Parola ai Poeti: Anna Maria Farabbi

Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?

Non posso rispondere genericamente. Chi lavora interiormente e nella propria capacità espressiva con rigore assoluto, con feroce autocritica, continua a praticare la misura della bellezza, necessariamente, malgrado fuori la peste sia devastante. Ho usato la parola  bellezza significando una sintesi  tra estetica e contenuto.
Ho amici editori e poeti che resistono sanissimi, lucidi, e dolenti. Continuano a vivere a creare a inventare frontiere praticabili, piazze d’incontro.

 

Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto?

Nel 1995 vinsi il premio Tracce per la pubblicazione di Fioritura notturna del tuorlo. Il mio primo affaccio pubblico importante è stato, quindi, un piccolo colpo d’angelo. Un dono. Fin dall’età di tredici anni ho scritto poesia, decidendo di non pagare neanche un centesimo per la pubblicazione: unica verticale il lavoro interiore, rigore onestà passione.  Il momento giusto è per me una sensazione fisica spirituale di compimento dell’opera, indipendentemente dalla sua pubblicazione.

 

Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?

Successivamente, mi hanno chiamata, contattata.  Non ho mai aspettato qualcosa. Ho solo detto grazie e continuato a lavorare. Umilmente. Mi ha sempre entusiasmato l’incontro con persone intense e intere con cui incrociare l’anima e barattare la propria esperienza, la propria ricerca artistica, la poesia  stessa. Queste relazioni si sono moltiplicate certamente aumentando la mia esposizione pubblica. Mi hanno deluso artisti che avevo studiato e stimato e che ho scoperto poi, anche attraverso le loro parole, i loro comportamenti, le loro scelte, che avrebbero venduto la propria casa pur di emergere. Ma anche la casa degli altri. Artisti e poeti noti.

 

Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?

Nel campo dell’editoria, in un tempo e in una società così esangue e corrotta, proporrei molti eventi pubblici dislocati fuori dai centri canonici. Vorrei fare letture in piazza, nei supermarket, negli ospedali, nei grandi centri commerciali, nelle scuole, nelle stazioni, nelle radio private. Potenzierei il sito della mia casa editrice. Lavorerei molto nello scambio con altre case editrici, italiane e estero. Insisterei sulle traduzioni. Traducendo poeti stranieri e facendo tradurre quelli del mio catalogo. Organizzerei eventi poveri, ma raccogliendo varie forme artistiche, musicisti pittori fotografi scultori. Sarei più interessata alla provincia che alla grande città, Cercherei di comporre un catalogo  serio, attendibile, con una propria identità. Aprirei una collana per ripubblicare opere sommerse e necessarie. Un corridoio particolare alle autrici.
In genere i poeti si aspettano sempre molto dal proprio editore, almeno così sento dire: contatti, coinvolgimenti, nuovi affacci, invii di libri, invii ai premi…
Rimangono quasi sempre scontenti. Cercano la relazione umano con l’editore non tanto un freddo contratto commerciale. Su quest’ultimo punto condivido pienamente con gli altri.

 

La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?

Sì, la rete diffonde e moltiplica, accelera la comunicazione, la semplifica. Credo che la grande editoria abbia molta, se non totale responsabilità, di questo esilio istituzionalizzato del piccolo piccolissimo o inesistente scaffale per i libri di poesia. Che poi i libri di poesia, le riviste,  viaggino per altre vie è un fatto. Ma non è un fatto sufficiente.  Occorre educare all’ascolto interiore, alla cultura della parola, alla cultura del respiro. Questi sono ingredienti che conducono nell’antro della poesia. Visto che i ragazzi frequentano così tanto il web, occorrerebbe inventarsi qualcosa da lì e ricondurre i corpi al confronto fisico, anche in libreria, anche attorno ad un microscopico scaffale. Ma anche al piacere dell’oralità, all’ascolto diretto.
Le due cose, internet e scaffale, possono stare insieme. Il rischio della cultura virtuale esasperata…è l’evaporizzazione dell’incontro fisico, della tattilità, della pratica dei sensi, del viaggiare con i piedi e valigia, è l’inghiottimento frenetico,  è disconoscere il tempo della meditazione, dell’elaborazione, dello stare in sé.

 

Pensi che attorno alla poesia – e all’arte in genere – si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?

La critica ha solo tre comandamenti: studiare, cercare, essere onesti. Alla critica è affidata la responsabilità di sfondare i muri di cemento dei giornali e delle riviste e far entrare la poesia. Poesia non solo edita da grandi editori ma quella viva, anche inedita.

 

Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?

Io non conosco canone né regole, sento la qualità. Questa impostazione maschile posa sempre su dicotomie, sull’asse virtuale da cui misurare lo scarto e catalogare. Riduce e disconosce e censura. Mi piacerebbe giocare con un bel signore del canone: entrambi davanti al fuoco con un bicchiere di vino rosso: io che faccio un nome…per esempio Amelia Rosselli, e il bel signore , che so immagino intuisco non l’ha profondamente studiata ma non lo dice pubblicamente,  dove la colloca, in quale casellina del suo puzzle?

 

In un paese come il nostro che ruolo dovrebbe avere un Ministro della Cultura? Quali sono, a tuo avviso, i modi che andrebbero adottati per promuovere la buona Letteratura e, in particolare, la buona poesia?

Questo individuo chiamato ministro dovrebbe avere senso dell’unità del nostro paese, poiché la cultura italiana è il mare di più fiumi,  dovrebbe avere cultura, cioè esercizio continuo di studio, di lettura, di approfondimento, di elasticità, di creatività, di invenzione. Non pubblicare poesie lui stesso senza rendersi conto della propria banalità e retorica. Qualunque riferimento non è casuale. Tra tante cose che potrebbe fare, una è quella di investire di più nell’insegnamento della letteratura, in maniera comparativa, interattiva. Riqualificare gli insegnanti di letteratura con corsi, magari con la partecipazione di narratori, saggisti, poeti e altri artisti. Potenziare gli insegnanti, rendendoli  possibili promotori di iniziative in cui coinvolgere artisticamente gli studenti.  Oltre la scuola, il ministro della cultura dovrebbe pretendere di far passare programmi televisivi di qualità, in cui viene parlata la lingua italiana in modo appropriato e articolato. Investire su programmi intelligenti in cui viene diffusa la cultura artistica, letteraria, musicale… Molto altro, non la finirei più di rispondere…

 

Quali sono i fattori che più influiscono – positivamente e negativamente – sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?

In parte ho già risposto. Trovo che davvero i due cardini fondamentali siano la scuola e la televisione. Fondamentali non solo per la poesia, ma per tutto.

 

Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?

Il poeta è un cittadino. Ha piedi che camminano le pietre o il catrame tra la sua casa e le altre del luogo in cui vive. Ha un’apertura interiore cosmica e radici nelle ere della storia. Ha i propri avi forse in qualche bulbo dell’Africa o dell’Oriente, ma ha un presente sociale, una relazione orizzontale con il luogo in cui vive. Chi si arrocca in una torre d’avorio separata dalla terra, perde il senso di umanità, perde il contrasto lacerante del confronto e dell’incontro, l’imperfezione permanente. Ma perde anche la vita in sé, il suo sangue, il destino dentro cui è nato.
Io non credo di avere responsabilità verso il mio pubblico.  Intanto questo aggettivo possessivo mio credo sia inesistente. Non possiedo nulla. La poesia è sul palmo aperto, mi soffia via con il vento. La responsabilità è, per me, nei confronti del vento, della parola in sé. Quanti vorrebbero scrivere e hanno le mani mutilate, quanti vorrebbero dire e sono sordi. Io stessa ho avuto problemi alle corde vocali, ho fatto esperienza del silenzio, comprendo la preziosità di enunciare, pronunciare, significare a voce alta.
Quanti, per aver scritto poesia o detto, sono stati massacrati, imprigionati, esiliati! Quanti poeti, quanti artisti, hanno consegnato tutta la loro vita per il segno, per l’opera? Ecco questo è il popolo passato presente e futuro a cui devo responsabilità. Il popolo passato mi affida il testimone, l’eredità.
Per l’ultima domanda, rispondo ancora in modo personale. Io non penso al pubblico, né alla commerciabilità, né alla pubblicazione. Non ho fame di nulla. Sono piantata nel mio orto nel fare interiore, nella tessitura delle parole, con riconoscenza se queste vengono e vanno. Nessuna invidia, nessuna gelosia, nessun carrierismo. E’ tutto un fiume inquinato che non mi appartiene. Se mi si chiama, vado all’incontro portando ciò che ho.

 

Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintilla e come la tieni accesa?

Ci sono parole che segnano la mappa del mio viaggio interiore, le ho già citate nelle mie risposte. Attenzione, concentrazione, studio, ascolto, meditazione, accoglienza del lavoro altrui, desiderio dell’incontro, umiltà, la coniugazione tra rigore e passione, onestà. La parola ispirazione secondo me causa fraintendimenti, dà adito a un’interpretazione di stato momentaneo, sulfureo. Non mi piace. La parola disciplina estratta dal contesto, emana siccità e carestia e sofferenza monacale. In realtà, la mia interiorità dovrebbe essere sempre concava, umida, fertile. Ho già scritto qua e là, che prima della poesia, c’è una preistoria permanente e fondativa  della poesia.

 

Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?

Scrivo per grazia. La grazia ha un peso specifico, non è manna. Lo ho già detto prima, deriva da un processo di coltivazione interiore. Scrivo per necessità. Come affaccio dal me. Esprimo non comunico. E lo faccio perché credo nel tu. Nella creatura altra da me. Quel che dentro ha la mia poesia non lo so.

 

Cosa pensano della poesia le persone che ami?

Non so. E’ una bella domanda. Dovrei dirti chi amo e tu dovresti intervistarli. Ci sono molte persone che amo e che non hanno mai letto un libro. Molte che non sanno che scrivo. Per esempio  i bambini.

 

Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?

Si, lavoro in un ufficio pubblico. Non è facile trovare equilibrio per la gestione di tempi, la pazienza, la tolleranza verso chi schernisce l’arte, la scrittura in genere. E’ stato pesante aver consapevolezza di rubare alla mia giornata tempo indispensabile per la mia salute interiore: lo studio nell’accezione di cui ho scritto prima. Tuttavia, ho concluso così: ogni lavoro, in fondo, è un occhiello dignitoso dentro cui imparare e crescere. Ho lavorato in redazioni di rivista, non è facile scrivere per mestiere. Il poeta non scrive per mestiere.
L’esercizio scrittorio per affinare la sua tecnica può farlo comunque in vari modi, anche collaborando a riviste in rete. Oggi è più facile di una volta. Chi è poeta, secondo me, deve lavorarsi dentro soprattutto. Lavorare sé e la parola interiormente, prima di atterrare sul foglio. In questo senso, ogni lavoro può essere in grado di porgere occasione di crescita.
Fin da ragazza ero certa che non avrei tollerato di lavorare all’interno di un sistema dentro cui ogni giorno avrei potuto essere a contatto con terribili compromessi e mercificazioni, ignoranze sulla scrittura o sull’arte in genere. Meglio un luogo lontanissimo da tutto questo.

 

Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?

Il mio obiettivo è morire sul campo, esistere con questo sangue rossissimo che mi fluisce dentro e si sparge qua e là sul foglio. Comunque siano i fatti della mia vita futura. Con accoglienza, con il senso del divenire, con gioia profonda profonda. E che la mia poesia mantenga il rosso, l’onestà, e il senso del tacere, quando non raggiungo una qualità ottima.
Non so rispondere all’ultima domanda. Credo che ogni poeta abbia tutto il vuoto e tutto il pieno attorno. Sempre. Il rapporto forte con la creazione è in se stessi.

 


 

Anna Maria Farabbi è nata a Perugia il 22 luglio 1959.
Premio Montale nel 1995, è stata redattrice della rivista letteraria “Lo spartivento” di Bologna, ora inattiva. Ha collaborato per traduzioni, recensioni e interviste a scrittrici e scrittori e per lavori di critica letteraria a vari giornali e riviste, tra cui “Legendaria”, e per la rivista bilingue africana “Sister Namibia”, come corrispondente italiana.
Ha pubblicato opere saggistiche sulla rivista letteraria “Il rosso e il nero”. Suoi racconti e poesie sono apparsi su varie pubblicazioni, tra cui “Poesia”, “Atelier”, “La Clessidra”, “Il vascello di carta”, “Versodove”, “Poetrywave”, “Yale italian poetry”, “Pagine”, “Famiglia Cristiana”, “Letture”.
Attualmente collabora con la Fondazione Bianciardi – Il Gabellino – per un lavoro di interviste ad esponenti autorevoli internazionali (storici, poeti, filosofi, traduttori…).”
Anna Maria Farabbi
ha pubblicato le raccolte di poesia Fioritura notturna del tuorlo, Tracce,1996; Il Segno della Femmina, Lietocolle, 2000  con cd; Adlujè, Rovigo, Il ponte del sale, 2003; Kite, con portfolio di 9 opere grafiche di Stefano Bicini, Studio Calcografico Urbino, 2005; Segni, con opere grafiche di Stefano Bicini, Pescara, Studio Calcografico Urbino, 2007; La magnifica bestia, Travenbooks,  2007, Solo dieci pani, Lietocolle,  2009.
Ha anche pubblicato libri di prosa Nudità della solitudine regale, Zane Editrice, 2000 e La tela di Penelope, Lietocolle, 2003 – e di saggistica con traduzioni Le alfabetiche cromie di Kate Chopin, Lietocolle, 2003, una monografia su Kate Chopin; Un paio di calze di seta, Sellerio, 2004, una scelta di  racconti di Kate Chopin; Il lussuoso arazzo di Madame d’Aulnoy, Travenbooks, 2008. Opera edita critica d’arte: “Maria Cammara“, Lalli,1999.
Sull’opera della Farabbi, Francesco Roat ha curato la monografia L’ape di luglio che scotta, Anna Maria Farabbi poeta, Lietocolle, 2005.

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1 Comment

  • Grande coerenza d’insieme in questa bella intervista ad Anna Maria Farabbi e grande attenzione ai rischi di fraintendimento (sull’ispirazione ad esempio, giustamente ridimensionata se non negata, ma anche sulla disciplina, pure cercata e consigliata).
    Ritrovo peraltro il tenace rifiuto d’ogni pubblicazione a pagamento, difficile da criticare, specie oggi con le opportunità di proporsi validamente in rete, anzi troppo facile da condividere (ma sappiamo che nella moltitudine delle autoproduzioni, sono registrati, quasi sempre agli esordi, autori inimmaginabili e che forse mai avremmo conosciuto se fossero rimasti in attesa dello scopritore o del mecenate: Saba, Pound, Svevo, Palazzeschi, Pasolini, Moravia, Cvetaeva, Miller….)

    Un caro saluto
    Antonio

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