
di Alberto Casadei – Gradiva # 35-36 (Spring/Fall 09)
La prima raccolta di Matteo Fantuzzi è giocata tra adesione ai linguaggi e ai pensieri ‘ricevuti’, e spiazzamento improvviso, quasi a sparigliare e a sorprendere il lettore proprio là dove si ritiene più sicuro, nel bel mezzo dei luoghi comuni. Si spiega così la larga presenza di componimenti chiusi da un verso isolato, oppure da una spezzatura metrico-sintattica: esemplare La tv cessò di andare…, dedicata agli attentati dell’11 settembre 2001, interpretati però non attraverso le riprese televisive, come ha fatto tutto il mondo, bensì attraverso le notizie ascoltate alla radio, immaginando lo schianto degli aerei sulle Torri, o il volo dei disperati dalle finestre. Il dramma sembra totale: ma il verso conclusivo, “Non ha nulla”, rimette in gioco le certezze di chi crede di sapere come sono andate le cose solo per aver visto quanto è accaduto.
I testi migliori della raccolta sono ruvidi, compatti da un punto di vista metrico, poco al di sopra di una lingua media, stilisticamente abbassata sino quasi allo spot pubblicitario, come in [Porta portese]: “24enne poeta. Davvero dotato, / 1.80, bel fisico asciutto…”. Ma al di là dei toni satirici o grotteschi, a volte forse un po’ troppo evidenziati, in molte poesie si coglie una tonalità più intima e sofferta, dovuta soprattutto all’assenza del ‘tu’ femminile (“È questa la mia stanza / quando manchi, sei al lavoro / o esci coi tuoi amici, sei lontana, / non m’è possibile vederti”). E si arriva all’esibizione dei conflitti interiori, come nella quasi-prosa Ode al Lexotan®, che si chiude con una dichiarazione sul valore salvifico e insieme terribile della poesia nel mondo di Kobarid (che, va notato, è il nome sloveno di Caporetto, luogo di una disfatta, soprattutto per le giovani generazioni mandate al massacro): “Vedi, pure il mio testo in questo modo si modifica, / ora è più lento, non fa male. Non mi assale nel protrarsi / della notte. Ora questo testo non mi sbrana”. Le tante immagini di distruzione proposte da Fantuzzi costituiscono insomma un sigillo e insieme una formula apotropaica, contro quello che nella realtà sta avvenendo.
Alberto Casadei su Kobarid
di Alberto Casadei – Gradiva # 35-36 (Spring/Fall 09)
La prima raccolta di Matteo Fantuzzi è giocata tra adesione ai linguaggi e ai pensieri ‘ricevuti’, e spiazzamento improvviso, quasi a sparigliare e a sorprendere il lettore proprio là dove si ritiene più sicuro, nel bel mezzo dei luoghi comuni. Si spiega così la larga presenza di componimenti chiusi da un verso isolato, oppure da una spezzatura metrico-sintattica: esemplare La tv cessò di andare…, dedicata agli attentati dell’11 settembre 2001, interpretati però non attraverso le riprese televisive, come ha fatto tutto il mondo, bensì attraverso le notizie ascoltate alla radio, immaginando lo schianto degli aerei sulle Torri, o il volo dei disperati dalle finestre. Il dramma sembra totale: ma il verso conclusivo, “Non ha nulla”, rimette in gioco le certezze di chi crede di sapere come sono andate le cose solo per aver visto quanto è accaduto.
I testi migliori della raccolta sono ruvidi, compatti da un punto di vista metrico, poco al di sopra di una lingua media, stilisticamente abbassata sino quasi allo spot pubblicitario, come in [Porta portese]: “24enne poeta. Davvero dotato, / 1.80, bel fisico asciutto…”. Ma al di là dei toni satirici o grotteschi, a volte forse un po’ troppo evidenziati, in molte poesie si coglie una tonalità più intima e sofferta, dovuta soprattutto all’assenza del ‘tu’ femminile (“È questa la mia stanza / quando manchi, sei al lavoro / o esci coi tuoi amici, sei lontana, / non m’è possibile vederti”). E si arriva all’esibizione dei conflitti interiori, come nella quasi-prosa Ode al Lexotan®, che si chiude con una dichiarazione sul valore salvifico e insieme terribile della poesia nel mondo di Kobarid (che, va notato, è il nome sloveno di Caporetto, luogo di una disfatta, soprattutto per le giovani generazioni mandate al massacro): “Vedi, pure il mio testo in questo modo si modifica, / ora è più lento, non fa male. Non mi assale nel protrarsi / della notte. Ora questo testo non mi sbrana”. Le tante immagini di distruzione proposte da Fantuzzi costituiscono insomma un sigillo e insieme una formula apotropaica, contro quello che nella realtà sta avvenendo.
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Guido Cavalcanti: Rime
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