Tiziano Salari su Giulio Marzaioli

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Proprio un copista di uno scriptorium veronese,probabilmente intorno all’anno 800 dopo Cristo, trascrisse, su un foglio di un codice di preghiere latine,un indovinello di due versi (esametri ritmici) che nelle storie letterarie viene indicato come uno dei primi documenti in lingua volgare:

Se pareba boves, alba pratalia araba
Et albo versorio teneba, et negro semen seminaba.

È il famoso Indovinello veronese che allude all’operazione di scrittura attraverso un paragone con quelle di aratura e di semina. Può essere tradotto così:

Si spingeva avanti i buoi (le dita),
arava un bianco prato (la pergamena),
reggeva un bianco aratro (la penna)
seminava nero seme (l’inchiostro).

Ed è proprio l’indovinello veronese che mi è venuto irresistibilmente in mente leggendo il manoscritto di Giulio Marzaioli, In re ipsa, e chiedendomi che cosa significasse quel titolo latino che alludeva allo stare, all’essere nella cosa stessa. In re ipsa. Nella cosa stessa. La risposta mi venne quando lessi i seguenti versi:

L’inchiostro si annoda tra riga e pausa.
È una rete in cui riposa il nero,
quasi un nido se non fosse che la frase
vira in bianco sul foglio, non racchiude.

Essere nella cosa stessa significava forse, per Marzaioli, essere nella scrittura stessa? Ma il negro semen (l’inchiostro) che calava sul foglio per racchiudere qualcosa non riusciva tuttavia a racchiudere niente (vira in bianco sul foglio, non racchiude). Qualche pagina dopo il poeta parla addirittura di un ago che incide la carta, come se la carta fosse la carne del poeta, e, addirittura, della nervatura d’inchiostro sul foglio come se fosse la monta, una specie di coito, e la scrittura il piacere. Quindi un piacere in sé e per sé, al di là del fatto che la scrittura racchiuda qualcosa o non racchiuda niente. Ma forse la cosa è ancora più complicata.

 

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L’espressione la cosa stessa, come raggiungere, esprimere, “la cosa stessa” è un problema che ha occupato la filosofia fin dalle origini,da Platone (la celebre VII Lettera), una formulazione che è stata usata per definire “la cosa del pensiero” e che il pensiero moderno ha ereditato come una parola d’ordine, ha scritto qualcuno, passata di bocca in bocca, in Kant, in Hegel, in Husserl, in Heidegger, qualcosa che si esprime nel linguaggio ma allo stesso tempo lo trascende, e non può esistere all’infuori del linguaggio. Anche nella poesia , quando Baudelaire, ad esempio, scrive di avere teso, nella dedica dello Spleen di Parigi, al miracolo di una prosa in grado, come nella poesia di un amico, “ di tradurre in una canzone il grido stridente del Vetraio, e di esprimere in una prosa lirica tutte le desolanti suggestioni che questo grido invia fino alle mansarde attraverso le più alte nebbie della strada”, vuole ritrovare l’equivalente espressivo di un fenomeno unico e irripetibile, della cosa stessa.

 

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E allora, da sempre, filosofia e poesia sono attraversate da questo dilemma, il rapporto che intercorre tra il linguaggio e la cosa di cui si occupa, in cui certo, ne va della ricerca della verità, sia questa l’idea filosofica o il grido del vetraio. Tutto l’ultimo secolo, filosofico e poetico, è occupato dal problema della differenza tra linguaggio e realtà. Si pensi all’ossessione da quando Hofmannsthal scrisse, in persona di Lord Chandos, del logoramento delle parole e dello stupore di trovarsi di fronte a degli oggetti , a cui non sembrava più corrispondere la parola che li designava. Un erpice, un prato, una capanna. La poesia, per accentuare la propria distanza dal linguaggio comune, ha teorizzato nel corso del secolo la separazione tra significato e significante, come se solo attraverso questa separazione fosse concesso di allargare gli spazi del sentire ed esplorare nuovi mondi. Marzaioli, mi sembra, non crede alla possibilità di questa separazione. La sua “cosa stessa” diventa la scrittura all’interno della quale significante e significato si schiacciano l’uno sull’altro fino a diventare righe allineate sul foglio (o aghi che incidono la carne del poeta, il foglio bianco , l’alba pratalia ,come il corpo del poeta). La scrittura, che è perennemente ricerca del senso, tentativo di afferrare la cosa stessa, diventa essa stessa la cosa, in una sorta di fascinazione in cui la realtà, piuttosto che essere afferrata dalla scrittura, si sottrae perennemente dall’essere compresa.

 

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Marzaioli è consapevole in questo corpo a corpo con la scrittura (che è un corpo a corpo con la cosa, chiamiamola vita, essere, realtà, senso dell’essere), di essere sempre in presenza di una mancanza, è consapevole di non andare certo, con l’esercizio della scrittura, come diceva Blanchot, verso un mondo più certo, migliore, meglio giustificato, dove tutto si ordini secondo la chiarezza di una luce giusta. Anzi, in una sezione del libro, definisce quello che resta sulla pagina spazzatura, in cui allineare come in una discarica i propri resti di uomo e di poeta Grafia di una storia minore, dice, (storia con la s minuscola) sullo sfondo di una Storia (con la S maiuscola), che scorre come qualcosa d’inesorabile e distante dalla nostra storia soggettiva, ma insieme la interseca , in un’evanescenza da cui entrambe sono travolte in una continua produzione e perdita e nuova produzione e nuova perdita di senso.

 

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Questa evanescenza della cosa stessa, o questa metamorfosi della cosa stessa nella scrittura che dice l’evanescenza della cosa, in un suo libro precedente l’aveva chiamata elementi di fuga. Gli elementi sono i quattro elementi primordiali della filosofia presocratica,che suddividono il libro in quattro sezioni: Aria, Acqua, Terra, Fuoco. Come ogni vero poeta in ogni suo libro non fa che allargare il proprio orizzonte iniziale Elementi di fuga è l’antecedente necessario di In re ipsa. Nella sua prima raccolta Marzaioli s’interrogava sulle manifestazioni più percepibili di quegli elementi, l’aria che ci circonda, la pioggia che cade, la terra investita dalla luce, il debole fuoco luminoso di una candela, colti sia nella loro presenza fisica e insieme come fondamenti dell’essere. Anche qui il linguaggio e la cosa cercavano una difficile congiunzione vivendo drammaticamente la loro dissociazione. Elementi di fuga/ in fuga. Forme allo stesso tempo concrete e astratte che si dissolvevano in relazione al nostro essere nel tempo. Così Marzaioli chiudeva quella sua prima opera:

è questo il tempo della fuga
prima che la breccia chiuda,
ci trattenga fuori?
Allora s’apre dentro la ferita
come una finestra.
Perché non si disperda il volo
perché prosegua nel ritorno
quasi una risposta.

 

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La ferita , aperta come una finestra , significa che attraverso la ferita si mantiene un collegamento tra interiorità ed esteriorità, tra linguaggio e cosa, che In re ipsa tornerà come problema di ferita che, attraverso la scrittura, sembra rimarginarsi, ma nella consapevolezza che nella scrittura non si rivela la cosa stessa ma solo il suo fantasma, e che quindi ogni comprensione è fondata nell’incomprensibile. E riaffiora il problema della cosa ,che un tempo rinviava a qualcosa di concreto, a Dio, alla vita, all’inconscio, allo spirito, che ora sono diventati nomi vuoti, essendo il pensiero contemporaneo (includendo in questo anche il pensiero poetico) arrivato ad un punto estremo di esaurimento. Parafrasando Heidegger, l’uomo è gettato nel linguaggio senza che nessun fondamento gli garantisca una possibilità di scampo dal gioco infinito e insensato della scrittura, del negro semen, dell’inchiostro che moltiplica le righe nere sul foglio bianco, sull’alba pratalia, negli infiniti spazi bianchi all’interno dei quali deve essere riarticolato il senso, ritrovata un’apertura (Allora s’apre dentro la ferita/come una finestra, dice Marzaioli) al movimento del pensiero. E qui poesia e filosofia s’incontrano nello stesso compito della ricerca di un varco che trascenda la cosa stessa (il linguaggio, la scrittura) in una sempre rinnovata interrogazione rivolta al cuore dell’essere, al di sotto del velo che gli ha tessuto, e continua a tessere intorno, il linguaggio.

(di Tiziano Salari su Anterem)

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