesse aiuta ad avvicinarsi alla differenza. Poi però va chiarito il discorso, vanno offerti punti di riferimento accessibili a tutti perché tutti, poi, possano avere accesso a cipo che si scrive con il proprio linguaggio. Una roba difficilissima… ma questo è anche il frutto della eredità del solipsismo e individualismo novecentesco che menzionava Michele Fabbri. Insomma: un gran bel gatto da pelare)
    L.

  • Ahah, grazie Christian per il consiglio. Però per me quello di cui si sta discutendo qui (e non solo qui) non è utopia.
    L’utopia, per quanto mi riguarda, è una categoria dentro cui rientra tutto quanto si dice e non si fa. Il resto appartiene alla categoria di reale che si divide in due parti: successo o fallimento, nessuna delle quali appartiene all’utopia!
    L.

    tienimi aggiornato su Trieste poesia

  • Luigi, l’utopia mi piace: conservala, almeno per qualche anno. Operativamente: farò la mia proposta legata a Trieste Poesia che si terrà a fine novembre.
    Un carissimo saluto

  • A mio modo di vedere, è necessario dividere il “problema” in due parti: quello che riguarda “gli addetti ai lavori” e quello che riguarda i “fruitori”. sono due problemi paralleli ma diversi che hanno bisogno di un approccio diverso.

    per quanto riguarda gli addetti ai lavori, l’idea è appunto l’alleanza, l’abbandono delle armi, la dismissione dei gruppi contrapposti, delle comunelle, delle lobby etc. perché avveng un confronto onesto e prolifico che rischia di far bene a tutti. la realtà poetica è varia e vasta, però è pur vero che si tratta sempre di poesia in tutta la sua varietà di forme. fare in modo che queste forme comunichino fra loro può produrre un discorso meno tautologico e ombelicale e più aperto al mondo, più coinvolgente anche per chi non è “addettto ai lavori”.
    Se gli addetti ai lavori non parlano tra loro, come pretendono di parlare agli altri? con che diritto? qui bisogna interrompere la guerra tra poveri cercando di accaparrarsi la quota di mercato e di visibilità più grossa – sempre se la poesia è una cosa seria, altrimenti il discorso pupo interrompersi qui.

    io mi immagino questo: una enormità di poeti, critici ed editori che, come sisifo, spingono ciascuno la loro pietra sul monte che c’è nella loro cameretta. spingono il muro della loro stanza come dei matti scatenati senza avanzare di un passo. Ecco, se questi pazzi si mettessero assieme e cominciassero a spingere tutti lo stesso muro non necessariamente nella stessa direzione, la barriera poi cade, crolla, la forza è maggiore, è da sfondamento. ma queste forse sono solo fantasie eccentriche.

    per quanto riguarda invece il rpoblema dei lettori e dell’editoria, come dicevo a Sebastiano in mail, P2.0 da circa due anni è impegnata con varie inchieste e sondaggi: ai poeti, ai lettori. Gli editori hanno risposto picche all’inchiesta. perché? bisogna dunque cercare di trovare il modo di metter su un circolo vizioso-virtuoso però assieme. se ognuno fa quello che gli pare, nella solitudine e nella disorganizzazione totale, è il caos che produce solo cambi gattopardiani. allora io dico: perché gli addetti ai lavori del campo poetico non si mettono assieme per generare attività, azioni, collaborazioni organizzate? perché ognuno continua a lavorare inutilmente mi vine da dire per i fatti propri? la forza di dieci è necessariamente maggiore di 1. A verona si parlava dei teatri. questo è un esempio come tanti: la forza di “negoziazione” di un gruppo folto di persone che “lottano” perché i teatri non vengano chiusi ma usati come luoghi pubblici per i reading sostituendosi ai rumorosi pub è solo una delle migliaia di idee possibili. ma se vado io, pinco pallino qualsiasi, a chiedere un teatro a un diretore qualsiasi mi tirano dietro le ciabatte che hanno ai piedi. se invece la richiesta viene da un gruppo organizzato di persone risulta più credibile, più “ufficiale”. non so se riesco a spiegarmi.

    lo stesso vale per la infinità di riviste di poesia, di studiosi, di critici e di blog che fanno tutti la stesssa cosa in modo diverso: occuparsi di poesia. Ecco, perché, ciascuno con il proprio stile, non si occupa di poesia occupandosi anche dei suoi simili (e non competitors) condividendo la informazione ed organizzandosi come gruppo assieme alle librerie e agli editori per iniziative varie ed eventuali?

    Dunque addetti ai lavori e fruitori: due problemi diversi con la stessa soluzione a monte: la organizzazione, lo scambio, la relazione. Che a me pare non ci sia e che a me pare vada costruita. Partire da qui per andare oltre la soglia in cui siamo fermi da anni.

    Ovviamente questo è solo un parere che va discusso per migliorarlo.

    L.B.

  • Ho letto le considerazioni generali, che Luigi poi analizza dal suo punto di vista – è essenziale che ognuno abbia chiaro il proprio sistema di critica, per le implicazioni che ha nei giudizi, per la sua stessa comunicazione alla comunità: mi è chiaro l’intento generale; poi Luigi nei commenti fai emergere la tua sensibilità e sarebbe utile procedessi in senso inverso: scrivi un articolo che prenda in esame le tue urgenze critiche, seguito da una proposta operativa. Avevo preparato questo intervento, ma purtroppo non sono riuscito a partecipare all’incontro: http://christiansinicco.wordpress.com/2012/01/19/poetiche-nuove-operativita/ e riparto da questo pur non capendo esattamente ciò che è accaduto. In generale mi trovo abbastanza in accordo con le parole di Luigi, ma la realtà non è il progetto – talvolta la stessa poesia nella sua imprevedibilità ce lo ricorda. Le parole di Sebastiano, quando parla di lobby e di piccoli affari della critica o del poeta, suggeriscono delle pratiche, ma la realtà non è controllabile – il breve articolo di Nuscis si chiede quali elementi della filiera sia possibile migliorare, e la rete pare sia il terreno di confronto, che mi trova d’accordo (ma non è vero quanto dice a proposito della mole di materiali, dato che la mole di materiali e informazioni unita alla conoscenza storica della rete è un buon terreno per edificare mercato, promozione/comunicazione, analisi e conoscenza).
    Inoltre credo che gli “attori” di questa possibilità debbano ragionare assieme proprio a partire dalla poesia e dalla selezione delle opere, in accordo con le case editrici che hanno fatto uscire buoni titoli (che siano grandi medie o piccole ha poca importanza), ma solo un confronto di critica e sensibilità estetiche sarà davvero democratico (cioè bisogna infondere nuovi approcci): chiaro che senza l’analisi delle opere, il “sistema di generalizzazioni” trova il tempo che trova e non ci può essere davvero il confronto; chiaro che senza la comunicazione dei risultati (il perché un’opera e un poeta è secondo una sistematizzazione, buono) non esistono orientamenti di mercato per i lettori; chiaro che senza qualcosa di concreto, la bellezza delle vetrine dei blog è poco più di un luccichio momentaneo, che è il problema del fallimento dei progetti. Il risultato che bisognerebbe ottenere è proprio l’incontro tra gli “attori”, altre persone invitate (anche quelle che Sebastiano critica), le case editrici: il dibattito e le letture a partire dalla selezione di opere deve essere ripetuto ogni anno in altro luogo (enti che possano sostenere questa pratica, ce ne sono). Voglio vedere se dopo dieci anni di questa pratica non si ottengono risultati.

  • Io ci sto.
    Mi piace: nessuna guerra santa o duello all’arma bianca o all’ultima pagina.
    Sinergia (come dice Sebastiano)
    “che la varietà, la differenza degli stili è una risorsa”
    e alleanza.
    Un caro saluto a tutti.

  • la riunione è stata molto operativa. scambio di idee, certo, ma lavoro: cosa fare, come venire incontro alla poesia, alle persone che si occupano, in campi svariati, di poesia. è venuto fuori anche un discorso sullo splendido isolamento ma questo, certo, se è necessario al poeta che scrive, concentrato, attento al proprio sentire, schifato, disilluso, altero, vate, operaio, impiegato di banca, insegnante, frustrato etc… non mi sembra possa giovare a rilanciare la poesia come lingua necessaria al mondo, all’immaginario delle persone. Questo, si è anche detto, è un lavoro etico che si accollano quelli che hanno deciso, oltre che essere poeti, critici e operatori culturali. Un operatore culturale non può certo ragionare solo con la pancia o con la testa, tirare su riviste, letture e quant’altro basandosi su uno splendido isolamento della lingua universale. Quello che personalmente mi interessa dal punto di vista del lavoro da fare in questo spazio, che è poi la vocazione riconosciuta a questo spazio ma da rilanciare alla grande, è questo: occuparsi di poesia, non di potere intorno alla poesia. Forse sento anche l’esigenza di fare nomi e cognomi, di rire a qualcuno: guarda che hai fatto danni, che hai ragionato con la pancia, hai fato prevalere i tuoi interessi, i tuoi gusti, hai imbatito tutta la tua opera pseudoculturale con l’intento di arrivare a Mondadori. Ma immagino che questo non sia possibile farlo. Più modestamente : c’è un post interessante su LA POESIA E LO SPIRITO pubblicato da Giovanni Nuscis sullo stato dell’editoria di poesia. Ho commentato dicendo che, se tutti i poeti, veri o presunti, fossero anche dei fruitori di poesia – quindi lettori e compratori – il mercato di poesia sarebbe il più fiorente. Vogliamo, per esempio, partire da qui? Il che vuol dire, appunto….dire addio alle armi, fare sinergia, individuare e leggere le diversità… Sebastiano Aglieco

  • Caro Luigi,
    non intendevo dire che la scienza è di per sè in contrasto con la poesia (Einstein, a quanto ne so, amava molto la letteratura), bensì che nella vita quotidiana l’aspetto immediatamente utilitaristico della tecnologia (e qui occorre distinguere tra quest’ultima e scienza)ha assunto aspetti ipertrofici e preponderanti.
    Insomma, il mio intervento è sostanzialmente d’accordo con le tue opinioni introduttive.
    Certo, le sfaccettature nell’ambito di simile discorso sono molteplici…

  • “creare delle alleanze, dove l’interesse per l’altro…”
    ” non si è sentita la parola partecipazione…”
    “la condizione esistenziale di oggi è per definizione individualistica …”
    “preoccuparsi del cosa dire, prima del come, e che sia condiviso dalla gente…”

    Ecco, trovo in queste quattro asserzioni i fuochi da cui partire per cercare possibili vie. percorsi di enorme difficoltà, credo, vista la deriva di cui al punto 4. ma procedo per ordine, ponendo domande per ogni punto, cui dare risposte utili alla comunità intera:

    le alleanze. anche se la parola non mi piace perchè sottintende una guerra, si creano mettendo da parte ogni pregiudizio e tornaconto personale. si fa comunità quando si è disponibili ad ascoltare la voce di tutti, accoglierla ed offrirla al consenso/dissenso generale, secondo i modi dell’unica via che conosciamo giusta, quella democratica.
    come gestire l’esistenza della poesia che oggi si scrive,tutta, (quella che si autonomina poesia e quella che invece vorrebbe onestamente guadagnarsene il nome per generale consenso)? insomma come gli addetti ai lavori, autori, lettori, promotori culturali possono allearsi per trovare una soluzione a questa cruciale domanda?

    l’individualismo di oggi. di contro, la partecipazione. come stimolarla? forse è un goal oggi irraggiungibile in poesia? come aggregare intorno alla poesia, quali le modalità di appeal, in tempi , appunto di individualismo sfrenato e autoreferenzialità mutuata dai meccanismi dell’economia imperante?come opporsi alla trsformazione antropologica in atto, di un’attività cognitiva esercitata sempre di più nel visuale ( e non nel concetto e nel visionario)nel messaggio breve, nel mordi e fuggi totale? vediamo oggi, per vari motivi sociali, economici, ma anche culturali etc., quanto il tempo per il pensiero si sia ristretto e confinato , quello libero, piuttosto al mero svago,alla dis-trazione dal dolore e dalla riflessione… questo tempo che viviamo sembra dunque essere divenuto irreversibilmente antipoesia, antiomerico? nel senso che la presenza massiva, come era in antichità, è oggi possibile solo per le bands musicali, la lirica, il teatro, etc. e non per la poesia che parla?

    il cosa dire. questo credo sia il nodo cruciale, toccato da Gianmario. ma tutti davvero tutti lo sappiamo. La poesia deve profondamente coinvolgere attorno ad una visione, un senso in cui tutti possano riconoscersi(al di là di ogni forma),perche la comunità senta la parola poetica come propria carne, se ne appropri e la salvi nel tempo. qui credo non occora risposta.

    annamaria ferramosca

  • In effetti ci sono mutamenti significativi in corso d’opera. Tuttavia continuo a vedere tipi umani piuttosto indifferenti, se non totalmente alienati…

  • Visti gli ultimi commenti, mi sento in dovere di precisare alcune cose:

    – il mio intervento non vuole paragonare la poesia e la scienza o la tecnologia in termini di utilità, quanto piuttosto di organizzazione interna e di ripercussione esterna

    – ci tengo a precisare che da parte mia non vi è alcuna necessità di stabilire degli ordini di importanza o priorità; più semplicemente, equiparazioni tra i diversi approcci alla conoscenza con pari dignità

    – l’interlocutore a cui mi rivolgo è colui che è “addetto ai lavori” e contemporaneamente colui che “fruisce o subisce a seconda dell’atteggiamento la portata di tali lavori. Come per l’economia, l’economo fruisce lo spread e il cittadino lo subisce; per la poesia vale la stessa cosa: il poeta fruisce il linguaggio e il lettore lo subisce. Ora, il cittadino che subisce lo spread ed il lettore che subisce il linguaggio possono accorciarsi le maniche e metterci un po’ più di impegno per capire lo spread e il linguaggio, passando così dal subirlo al fruirlo. Detto in parole molto povere e per non allungare il brodo.

    – ciò che per me è prioritario è mettere in evidenza il peculiare rapporto che c`è tra la poesia ed il linguaggio, l’ambito metalinguistico nel quale si naviga (o si affonda) quando si parla di poesia e tutto quanto da cipo ne deriva. e questo è importante nella misura in cui il linguaggio (e non la poesia in sé) lo è, se è con il linguaggio che l’uomo costruisce il mondo.

    Detto questo, vengo alle obiezioni.

    @Michele Fabbri: la condizione esistenziale di cui parli è una constatazione di un fatto che di per sé non giustifica nulla né nulla impedisce. Essendo, nel bene o nel male, costretti in un certo senso a “stare insieme” è più che altro importante capire come lo facciamo nonostante la condizione esistenziale che tu dici ci caratterizza. Aggiungo che, a mio modo di vedere, tale condizione esistenziale appartiene già da un po’ all’uomo tardonovecentesco. oggi, il problema si pone nel momento in cui si presenta la necessità storica si superare tale condizione senza sapere come. si va per prove ed errori, ovvero: a casaccio, e se la fortuna non ci accompagna ci aspettano tempi bui. Durante la prima decade del secolo, soprattutto grazie ad internet e a tantissime altre circostanze storiche, la condizione esistenziale dell’uomo è definitivamente mutata. in cosa, ancora non è chiaro. basta vedere la forte spinta associativa, comunitarista che sta caratterizzando tutti gli ambiti (anche quello poetico, visto che stiamo qui a parlarne). La rete è diventata la base concettuale dell’organizzqzione sociale: la rete come concetto, trasferita dalle reti neurali della biologia alle reti di informazioni nella tecnologia, alle reti informatiche, alle reti matematiche degli algoritmi dalla teoria dei giochi in poi, alle reti politiche delle alleanze europeistiche o infrastatali, alle reti economiche finanziarie e in ultimo alle reti sociali. Ora, è difficile immaginare delle monadi alle prese con il munus maussiano: non sanno che farsene, come usarlo, è la cosa pare piuttosto evidente. Abbandonare le impostazioni esistenziali tardonovecentesche per renderci conto di cosa sta accadendo sotto il nostro naso mi sembra prioritario (anche se più faticoso). Tempo fa si discusse all’interno di un seminario della UCM (uni di Madrid) sul fenomeno comunitarista come soluzione o sintomo. Magari un giorno pubblico qui sul sito qualche intervento: è un discorso interessante.

    @ Marco: credo di aver chiarito delle cose nelle precisazioni iniziali, però continuaimo a parlarne per limare tutte le ambiguità del discorso!

    @Gianmario:

    – più che un ruolo della poesia, personalmente (ri)propongo un ruolo del linguaggio. La poesia dunque assume un ruolo solo nella misura in cui si occupa del linguaggio e dei sistemi di pensiero che i suoi innumerevoli modi di servirsene crea. in questo modo si esclude per forza di cose l’ombelicale struggersi del nulla ed i giochi di parole.

    – non c’è dubbio che la gente se ne freghi fino a che non gli cade sotto il naso: è successo con lo spread che è sempre esistito ma solo ultimamente è sulle bocche di tutti; è successo con i derivati fino alla bolla economica, è successo con i neutrini fino alla boutade della gelmini. Ecco, vorrei che succedesse anche con il linguaggio attraverso la poesia: ovvero, fare in modo che il linguaggio recuperi la sua importanza nella vita degli uomini e farlo (anche) attraverso la poesia.

    – non parlo dunque di fruizione, ma di interazione. mi piacciono l’arte pittorica, fotografica e la musica, è spero che accada lo stesso per questi linguaggi. limitiamoci però alla poesia e vediamo come possiamo far riemergere l’importanza del linguaggio nella vita delle persone e nella costruzione del loro mondo (in uesto loro sono inclusi tutti, anche quelli che qui parlano, ovviamente).

    – magari con la poesia non c’è nessun conto da fare, ma con il linguaggio si: senza linguaggio non riesco ad immaginare il mondo.ma posso sbagliarmi.

    – sono a favore di uno sforzo per il recupero della funzione e della importanza del linguaggio tra gli uomini, ma credo sia sbagliato cadere nella tentazione di restituirgli la sua dignità cercando di riproporlo nella sua dimensione dell’antica grecia. bisogna cercare di riflettere e capire quale può essere il posto ed il ruolo del linguaggio nel nostro mondo che è necessariamente diverso da quello antico. altrimenti facciamo anacronismo, ovvero perdiamo il tempo.

    – per quanto riguarda i reading: proviamo a vedere cosa succede se li facciamo nei teatri prima che chiudano tutti invece che nei pub. La banalizzazione del linguaggio della parola è un fenomeno palese, però che responsabilità hanno coloro che si occupano di linguaggio? Forse, con la foga di arrivare a tutti, hanno abbassato il tiro sminuendo loro per primi il loro stesso impegno e oggetto di studio? Forse bisognerebbe portare la gente nei teatri e non la poesia nei pub?
    – tutto è koiné e nulla: anche nelle arti visive che sembrano aver preso il sopravvento sul resto per un certo universalismo interpretastivo che le caratterizza sono delle koiné. Gli elementi del contesto di una cultura, siano essi visivi o linguistici, si interpellano vicendevolmente all’interno di un discorso in un modo che può risultare ambiguo quando non del tutto inaccessibile per chiunque non appartenga alla medesima fonte che li ha originati. L’arte africana in un loft newyorkese è altrettanto borghese che un reading in un pub.
    – non sono infine d’accordo sulla troppa enfasi al cosa dire (nemmeno Capuana, mia ultima fonte di “ispirazione” lo sarebbe): se l’enfasi sta sul cosa dire, allora bisogna scrivere un saggio, una cronaca o un trattato. L’enfasi esclusiva sul come dirlo non porta a nulla altro che a giochi di parole, sono d’accordo. Ma nella poesia, come nell’arte in genere, accade che il cosa e il come si fondono in maniera indissolubile e le cose dette sono (o dovrebbero essere) quelle che possono dirsi solo in quel preciso modo, in quel preciso COME per non essere altro. Personalmente mi sono sempre detto che se non si può scrivere nulla di nuovo o nulla di diverso dal già detto o non si ha nulla da dire meglio di quanto sia stato detto, meglio no dirlo né scriverlo. E infatti sono anni che non scrivo più e vivo benissimo. Però il problema non è che non ci siano più cose da dire; semplicemente è difficile trovare il modo perfetto di dirle proprio in quel MODO, come andrebbero dette. E allora non si dicono o non si scrivono.
    – dunque la bellezza potrebbe risiedere nel perfetto incontro tra forma e sostanza, nella misura in cui la bellezza, come secondo gli antichi, è armonia, equilibrio. I formalismi che lamenti e che io lamento insieme a te, sono dovuti ad una eccessiva enfasi sul come che non è onesta, per tornare a Saba. Potrebbero però essere anche il risultato dell’enfasi sul cosa che si cerca di obbligare ad una forma (quella poetica) stereotipata per essee riconosciuta come tale (come poesia).
    – per concludere: la poesia si occupa della gente. Non tutta, ovviamente. Però bosogna cercare di impegnarsi per quella poesia e non fare di tutta l’erba un fascio.

    Grazie a tutti quelli che sono passati di qui.

    L.B.

  • Difficile pensare di poter fare comunità, poichè la condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo è per definizione individualistica e atomizzata…

    Io stesso dal punto di vista letterario non disdegno una condizione di “splendido isolamento”…

    Comunque ben venga lo scambio di idee, staremo a vedere…

  • Tutte le espressioni linguistiche sono pur sempre espressione della vita degli uomini.
    Così, la scienza non avrebbe potuto usare il segno-concetto di “uguale” se non avesse trovato quest’ultimo nella lingua quotidiana degli uomini.
    Esistono tuttavia delle differenze: non vi è dubbio, ad esempio,che la parola scientifica e tecnologica differisca da quella poetica.
    Si tratta però di dissomiglianza, non di inimicizia.
    Non dimentichiamoci che scienza e tecnologia sono nate per aiutare gli uomini nella loro vita pratica di tutti i giorni, non certo per esercitare poteri tirannici e totalitari.
    Non mi aspetto dalla lettura di un componimento poetico quello che invece pretendo dall’esame di un testo scientifico.
    La natura umana si manifesta, per fortuna, per via di molteplici aspetti e ridurla ad un’unica dimensione è insensato.
    L’utilità non è soltanto quella pratica e immediata.
    Leggere l’ Odissea non è tempo sprecato.
    Occorre rispettare ogni ambito dell’espressione umana e cercare, tra le specificità, tratti comuni, non elementi di ostilità.
    Insomma, dobbiamo evitare di essere in guerra con noi stessi.

  • L’editoriale, con una serie di argomentazioni ragionevoli, propone un ruolo della poesia, ma a me sembra che si faccia un po’ di confusione, in alcuni passaggi.
    a) vero è che, di per sé, la poesia è importante come qualsiasi altra disciplina (dalla bioetica alla chimica, ecc. ecc.). Il problema è che queste discipline (che poi non trovo così partecipate, come sostiene l’editoriale: anzi, la gente se ne frega altamente di tutto se non di quello che direttamente gli cade sotto il naso o che mette in crisi i sistemi di aspettativa) in qualche modo trovano degli agganci con la vita reale, tali che uno ci deve fare i conti, per vivere. La poesia no. Uno può anche vivere senza poesia (e credo siano la stragrande maggioranza delle persone) ma non può vivere senza economia, senza bioetica, senza politica, ecc., perché prima o poi, nella vita, è costretto a farci i conti. Con la poesia nessun conto c’è da fare, e così con l’arte in genere (a parte pittura, musica, ecc. che sono diventati strumenti economici, insieme a fenomeni artistici: la pittura, la musica, il teatro, ecc. si vendono, hanno un richiamo, sono arte da “fruire”, mentre la poesia non si “fruisce”: ha bisogno di partecipazione attiva, di meningi. Un quadro può essere un bene di investimento, la poesia di sicuro è una perdita economica. La poesia insomma non ha mercato perché costa e non produce, non è un benessere ma una fatica – anche se questa fatica poi si traduce in benessere, ma il non-lettore non lo può sapere.
    b) La poesia però, presso i greci e i latini, aveva un largo seguito popolare (gli agoni, le tragedie, ecc.). Omero ha, di fatto, formato la civiltà greca. E, peraltro, una tragedia di Eschilo rappresentata oggi, o una lettura ben fatta di Dante, attirano gente che paga il biglietto e che, da tutto questo, trae una profonda gratificazione. proviamo a fare una cosa del genere con i testi dei nostri più conosciuti poeti e vediamo che cosa capita. neppure col battage pubblicitario più smaliziato supereremmo i 100 spettatori a Roma o a Milano. Quanto ai cosiddetti “reading” ecc. ecc., il successo è sotto gli occhi di tutti, e per fortuna non si paga il biglietto. Cambia invece quando la poesia si contamina col teatro, con l’effetto speciale, con altri elementi che arricchiscono la forza della parola perché, questo a mio avviso è il problema, viviamo nel tempo della banalizzazione della parola: la parola è caduta, è svalutata e non è più capace di esprimere il mondo. La nostra civiltà non è più auditiva, come quella degli antichi, ma visiva, parla con le immagini prima che con la parola, perché le immagini sono immediate, comunicano anche senza la mediazione della cultura, delle idee, delle ideologie, degli schemi. E così la musica. Sono linguaggi comprensibili in qualsiasi lingua, certo più o meno profondamente, ma da tutti. Non esiste più la koiné, il mondo è la koiné e però non ha una lingua parlata, ma migliaia. Omero, Eschilo, Dante, Leopardi, parlavano di noi. Oggi quasi più nessun poeta parla di noi (la maggior parte esprimono solo il loro insopportabile narciso e alcuni, addirittura, si esprimono con il “si” impersonale, senza neppure la prima o terza persona che sia.
    c) Ne risulta che un ruolo della poesia, in questo momento, va legato all’identità di una radice culturale. Se musica, pittura, scultura, ecc. sono la koiné, la lingua di ogni stato è solo un dialetto. Noi tutti siamo poeti dialettali (altra polemica sterile, quella sui dialetti). Preoccuparci per la lingua è un falso problema, dobbiamo invece preoccuparci dell’arte che la lingua può esprimere. La poesia italiana odierna è invece un enorme laboratorio linguistico e ognuno la pensa alla sua maniera. Ci preoccupiamo insomma dello strumento, non tanto di quello che lo strumento esprime. Ci preoccupiamo di “come esprimere” ma non di “cosa” esprimere. Io non sono un dissacratore della forma: ne riconosco l’importanza, il valore anche ipersegnico (la poesia scritta bene e scritta male, invero, non sono la stessa cosa, così come un piatto di spaghetti cucinato bene o male). La forma ha la sua importanza, la lingua, il lessico, la prosodia, ecc., Ma senza sostanza restano strumenti che suonano a caso una partitura che non c’è. Vanità di vanità, poesia di poesia. E’ invece il caso che la poesia cominci ad esprimere un suo pensiero, come la filosofia, anche se – ovviamente – usa i suoi strumenti (quelli di cui dicevo sopra) e non il linguaggio razionale della filosofia. Il poeta, l’artista, vedono il mondo in un modo diverso. Il pittore dipinge il cielo verde, non perché è un eccentrico, ma perché è così per lui, per la sua verità, per il suo pensiero. Il problema è che, noi poeti, non ci mettiamo abbastanza la faccia e ci fa schifo dire che il cielo è verde, perché pensiamo che la poesia non sia una verità di carne, sangue, corpo e mente, (e VOCE soprattutto, non solo scrittura) ma solo un linguaggio. Io non vedo poesia “vera” in Italia, oggi, o ne vedo molto poca. Vedo molti formalismi, giochi di parole, tanta eleganza fritta, tanta inventiva macinata, tanta fantasia infantile e senza nessun obiettivo comunicativo se non quello barocco di meravigliare. Io credo che alla gente non gliene può fregare di meno, di questa poesia, ma credo che ascolti la vera poesia, antica o contemporanea che sia, quella che è capace di farla riflettere, di cambiarla, di aprire altri orizzonti, diversi inediti. Questo, è il compito dell’artista, prima ancora di cercare la ”bellezza”. Anzi, proprio questa è la bellezza dell’arte. La bellezza non sta nella forma, ma nella sostanza. Meglio un brutto verso, ma vero, che un bel verso insipido, diceva Saba, e aveva ragione, in pieno.
    d) Io credo che, se la poesia (i poeti) poserà l’enfasi non tanto sul “come dire” (che, lo ripeto, ha la sua enorme importanza) ma piuttosto sul “cosa dire”, troverà infine un ruolo, una condivisione, una partecipazione emotiva, un sangue e una carne e cesserà di essere puro spirito. Se la poesia non si preoccupa della gente (come fanno tutte le discipline umanistiche, in modo più o meno corretto o distorto), non possiamo pretendere che la gente si occupi di poesia e continuerà, essa, ad essere il bel giochino da persone intelligenti (e tendenzialmente di animo molto borghese) che è adesso. Trovo che poca poesia sia così, oggi, ma quando si ha occasione di trovare un autore vero, nel marasma di pubblicazioni deliranti che girano oggi, questo autore lo leggi con piacere, lo leggi perché ti cambia la vita.

  • è vero, Alessandro, una parola che è mancata (almeno nella sua forma esplicita) è stata “partecipazione”. E partecipazione come volontà mi sembra sia una adeguata definizione del termine senza ambiguità.

    ci lavoreremo su!

    (ciao Seb!)

  • chissà in quale piega oscura della comunità sta la frenesia della condivisione?… se in quell’affinità ci sta una qualche manina alzata a dire: presente, perchè se condividere deve essere come accade, inondarmi lo spazio delle tue recensioncine acquisite o l’elenco di quante volte uno ha letto in vita sua a un semaforo non me ne può fregar di meno

    ricevo biografie che mi informano anche di quanta carta è stata consumata e al di là di una comprensibile ironia non è con questo che si costruisce vicinanza

    se forse nell’incontro a cui si fa riferimento è mancata una parola, oltre a quelle che sono emerse e sulle quali abbiamo il dovere di lavorare per cercare di costruire, quella parola è: partecipazione
    patecipazione intesa come principio edificante e non invasivo, non sbrodolante di compiacenze o commiserazioni
    partecipazione come volontà di crescita e di sviluppo

    alleanza col libro e attraverso il libro, con l’unica relazione quindi che possa farsi via via testimoniale al di fuori di questo sta quella che Luigi definisce correttamente massoneria poetica

    un caro saluto
    alessandro

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