‘Simbolo delle illusioni’ ed altre note su Kobarid

 

Simbolo delle illusioni

di Francesca Matteoni (da “Il sottoscritto” (ex-Stilos) )

Kobarid è il nome slavo della città di Caporetto, scenario di una delle più dure sconfitte della prima guerra mondiale sul fronte italiano, assunto a simbolo di disfatta totale, delle esistenze e delle  illusioni. Sul significato potente di questa parola Matteo Fantuzzi costruisce il suo primo libro di poesia, proiettando la Caporetto storica dei primi del Novecento in un quotidiano instabile, di  voci diverse, accomunate da un destino fallimentare che non ha nemmeno il dono d’insegnare alle vittime un’adulta consapevolezza. I protagonisti, che Gilberto Finzi nella sua bella nota conclusiva indica come uomini senza qualità, sono perdenti in partenza, restano sospesi, ignoti a se stessi, esattamente come il luogo-emblema del titolo, disperso perfino alla lingua. Sono, è bene evidenziarlo, soprattutto persone giovani, come dice lo stesso Fantuzzi, animati da una disperazione sorda, da un mancato riconoscimento di se stessi e del mondo, in una società dove le cose vanno come devono andare solo apparentemente. La tragedia che si attualizza  nei personaggi è intrinseca alla loro debolezza, all’incapacità di incidere sulla storia, sia quella minima individuale, che quella di un paese, che si trasforma nella pastoia letale dell’accidia. Così nelle tre sezioni del libro affiora un’umanità intorpidita, in perenne attesa, delineata fin dalla poesia d’apertura sul portiere di riserva,  che spera in una seconda possibilità (la grande occasione), girando “con il cappotto anche di luglio per non prendere un malanno”,  e ripresa nel fastidio delle terre di mezzo, precarie, siano esse l’anonimato lindo dell’aeroporto (Malpensa) o una città, chiusa nei suoi spazi domestici come nei vagoni tristi dei treni. In questi non luoghi del contemporaneo s’incontrano figure deprivate di un’identità mentre lottano per assomigliare ai modelli prestabiliti: il poeta di successo, ma schiacciato nell’intimo dai compromessi, la giovane donna inquieta che non trova una direzione dopo un primo fallimento; la bambina emarginata a scuola che insegue il mito della bellezza da starlet televisiva (dimmelo mamma: che sono bellissima, come le ballerine della televisione). Tutti vittime di una sostituzione del vero dove la vita nella televisione ha più voce della storia, annullando la “traccia del pensiero”, che Fantuzzi evoca nell’unica poesia fortemente accusativa, uno dei perni del libro, dedicata non a caso a Primo Levi. In questa società del mostrarsi, dove è negato lo sguardo verso l’interno e la memoria, perfino la sfera sentimentale non è salva: l’amore è declinato sempre nell’assenza, ma soprattutto non avviene mai una completa elaborazione della perdita. Così il corpo morto dell’altro diventa il concreto del presente, meglio se filtrato ancora da uno schermo protettivo, che attutisca l’urto col reale (Vederti nella webcam mi fa bene), mentre la voce narrante subisce un processo di inevitabile e totale sparizione (Ho deciso di iniziare/ da 80 chili, il due per cento/ a settimana). Il contatto diretto con gli altri manca di scambio e passione – in Porno, avviene in una squallida mercificazione anaffettiva,  mentre in un altro quadro urbano (È quando i portici si fanno più vicini), la forzata interazione con la folla testimonia il dramma dell’estraneità. Ogni reazione eccessiva, e a questo punto ci viene da dire ogni reazione che segnala un’emotività autentica, deve essere paralizzata o repressa (Devo prendere gli antipsicotici): la normalità è descritta come stato afasico dell’essere, che senza gradi intermedi risponde ad una scompostezza feroce, ma anche a suo modo vitale (Ode al Lexotan®). La voce dell’autore è in disparte, segue i personaggi, senza esprimere giudizi enfatici, ma innervando la scrittura di una nota amara, di una morale suggerita più che dichiarata marcatamente. I testi si sviluppano dunque come microstorie, in cui emerge la prima persona, sorta di comunicazioni interrotte, dove il linguaggio spezzato della poesia aggalla dalla prosa.  Nella lingua, come nel tema narrativo, Fantuzzi innesca per sottrazione (dell’altro, di un sentire, del proprio io alienato e illuso dal sistema) un ordigno esplosivo, che rimanda all’immaginario scaturito da tanta cronaca nera, dove la maschera dell’uomo mite, qualunque, nasconde il volto del potenziale assassino o stragista. E l’esplosione “devastante” chiude l’opera, con l’ultimo testo lasciato cadere come una nota a margine, che evoca la ferita italiana della strage di  Bologna (la stazione – uno di quei luoghi di transito, che Fantuzzi tratteggia fin dalle prime poesie), ma al tempo stesso la rabbia di un’intera, nuova generazione, quella più atroce, che non sappiamo dire.

di Sergio Rotino (da Il Domani, 22.04.08)

Un titolo altamente simbolico e metaforico, quello che Matteo Fantuzzi ha deciso di usare per la sua prima raccolta di testi poetici. Simbolico e metaforico per chi ricorda, anche vagamente, cosa sia stato, per l’Italia, la battaglia di Caporetto: una piena disfatta, militare e politica. Qualcosa di più pesante e duro da digerire della battaglia di Adua, per fare un parallelo; a tal punto che l’espressione “una Caporetto” ha per decenni segnato ogni sconfitta dalle dimensioni epocali. Neanche tanto stranamente Kobarid, il nome slavo che oggi ha la città di Caporetto, è il titolo del libro di Fantuzzi il quale cerca, attraverso quarantuno poesie spesso di una asciuttezza carsica, di raccontare i giovani di oggi, le ultime generazioni. E infatti, come precisamente recita la nota stampa che accompagna Kobarid, i testi di Fantuzzi mettono in scena “microstorie che nel loro insieme raccontano tutto il disagio, la frustrazione, la disperazione, l’alienazione e la mancanza drammatica di futuro che impregna l’Italia”. Peccato che i ragazzi di oggi, Caporetto non sappiano nemmeno dove sia. Figurarsi conoscano cosa è stata per i loro bisnonni. Ma è proprio di questa frizione sotterranea che si nutrono i versi in Kobarid, di questo parallelismo fra un esercito composto quasi esclusivamente da truppe di ragazzetti o su di lì, illusi da chi li comandava di potere vincere senza quasi colpo ferire sui propri avversari; e le ultime generazioni di italiani, incapaci di avere una visione certa o almeno possibile della vita. Sono ragazzi allevati al tutto e subito, ma anche privati scientemente della facoltà di ragionare, svuotati abilmente affinché vi si possano depositare le semplici coazioni all’acquisto di merce, al marchio, al successo. Ragazzi che si sentono vivi solo se fanno branco e solo se possono apparire, in un modo o nell’altro; ragazzi cui sono stati tolti tutti i punti di riferimento possibili, perché già chi era prima di loro li ha smarriti. Fantuzzi dà spazio a questo ragionamento, apparecchiando sulle pagine una serie ininterrotta di voci che si raccontano attraverso azioni e reazioni quasi sempre blande, senza forza, agli accidenti della vita. Come se si fossero persa anche la capacità di urlare e al posto della rabbia rimanesse a stento la stizza, e un riporto di scoramento per quanto non si è saputo realizzare, per il fatto di non essere all’altezza dei sogni di plastica venduti come vita vera dalla televisione, e non solo. Le poesie di Fantuzzi sono in buona sostanza piccole rappresentazioni dove chi parla lo fa sempre come se avesse ingollato una dose di ansiolitici o di psicofarmaci in genere, e argomentasse il suo dire attraverso un tono abulico, falsamente svagato (esemplificativa in questo senso ci pare Ode al Lexotan, che apre la terza sezione del libro). Il verso usato da Fantuzzi, carico di un umor nero, di una ironia che sfiora involontariamente la cattiveria, sorregge questa sensazione con un incedere ipoteso, brachicardico, a volte quasi fastidiosamente strascicato, ma che ben rappresenta l’orrore del vuoto che sta dietro ogni frase, ogni accenno di pensiero e ogni naufragio dello stesso. A ben pensarci, non è però un coro quello organizzato dal giovane autore di Castel san Pietro Terme in questa sua opera prima; è più di tutto un insieme polimorfo, orrorifico, dissonante e per questo tragico, di voci appartenenti a una umanità che ha disimparato a vedersi e ad amare se stessa al pari del mondo. Una umanità cui è stata data in mano una bomba, ma che non sa come innescarla. Una umanità ferita che non sa di esserlo, immersa nella diaspora di se stessa, persa alla comprensione delle cose e con oramai pochi o nulli veri punti di riferimento, che siano ideologie, ideali o speranze. Eccola intera questa bella gioventù, eccola completa la loro disfatta, la nostra Caporetto.

“Kobarid”: la Caporetto di Fantuzzi

di Stefano Lecchini (da Gazzetta di Parma, 15.11.08)

La voce di Matteo Fantuzzi – il suo volume “Kobarid”, Raffaelli Editore, verrà presentato domattina alle 11.30 alla Feltrinelli di Via Repubblica – ci viene incontro con timbro fermo e smagato, fra narrativo/descrittivo e ragionativo, ove la denotazione pare avere comunque la meglio sulla connotazione: l’insieme, vien da dire, non dispiacerebbe ai Dardenne. Perché basta guardarsi intorno, e penetrare con gli occhi la scena, che i lacerti che ci si offrono finiscono poi per risultare il più potente precipitato simbolico di ciò che sta accadendo al nostro mondo e alle nostre vite. L’Apocalisse è ovunque, e non è possibile scansarla trasferendosi lontano. Tutto è ospedale, obitorio, cimitero: oppure, vita ai margini, vita di riserva: spettralità di non luoghi (aeroporti, stazioni), in cui l’umanità si sfiora, anonima, senza mai riuscire a incontrarsi davvero. In questa Caporetto (Kobarid declina appunto il medesimo toponimo, in slavo), vi è chi si ostina a rimuovere: in quanto, se la disfatta non passa sulle tv – che tentano di occultare ma in realtà moltiplicano, col loro osceno circo continuo, il vuoto in cui siamo caduti – , è come se non fosse mai esistita. E il cinismo di chi a questo punto costruisce il proprio mito sul baratro (<<Bruciare le carte miserabili, / nascondere la normalità di tutti i giorni, / le pochezze, omettere i difetti… >>; e ancora, poco dopo: << Un libro delle foto coi potenti, / di quelle feste dove non ci sono tutti / un mito costruibile in salotto / per resistere nel tempo, nella storia >>), ecco: un tale irresponsabile, insopportabile cinismo non fa che aggiungere disastro al disastro. La singolarità della raccolta, così gremita dei feticci iperlucidi e diroccati della nostra contemporaneità allo sbando, è di infilare tra i versi – ma quasi di soppiatto – soffi e sussurri di una tenerezza lancinante: volti e figure che riappaiono di scatto, nel ricordo, anni e anni dopo la partenza: e incarnano la voce, e fanno trasalire il cuore. Questi ritorni (di revenants soltanto ?) sono l’unico “altrove” possibile.

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