Stefano Guglielmin: ‘Come a beato confine’

 

come a beato confineStefano Guglielmin

2003, 67 p.

Editore Book (collana Tabula. Nuova serie)

 

1.

Quello che si dovrebbe fare non è ciò che si fa. Il condizionale «prefigura un’aspirazione» (p. 63), da una parte, e mantiene l’aspirazione nel campo del possibile: sarebbe bene e sarebbe meglio fare questo o quello, ma non si fa ancora. «io dovrebbe / dal suo esilio / piegare verso l’orizzonte / farsi cosa dai quattro cantoni» (p. 9): cioè dovrebbe essere più di un solo io e più dell’io stesso; «io dovrebbe / con la lingua mettere a fuoco / l’esatta dimensione del vuoto» (p. 10), quindi ragionare sulla metalingua e sulla negazione; «dovrebbe esplodere» (p. 12) e «mettersi tra parentesi», senza cessare di esistere; e «appropriare palmo e cosa» (p. 14), quindi, immediatamente, «scrivere di quella cosa che la luce tarla» (p. 11), «scrivere d’altro» mentre «l’anima diluvia» (p. 15).

io è minuscolo come il soffio di Qohelet, quasi-niente ma non il vero niente. Per il suo anonimato si adatta molto bene ad operazioni metalinguistiche e metaletterarie, come lo stesso ritmo anaforico dell’incipit «io dovrebbe». Le cose che dovremmo fare sono moltissime: atti metaforici come «sopra il taglio planare» (p. 17) – il filo di lama di Montale? – e appunto «cavalcare la lama» (p. 18); quindi, nella prima sezione, molte immagini di taglio, strumenti che tagliano, e il confine, il bordo (p. 10), il tratto, il solco e il delirio (p. 16): come per ricordare, sperimentandolo, che la coscienza metalinguistica e la resistenza letteraria – quella più apparentemente ‘impolitica’, mentre osserva «le cose che non sono cose» (Leopardi) – sono stati-limite, sfide gravi, e che lo sono insieme. Il risultato dell’«esilio» e della ricollocazione è che io «possa dalla sorgiva staccare / la radice del suo piede // a nuovo rivo egli s’avvia / come a beato confine» (p. 38).

Nella seconda e nella terza sezione le azioni non sono più auspicate, ma compiute all’indicativo. La prima conseguenza, stranamente, è che nel mondo delle cose fatte l’io non deve più essere l’incipit dell’incipit. La seconda è che le azioni dell’io sono già meno metaforiche, indicando una prostrazione volontaria e lo scialo di sé: «s’inforra / nel più penoso dei vuoti» (p. 23); «preferisce l’orfano gridare / e darsi in cibo a chi soccorre» (p. 24); «talvolta sfibra» (p. 25) e «trema» (p. 26), sembra «topo in fuga» (p. 27); è carne nell’inguine e nella lingua (quando ama?), ma «il cedevole lo sposta invece / nella vena aperta della voce» (e la rima imperfetta invece : voce potrebbe essere, da sola, il segno di una non completa fratellanza tra il corpo di carne e la presenza della voce, che non è carne, infatti a p. 37 si parla di un’«asimmetria del corpo»). Infine io riuscirà «a farsi mano / nuoto / cosa altra e soda» (p. 31). Nella quarta sezione, «noi», io sembra scorporare da sé il tu, «benedetto a sete e fame», bisogni che non possono essere consolati del tutto se non con bevanda e cibo (il massimo dell’astrazione rifiutata); poi «nostro sangue» (p. 48) e «nome allo spazio / che trema e insieme / li sposa» (p. 49). Le necessità del corpo, il sangue e il nome compongono, insieme, uno scenario stranamente primordiale, da Genesi rifatta nell’esperienza del confine, del tempo e della morte.

2.

Le prime quattro sezioni del libro contengono, rispettivamente, 11, 9, 7, 5 testi, dedicati all’io e al noi. La mente corre sùbito alle numerologie settenarie di Eugenio De Signoribus in Ronda dei conversi, non di molto successivo; e alla scaramanzia d’autore di Montale nella Ballata scritta in una clinica. Non a caso le singole liriche della prima parte hanno un titolo-numero, assente in Dappertutto, che compone da solo una «seconda parte» (otto prose di righe giustificate tipograficamente, a costo di inserire un grosso spazio centrale, come a p. 59; righe immerse in larghi spazi bianchi a destra e a sinistra). Si tratta di spazi metrici, evidentemente, che devono – non dovrebbero – essere pubblicati come tali, in funzione di una doppia sfasatura, ricercata: quella tra magma prosaico e salto da riga a riga, e soprattutto quella tra la levità purgatoriale della prima parte e il peso della seconda.

Quindi il libro si chiude riaprendosi; anzi, ostentando la propria asimmetria (versi, poi prosa; iotunoi, poi il magma del mondo; selezione linguistica, poi abbandono al nuovo, dallo spot alla biometria; numeri, poi una serie non numerata). Ma cose e persone sono evidentemente dappertutto, e lo sono tanto da straziare chi vuole prenderne conoscenza o cercare un minimo rapporto, anche con la mediazione della poesia, che sceglie una cosa o una persona o un lemma e ne abbandona di necessità un altro («e d’altro canto i bambini dappertutto e le / donne dappertutto e i folli dappertutto e / le madri dappertutto e dappertutto le / parole la poesia e gli animali dappertutto / i vuoti dappertutto e i modi in cui / dappertutto preferendo questo quello / scompare»: p. 55).

Due parole leggerissime chiudono il libro, implicandosi in una familiarità imbarazzante per tutti: voce e fame (p. 60). L’una e l’altra sono sciolte da qualsiasi rischio di astrazione: la fame è quella di «tuo figlio», la voce è quella con cui – insieme ad un’adeguata mimica – tu stesso devi spiegargli l’orrore del mondo. Per alcuni di noi, la voce è veramente lo specchio dell’anima.

“Microcritica”, settembre 2005                                                           Massimo Sannelli

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