Alfredo de Palchi: Testimonianza d’autore

[letta al Museo Fioroni di Legnago (Verona) il 24 aprile 1998 in occasione della presentazione della raccolta di poesie Costellazione anonima]

di Alfredo De Palchi

Saluto e ringrazio i politici per la loro presenza come saluto e ringrazio i politici non presenti perché ricattati da quelli di rifondazione comunista. A questo punto voglio subito chiarire che De Palchi non ha bisogno di Legnago, ma che Legnago ha bisogno di De Palchi.

Per iniziare desidero introdurmi con una poesia che ricorda l’Adige del mio tempo lontano:

Potessi eliminare l’enorme dubbio
che mi assilla la mente francescana,
ma tu, Adige,
raccogli la ghiaia lungo il profilo delle rive
e nel liquido delle reti
acchiappa il luccio che guizza luccicante
nella corrente insabbiata dal pomeriggio
assolato, enormemente
quanto è buio il mio dubbio;
poi, sereno ancora, arriva alle curve
alte di erbe e di arbusti, e qui vortica,
buttandoti addosso ai piloni
dei ponti che sbalzano arrugginiti,
fino ad espanderti calmo verso lo spazio,
proprio là dove non esiste.

Ora, la mia intenzione è di rimanere con il pensiero nella giovinezza di qualche anno prima di essere stato cacciato in esilio a forza di insulti, sevizie, vigliaccherie, accuse, articoli anonimi sui giornali, e di condanne. Io sono ancora qui; i miei aguzzini, invece, sono spariti con i loro nomi nell’anonimato. Ma ci sono i loro eredi, loro stessi pitocchi di mente, che hanno tentato persino oggi 24 aprile 1998 di rovinarmi questa serata.

Quello che racconterò sarà pressoché illustrato da brevi poesie della raccolta che racchiude la mia giovinezza, La buia danza dello scorpione, composta in prigione tra l’autunno del 1947 e la primavera del 1951, suddivisa in quattro sezioni intitolate: “Il principio”, che è la primavera della giovinezza; “Un’ossessione di mosche”, l’estate delle esperienze della guerra; “Carnevale d’esilio”, l’autunno della prigionia; “Il muro lustro d’aria”, l’inverno delle raccapriccianti visioni di suicida.

Comincio con:

Al calpestìo di crocifissi e crocifissi
sputo secoli di vecchie pietre
strade canicolari
il pungente sterco di cavalli immusoniti
in siepi di siccità

(al gomito dell’Adige allora crescevo
di indovinazioni rumori d’altre città)

e sputo sui compagni che mi tradirono
e in me chi forse mi ricorda

Ed eccomi qui, dopo 53 anni esatti, nella mia cittadina di Legnago che per me è ancora un vicolo cieco. Ma sono commosso, anche perché tra voi ci sono le presenze di alcune amicizie della prima giovinezza e adolescenza. Allora si era allegri, poverissimi, colmi di risate, spensierati come può e deve essere la giovinezza. Non parlerò delle peripezie crudeli e ingiustificate di quel periodo anormale. Di quella situazione basti il seguente testo:

Mi condannate
mi spaccate le ossa ma non riuscite
a toccare quello che penso di voi
gelosi della intelligenza e del neutro
coraggio aggredito dal cono infetto
delle cimici

─ io, ricco pasto per voi insetti,
oltre l’ispida luce
vi crollo addosso il pugno

Oppure quest’altro:

Fra le quattro ali di muro
circolo straniero a pugno
serrato ─ non ho amicizie
non mischio occasionali smanie
con chi le persiste
e siccome ognuno impone
il proprio mondo a chi perde
non si chieda cosa avviene:
la parola è nella bocca dei forti.

No, io non ero tra i forti, fisicamente. Ma mentalmente sí, ero forte. E per questo coraggio riuscii a superare tanto e tutto. Inoltre, non parlerò delle successive peripezie. Gli aspetti della mia turbolenta vita di giovanissimo, e di uomo appena maturo, interessano a una persona che li narrerà in una biografia. Invece parlerò, brevemente, di alcuni aneddoti, come li ricordo, collegati alle acque fluviali di Legnago e dintorni.

A Terranegra, il Nichesola, accanto a cui sono nato, mi ricorda delle viole raccolte a tre anni tra le erbe lungo la riva e la strada polverosa; mi ricorda la rete per la pesca che scendeva e saliva sempre vuota mentre a poca distanza nella fossa sguazzavano dei ragazzi; mi ricorda la scossa elettrica allorché due fratelli più grandi di me mi forzarono a toccare il filo vivo sospeso a un palo della corsia del gioco delle bocce; il Nichesola è anche nascosto dentro la brevissima compatta poesia, la prima del libro, che presagisce violenza carnale, il mio concepimento, e le mie future calamità:

Il principio
innesta l’aorta nebulosa
e precipita la coscienza
con l’abbietta goccia che spacca
l’ovum
originando un ventre congruo
d’afflizioni

Dal Nichesola si passa al Bussé, sullo spiazzo subito dopo il ponte e lungo la pista del parco. È un corso d’acqua che non mi ispirava fiducia. Tuttavia, noi ragazzini in mutande, dopo una rincorsa vociante, e abbracciando le gambe piegate, pericolosamente si spariva tra le erbe del fondo.

Poi, dagli spinareti e la capanna delle angurie, si va al Terrazzo perso tra i fossi della campagna d’allora dietro Porto. Là, una marmaglia di ragazzini nudi si buttava continuamente nell’acqua pulita dalle erbe alte e dalle bisce. Un pomeriggio, io e il compagno Rino, ci trovammo sotto un temporale improvviso che scoppiava fulmini, e noi incoscienti del pericolo continuavamo a saltare nella fossa. Forse colti dalla paura corremmo, con gli indumenti inzuppati sottobraccio, a ripararci sotto gli alberi. Furbi, eh? In altre parole ci illustra poeticamente la solare:

Estate
frutto propizio, seno biondo ─
nel belato d’alberi la luce astringente
urta
tutto scompiglia: il verde-
verde
il cielo-cielo e il rombo…

Il Terrazzo non finisce qui ─ ancora il compagno Rino ed io, con le pochissime e avare palanche risparmiate per un capriccio di adolescenti, decidemmo di finanziare un’avventura pressoché salgariana, locale. Dalle parti del paese Canove, presso una famiglia con la casa sull’argine del fiume, c’era una barca. Si credeva a un affare in autunno inoltrato, quando già faceva freddo; e noi, sempre più furbi e incoscienti, con l’eccitazione che si può immaginare, scendemmo nella barca. Non facemmo in tempo a remare un paio di volte che la barca si ribaltò. Mentre ci si arrampicava su per la scarpata, la famiglia ci guardava sganasciandosi dal ridere. Ridemmo anche noi, inzuppati? Non ricordo, però so di averne prese a casa.

Ci si soffermava ai pali del telegrafo e della luce elettrica, tirando sassi alle chicchere di porcellana e di vetro. Per me il mistero dell’universo era nel ronzio, come il mistero della vita è rinchiuso nelle acque. E così lo espressi:

Al palo del telegrafo orecchio il ronzio
il sortire incandescente da quando
le origini estreme
provocano la terra
______________ ─ percepisco
accensioni e dovunque mi sparga
chiazzo d’inizio odo

Il “chiasso d’inizio” significa che sto ascoltando l’inizio della creazione cominciata miliardi di anni fa. Infatti, se tendiamo l’orecchio, possiamo riconoscere il chiasso della creazione. È che noi, invece, riconosciamo facilmente i rumori artificiali delle vetture, dei camion, eccetera, ma molto meno quelli naturali:

Nel chiasso
dei germogli ed uccelle
la porta spalanca la corsa
in gara col baccano del gallo
sotto la tettoia di zinco

e m’incontra l’argine con l’officina
trebbie e cortili che alzano un fumo
buono di letame
____________ ─ la pista mi svela
lo scompiglio e odo
una punta di luce scalfirmi gli occhi.

Si noti che io corro verso l’argine. L’officina è quella di Riello; le trebbie e i cortili delle cascine si vedevano sotto l’argine andando a San Tomaso. E c’è il fiume. Anche qui però si finisce con l’udire qualcosa: scompiglio e luce, parti integranti della creazione. Intanto, nel mio senso, lo scompiglio è il movimento dell’aria, del vento, dell’agitazione terrestre; mentre il chiasso della vita proviene dalla luce immersa nell’acqua. Per significare vita, potenza, nel medioevo, durante riti religiosi al plenilunio, e mentre in coro cantavano Lumen Christi e Deo gratias, immergevano tre volte i candeloni accesi nella fonte battesimale. Si alzava un forte odore di scompiglio, il chiasso dell’acqua che cresce fertile con la luce. Un gesto simbolicamente potente. E perciò, ogni giorno di pioggia, di sole o di neve, io che allora ignoravo quella simbologia, m’incontravo con l’argine e, insieme con gli amici, scendevo all’Adige, il fiume rimasto immenso nel mio cuore. Là, noi ragazzi, eravamo i candeloni accesi ─ il simbolo potente. Ed io, immedesimato con l’Adige, scrissi:

Mi dicono di origini
sgomente in queste acque: qui sono erede
figlio limpido ─ ed amo il fiume
inevitabile
in cui l’intrigo del mio tempo
si accomoda

osservo nel fondo rotolare l’isola
verso il nulla
__________ l’età muta calore
__________ il vespaio del gorgo
e l’uno vuole il perché dell’altro:
tu sempre uguale, io
dissennato

Ciminiere              fabbricheMa vi era prepotenza, o qualcuno prepotente, che disturbava il largo musicale del paesaggio fluviale ed estivo, come:

del concime e dello zucchero
barconi di ghiaia e qualche gatto
lanciato dal ponte
snaturano questa lastra di fiume
questo Adige

D’inverno, bisogna essere assolutamente risoluti, per seguitare ad essere il simbolo potente della vita ed entrare senza alcuna protezione nudi nell’acqua. Naturalmente si agiva d’istinto. Eppure d’inverno l’acqua scorre sotto i lastroni di ghiaccio provenienti dall’alto veronese, passando sotto i ponti di Verona, fino ad arrivare ai ponti della “bassa”. Il gelo e i lastroni non fermarono nei maglioni l’entusiasmo del compagno Rino e nemmeno il mio. Era domenica. Velocissimi ci spogliammo ed entrammo nell’acqua circondati dai ghiacci ─ si creda che, una volta usciti dall’acqua, invece di sentirci lividi, si rideva esilarati.

Oltre ai temporali, ai fulmini, alle barche che si ribaltano, ai bagni tra i ghiacci, c’è un’ultima avventura. Ora, più scaltri per modo di dire, il compagno Rino ed io decidemmo di andare in valle alla pesca nel Canale Bianco. In bicicletta, ma con più probabilità a piedi, andammo fino al Canale Bianco. Per canna da pesca, ciascuno aveva semplicemente legato uno spago senza uncino ed esca a una lunga “stropa”. Durante una giornata di solleone e di attesa, giustamente non si prese neanche un pesciolino. Senz’altro si credeva, almeno io credevo, che si potesse pescare così, con un filo di spago. Così, per “punizione”, ci prendemmo l’assalto di un nugolo di zanzare:

Vortica una fanfare
di zanzare nel crepuscolo
e la giostra del mondo
una fiera di ritagli di luce
─ io, incerto
giro il vertiginoso cuore impestato
di zanzare.

Come avrete notato, persino durante il periodo più disperato, nella mia scrittura filtrava il pensiero alla mia terra d’origine, alla prima giovinezza, agli anarchici che sono i giovani. Un pensiero frammentato, così:

Redazione
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