Maria Grazia Lenisa: ‘Il tempo muore con noi’, con uno studio critico di Aldo Capasso

Il tempo muore con noi

Maria Grazia Lenisa

1955, pp. 48

Liguria Editrice

Maria Grazia Lenisa è una giovane studentessa di terza liceo classico a Udine e ha cominciato prestissimo a scrivere versi, al solo scopo di rendere più buona e più vera la sua vita agli inizi della giovinezza.
Sono tante le poetesse, si dirà, e non si dovrebbe incoraggiare la nascita di altre. Ragionamento capzioso; perchè impedire il sorgere di una vocazione, quando è spontanea e sincera come in questo caso della Lenisa, sarebbe cosa antinaturale e crudele.
La Lenisa, sebbene giovanissima, ha in sè i requisiti necessari per potersi affermare pubblicamente: ci sono in lei doti istintive, una pensosa intelligenza, e la sensazione di esser pronta a rendere manifesto, anche agli altri, il suo mondo interno. La sua presa di contatto con la realtà delle cose, della natura e del pensiero è un possesso afferrato in modo delicato e originale. Essa diventa tutta una cosa con l’erba che cresce, con la spiga, che s’alza diritta verso il sole.
C’è soprattutto in lei una grazia di dire anche le cose più trepide e cariche d’ignoto destino o di sofferenza: attraverso il sorriso di questa giovinetta s’intravede, come essa stessa dice, un’altra sincerità più genuina: quella del pianto.
Nonostante la giovane età il suo pensiero si ferma sulle cose ineluttabili e sul destino del vivere, quando dice: «L’anno che si aggiunge all’anno | mi rende intensamente vecchia, | d’una vecchiezza che non ha rughe, | liscia come buccia di mela, | ma l’anima, invisibile | porta invisibili solchi. | Gli anni… nessuno s’accorge che passano, | quando il sangue si carica di brividi | se uno sguardo attraversa la carne innocente. | Poi un bacio vi lascia il suo segno | e l’ora acquista un tacito sapore angoscioso». La Lenisa, la quale s’accorge come il tempo muoia con noi, sogna appunto un’ebbrezza spirituale, quella di vivere senza tempo.
Giovinetta e donna che sa anche gustare, ripensandolo, il dono di essere stata bambina. Ma, insieme, la sua femminilità in attesa non è che una contingenza occasionale.
E’ un poeta che comincia a cantare con una voce tutta sua, una voce che è già forte e piena ed ha un tono ora dolce ora grave, che sì distingue nel coro affannoso e incomposto dei tanti nuovi poeti.

dalla Prefazione di Ettore Allodoli

 

Qui tutte le poesie della raccolta

 

La «giovane poesia» sorta, o almeno sviluppatasi, dopo il 1945, ci reca un potente soffio di realismo, un robusto e sano disdegno delle volute e superficiali «singolarità» del decadentismo, una virile semplicità onde l’anima umana aderisce schiettamente alla quotidiana realtà che la circonda, e per ciò stesso aderisce finalmente a se stessa (o, se preferite, si ritrova).
È la, pur graduale e progressiva, sconfitta del decadentismo, ermetico, o surrealisteggiante, o vagamente espressionista; è, soprattutto, la sconfitta dell’ermetismo italiano, che, dopo essersene tanto gloriato, ormai addirittura si vergogna del suo iniziàtico e pretensioso nome. Poco possono i critici «sottili», aridi e miserelli, del genere De Robertis o Bo, per contrastare questa ineluttabile evoluzione storica.
Ma se ben pochi sono i poeti giovani che, per gusto distorto del concettismo, dell’«analogismo», dell’artificio, si accordano allo stanco ed ambiguo ermetismo che più non vuole essere chiamato ermetismo, — se, in linea di massima, può dirsi che la gioventù ha preso la strada del realismo poetico, è ovvio che grandi differenze d’ingegno possono separare l’uno dall’altro i poeti delle nuove generazioni. Senza dire che quelli, tra i poeti nuovi, che avevano già cominciato a pubblicare qualche libretto d’esordio intorno al 1940, serbavano da principio riconoscibili segni della prebellica moda ermetizzante, e han dovuto mondarsene a poco a poco.
A nostro ponderato avviso, una delle figure più complete e ammirabili della «giovane poesia» è proprio una delle più giovani, o forse la più giovane: l’udinese Maria Grazia Lenisa, che, appena diciannovenne, si fece per la prima volta. notare riportando la Prima Medaglia d’argento del «premio Battaglia Letteraria 1954» (Messina), e, subito dopo, il secondo premio al concorso «Amedeo Ugolini» di lirica sociale (Palermo, dicembre 1954) e che uno dei maggiori scrittori nostri, Ettore Allodoli, ha presentata al pubblico italiano con una prefazione acuta e impegnativa, introducendo il volume Il tempo muore con noi (Ia edizione, Casa Editrice Liguria, Savona-Genova). Ettore Allodoli può andare legittimamente orgoglioso della sua scoperta: la giovane poetessa di cui egli, con la sua consueta freschezza l’impressioni e generosità di spirito, si è fatto padrino, possiede una personalità inconfondibile, con una tecnica già singolarmente matura, e ha subito mostrato di dover recitare una parte di primissimo piano, con quella sua semplicità stilistica franca ed alerte, nello svolgimento della rinnovellantesi poesia italiana, per la sconfitta definitiva del decadentismo.
Pochissimo tempo dopo che Ettore Allodoli aveva dettata la sua presentazione, Maria Grazia Lenisa otteneva il premio «Ebe 1955» (Savona) su votazione unanime della Giuria; e le motivazioni del premio riportate in verbale, e dovute alla eccellente penna di Giovanni Schiavi, riconfermano a pieno pianto per primo aveva scritto l’Allodoli. «La sua presa di contatto con la realtà delle cose, della natura e del pensiero è un possesso affermato in modo delicato e originale… C’è soprattutto in lei una grazia di dire anche le cose più trepide e cariche d’ignoto destino o di sofferenza…» così 1’Allodoli; e Giovanni Schiavi ribadiva dunque, subito dopo: «Quel mondo mutevole, intessuto di ansie e di ebrezze, di presentimenti e tremori, di entusiasmi e scoramenti in alterne successioni, proprio della giovinezza di tutti i tempi (ma qui ha un accento particolare e, per la rattenuta intensità, attualissimo, di questa nostra epoca percossa) è limpidamente tradotto nelle liriche presentate da Maria Grazia Lenisa, con linguaggio nudo eppur fremente, di quasi ellenica purezza».
Quel senso delle «cose più trepide e cariche d’ignoto destino o di sofferenza a, indicato dall’Allodoli, quel presagio del tempo che passa e consuma, — fors’anche a momenti, potrà dirsi, quell’orrore del tempo —, già, in Il tempo muore con noi, più volte, della Lenisa, fa una potente poetessa del pessimismo pensoso; ma vivida è la sua ricchezza d’impressioni e sensazioni, tenace il suo giovanile amore della vita, quasi fraterno il suo amore delle piante, delle respiranti cose naturali, della Natura, sicchè, in altri momenti, pur senza intima contraddizione, essa può apparire la celebratrice, suggestiva, della gioia giovanile. Nè meraviglia che Mario Ferraguti abbia riferito alla Lenisa il verso di Alceo: «Coronata di viole, gentile ridente Saffo…»: il quale allude, così, finemente, ai versi più aerati e avidi e naturalistici della ispirata fanciulla di Udine, anche se altre volte il verso della Lenisa si fa meditativamente denso, d’una densità quasi diremo foscoliana: e, magari, in certe tragiche consapevolezze, cupa.
Le liriche comprese in Il tempo muore con noi sono tutte selezionatissime, — ottime tutte; e le citazioni che ci affluiscono alla mente non tendono qui ad indicare le cose più belle, ma soltanto ad illuminare a volta a volta taluni, o taluni altri, motivi.
Possiamo riferirci a Fecondità per dare al lettore un’idea dell’ardore di vita che v’è nella poetessa fanciulla, e dell’intenso connubio ch’esso stabilisce fra lei e le cose naturali: «La fecondità della terra | mi commosse | e sentii nel mio corpo | ad ogni stagione | germogliare il seme, | gettato nei solchi. | Le spighe diritte | contro il sole | m’accarezzarono il mento | e diedero al mio sorriso | sprazzi: d’oro. | Ed io sapevo | come crescesse | la spiga fragrante, | accostando l’orecchio alla terra. | E ne portavo una in seno | a luglio, | e ridevo bruna come i miei campi | agli uomini di mio padre, | ma più d’uno | mi sorprese a piangere | sulle sue mani ruvide. | La città mi diede le vertigini | anche perchè tra le pietre | c’era solo un filo d’erba, | io smagrivo, | diventavo pallida. | Ma al ritorno | i campi m’accecarono | di luce, | il mio volto | splendette come bronzo | ed io palpitavo tutta; nella mia veste, ondeggiando | quasi una spiga vivente».
Un senso quasi pànico della campagna (onde una certa segreta ostilità verso la città, dove il filo d’erba è condannato a spuntare fra pietra e pietra) si fonde con la intima, quasi sotterranea soddisfazione della leggiadra adolescente che non può evitare di essere contenta del proprio fisico; e da ultimo quella identificazione tra la fanciulla e le spighe, che avveniva entro la fanciulla per virtù di amorosa fantasia (la fanciulla sapeva fingere dentro dì sè, con allucinante verità, la gioia del germoglio che cresce, il respiro della spiga che si dora), diventa un fatto obbiettivo, persino visibile: la fanciulla che splende come bronzo e oscilla con le spighe e come le spighe, attraverso una sorta di mimetismo spontaneo appare quale assunta nel loro mondo, persino un po’ somigliante a loro fisicamente perchè portatrice della loro stessa anima, della gioia panica (in lei, resa consapevole) diffusa in esse.
Questa è una delle liriche più serene della Lenisa, e segna in questo senso quasi un caso -limite. Altre volte, l’amor di vita, la avidità di vita dell’adolescente, genera più inquieta malinconia: così nei bellissimi Pensieri in soffitta: «Vedrò quest’anno primavera? | Il sole mi frugherà in seno, | china a calmare la sete | dei gerani, come ieri, | come sempre? | Intanto una piccola febbre | mi consuma e gli occhi si fanno | più tristi e più grandi. || Forse l’amore non entra, s’è chiusa la porta. || O cuore, cuore di fanciulla, | che scalpiti come un capriolo | ai primi giochi d’amore sui prati, | irrequieto, non è giunto ancor marzo, | un po’ di sole t’illude. || È febbraio, le notti sono d’attesa per te…». Questa attesa incerta, durante una febbricina di crescenza, attesa di qualcosa che forse non verrà (pare, alla fanciulla, addirittura che la sua vita possa essere troncata presto: e allora, insieme con la primavera, invano sarebbe stato atteso il prestigioso amore…), era un tema difficilissimo da trattare, perchè, troppo agevolmente, simili adolescenti e cangiante malinconie generano espressioni torbide ed effusive, una retorica sentimentalistica del desiderio, dell’autocompianto e del languore. Ma la Lenisa, per suo dono eccezionale, ha subito trovato quella nudità — greca, sì, possiamo dire —, che sola era in grado di manifestare, senza residui «pratici n, l’essenza d’uno stato d’animo così particolare e così sfumato. E la sua lirica veramente sa far pensare, come intuì primo il Ferraguti, come altri poi insistentemente ribadirono, per cristallina purezza, ai più ammirati frammenti di Saffo.
Ebbe, Saffo, il dono di evocare in pochi tratti un’intera atmosfera paesistica, — insistente canto di cicale nel sole, o fronde ombrose stillanti quiete, — con una concisione che non esclude la melodiosa vaghezza; e ben l’identico dono ritroviamo nella Fanciulla di Udine: « …E per incanto poi ridivento | bambina con gli occhi grandi | davanti ad un ramo | di pesco che ha brividi rosa…», « …A tratti si sente tra il fieno | un dolce bisbiglio sommesso, | un tenue ronzio ch’assopisce. | Il sole | con lentissimo amore | mi scorre sul corpo supino…», « …Fui come l’erba | bagnata dalla pioggia | calda d’agosto; | passarono lungo | le mie vene azzurre | insetti dall’odore di terra | e i grilli cantarono | vicino al mio cuore». Il sapore d’un’ora, o d’una stagione, tutto, in un prodigioso rapido trasalimento di parole evocanti; e (proprio come in Saffo) non c’è una prevalenza netta di tocchi visivi, o auditivi, o olfattivi, ma un’armonia complessa ed un equilibrio singolare di notazioni sensorie f.ltrate attraverso tutte le vie (compreso, si direbbe, il sesto senso), a creare un’atmosfera che s’impone imperiosamente: dal e brivido rosa» (tocco visivo), al «dolce bisbiglio» del fieno soleggiato (tocco auditivo), all’e odore di terra» che gli insetti portano su di sè (tocco olfattivo).
Nè si pensi che la Lenisa nelle sue liriche più brevi (ne ha parecchie, tutte leggiadrissime) sia talmente influenzata e suggestionata dai frammenti greci — come accade a vari poeti contemporanei! — da voler emulare il peculiare incanto del frammento, che apre tante vie alla libera fantasia dei lettori per la sua stessa incompiutezza; cadendo anch’essa nel frammentario e nell’incompiuto. Nulla di incompiuto ha la lirica breve di Maria Grazia Lenisa; che, anche nell’ambito di pochissimi versi, dà selettivamente tutto l’essenziale del suo motivo, — «un nucleo» vitale autosufficiente. Non «frammenti» ma liriche compiute sono le pagine mirabili che s’intitolano La strada, Apriamo il cancello all’azzurro, Ultima Aretusa, Forse: «Lunga la strada .| ch’io devo percorrere sola | e la polvere entra nel sangue. | Seduta sopra una pietra miliare | per mio riposo conterò le formiche. | (Ah, regolar con esse la mia vita…)» (La Strada).
«Apriamo il cancello all’azzurro… || Il cancello chiuso rattrista il cuore del vecchio custode, | anche se il ferro ha le sue radici nella terra | e sente di sotto nascere le prime viole. | Il vecchio custode ha la ruggine addosso, | nel suo canuto inverno poche sono le gioie. || Apriamo il cancello all’azzurro!» (Apriamo il cancello all’azzurro).
«O fossi io la sicula fanciulla | dal piè danzante, fiore dell’Ortigia, | che alle correnti d’Aretusa | affida le bianche membra | e bruna e risplendente | cerca tra il verde | il viso del suo Alfeo | poi scalza fugge». (Ultima Aretusa).
«Forse in me rivive la schiava assira | con sull’esile spalla l’anfora rossa bruciata dal sole. | Forse la dolce fanciulla dal | petto colore di miele | che nei verzieri di Lesbo, sola, | cantava canzoni d’amore. | Ogni terra ha l’impronta dei miei sandali, | ovunque nei millenni vissi, | ansiosa d’ombre e di luci | sulla carne, | di riflessi di foglie nei miei occhi, | foglie calde, dorate come pelle viva a. (Forse).
Sia un senso di stanchezza, che s’accorda coll’afoso mondo esterno (una lunga strada bianca, una isolata pietra miliare, tanta polvere, e un formicaio), sia l’impazienza d’un vecchio uomo al primo brivido di primavera nel perdurante inverno (desiderio ansioso d’un libero respiro al sereno, in lui, che ci appar come fraterno al segreto brivido del ferro. radicato nella terra come una pianta viva), sia il misto di amorosa audacia e amorosa timidezza in un cuore di fanciulla (accorre a nuoto verso l’amato, ignuda nelle acque, ardita, ma, spiatolo tra ramo e ramo, fugge prima che egli possa vederla), sia il vago miraggio di ricordi prenatali, onde la poetessa s’identifica con qualunque fanciulla antica abbia saputo amare godere la Natura: il sole, il contrasto delle luci e delle ombre, il fremito vivo delle foglie…, — nelle occasioni piìI mirabilmente varie la Lenisa sa ritrovare, e totalmente esprimere pur in note così veloci, i motivi dominanti che le accomunano, per lei, e che rispondono alla sua giovanile freschezza d’animo: ritrovare, in una parola, un sagace icastico amore della Natura vivente. Anche quando dice la grande stanchezza della via troppo lunga, i particolari concreti — nonostante tutto, in qualche modo amati — del mondo visibile (il polverone, le formiche, ecc.) ànimano la situazione e la risolvono in sè: e uno di questi (la presenza delle formiche) incarna e fa palpabile il proposito morale di umile rassegnazione.

Ma abbiamo incontrato, pur esplorando il più fresco mondo del giovanile amor vitae presso questa eccezionale poetessa, anche la malinconia, venata d’inquietudine, come nella stupenda lirica Pensieri in soffitta… Procedendo un po’ più in là su questa strada, oltre la malinconia, ecco si scopre l’altro volto della Lenisa, chè s’incontra l’amara pensosità, — originalissimo «pessimismo», pensoso e composto, stranamente preveggente, che genera una poesia di tristezza e di consapevolezza insieme. «Erica, assetato fiore del deserto, | che argini in sotterranei abbracci | di radici le dune, | verde in riarsa sterilità | hai il colore dei miei desideri inappagati. || Anch’io in un deserto, | (camminano gli anni come l’avanzare | implacabile delle dune) | m’illudo di fermare il tempo. | Deboli le mie radici | disperatamente sì espandono in tanta aridità». (Erica).
Se un «deserto» appare, qui, il mondo, non è per una contingente e particolare solitudine, o comunque sfortunatezza, della Scrittrice: ciò che rende il mondo così squallido e brullo, è il male cosmico che si chiama Tempo: il tempo inarrestabile, ossia la legge della caducità… Nell’età più giovanile, più lontana dalla morte, la Lenisa non sa nutrire ingenue illusióni; ha l’amara sapienza di un vecchio, nel cogliere l’ostilità del tempo che ad ogni attimo ci porta via qualcosa d’essenziale, ci sgretola un altro poco.
Non è meraviglia. La sua acutissima sensibilità può renderla, a momenti, capace dì cogliere la fuggiasca vibrazione della gioia con eccezionale prontezza ed aderenza; ma, altre volte, la rende vulnerabilissima. Proprio perchè ama tanto l’eterna giovinezza della Natura, che ad ogni primavera reinizia il suo ciclo e felicemente si rinnovella; proprio perchè, nell’amore della Natura sempre giovane, ama la propria giovinezza e si rende conto che questa è il solo mezzo per continuare a percepire quella e sentirsi in armonia Con quella; essa soffre più di chicchessia della consapevolezza che la sua giovinezza non durerà, che nulla è durevole nella vita degli uomini, che il tempo tutto intacca corrode consuma: sentendo entro di sè una ribellione profonda contro questa legge di caducità, e il vano desiderio d’un mondo sottratto al tempo. Quale si favoleggia che fosse nell’antico Eden prima dell’intervento del peccato.
Sensibilissima, e perciò vulnerabilissima. Dal punto di vista ‘artistico, la sua fortuna è che questa vulnerabilità, forse non del tutto infrequente nelle fanciulle, o negli adolescenti pronti ai repentini capovolgimenti d’umore, presso di lei è conscia, lucida, quasi diremmo cogitativa. Ne nascono frutti d’inimitabile aroma.
Questa poetessa è una fanciulla, che sa tutta la dolcezza dei sogni delle fanciulle; ma, per un dono di dolorosa prescienza crudelmente nitida, sa già — anche — come muoiono, i sogni ‘delle fanciulle, nella vita delle donne…: e canta, fra l’altro, anche questo contrasto.
Il tempo le appare così, giunta la stagione matura della vita, distruzione dei virgulti di sogni che, durante una breve vigilia, parvero indenni e sicuri: «Il tempo cammina furtivo sul cuore | della fanciulla, sul cuore della donna | calpesta i virgulti dei sogni appena nati». Ancora: il Tempo — dopo una breve stasi di quiete — entra nel nostro sangue, fa tutt’uno col sangue: e per ciò stesso, subito comincia l’invecchiare, anche se il volto è ancora perfettamente liscio. «Sogno l’ebbrezza d’un vivere senza tempo. || L’anno che s’aggiunge all’anno | mi rende intensamente vecchia, | d’una vecchiezza che non ha rughe | liscia come una buccia di mela, | ma l’anima, invisibile, | porta invisibili solchi.’ | Gli anni… Nessuno s’accorge che passano, quando il sangue si carica di brividi, | se uno sguardo attraversa la carne innocente. | Poi un bacio vi lascia il suo segno | e l’ora acquista un tacito sapore angoscioso. | Il tempo che nell’infanzia muoveva | lento come morbida onda di lago | s’incarna nell’uomo e corre col ritmo veloce | del sangue, — e lo sentiamo per ogni vena. || Sì, il tempo muore con noi».
Questa nitida misuratissima lirica, che dà il suo titolo al volume, porta la data del 13 febbraio, compleanno della Poetessa. Una poesia di compleanno, scritta a vent’anni: quando le fanciulle sono nel pieno ‘fiore, e sembrano felicemente così remote dalla vecchiezza, dalla morte, anche dalle prime sfioriture autunnali. Ma per questo temperamento poetico, eccezionalmente profondo, non è questione di alcuni anni in più o in meno, prima di giungere alla stagione irrimediabile, all’inverno della vita: quel che conta è di esservi avviati in modo inarrestabile, di saperlo. Dal momento in cui ci si rende contezza dell’azione del tempo contro di noi, che è già in corso dentro di noi, tutto cambia: comincia il vero invecchiare e comincia l’angoscia… Prima era la fanciullezza ignara: il tempo pareva fermo come un lago tranquillo, perchè quella era la vigilia in cui si attendeva di vivere e non si viveva ancora. (Tutt’al più, un presagio fuggitivo come un brivido: dolce. ancora, col suo mistero). Ma quando si comincia a vivere veramente (come, per una donna, accade nel primo amore, nel primo bacio), l’incanto è rotto: si hanno dei beni che non si vorrebbero perdere, e si sa che il tempo li insidia perchè tutto è mortale nella vita dei mortali, e si accoglie l’assalto primo dell’angoscia. Da ora in poi, cambia il corso del tempo ed è come cambiare il corso del sangue: il tempo è entrato nel sangue e, col sangue, corre una sua corsa vertiginosa, dando tragicamente il suo pieno valore (qualcosa ancora è passato!) allo scoccare di ogni secondo.
Senza essere, queste, liriche di ampio svolgimento meditativo, sono ricchissime di meditazione implicita, e definiscono una arte, tutta personale, che è poesia della lucidità non meno che poesia del «pessimismo». L’arte della Lenisa, già in Il tempo muore con noi, più volte vola in questa altissima atmosfera di estrema consapevolezza; persino nelle brevissime forme haikaistiche, o quasi, le quali non le si negano ad intuizioni profondamente introspettive.
(«Finsi | mille modi di essere | per trovare quella che sono: | ai recessi dell’anima | stupita m’arrestai per troppa luce» (Tonka).
«Il mio riso? Inganna quel riversar follemente | la testa bruna all’indietro | e squillando ridere | di tutto. | Solo il mio pianto è sincero, | quel pianto che poi cancella | la bugia di un sorriso n. (Il mio riso).
«La mia anima sola | parla con il geranio che ruba un po’ di sole | per veder la sua ombra sul muro sgretolato: | l’anima e il fiore, creature silenziose, | piangono in solitudine | la Ioro grande pena: di non saper morire | o di morir troppo presto?». (L’anima e il fiore).
Ma i motivi fondamentali, per questa poesia della consapevolezza, sono quelli del tempo e del sogno. Ossia: quello del tempo consumatore, della caducità, che abbiamo già circoscritto, e quello dei sogni i quali non germogliano o vengono soffocati in germe, che al primo si ricollega e si riconduce, o forse se ne ramifica. Almeno con un accenno, bisogna qui ricordare la bellissima lirica Eppure…, dove il motivo dei giorni come semi che non si schiuderanno deriva da quello del Tempo e della Caducità, e si lega indissolubilmente a quello, opposto in apparenza, della necessità, non rinunciabile, dei sogni. I sogni non si avvereranno (i giorni non manterranno le loro promesse), eppure i sogni sono i nostri benefici alleati, sono non meno necessari della realtà… V’è qui — come spesso nella Lenisa — una intensità che tiene, insieme, del dolce e del tragico: «…nè i semi rossi dei giorni | renderà fecondi il desiderio di luce». (Sacrificato desiderio di luce, che ci appare chiuso nei semi stessi che non s’apriranno!) Dal motivo della Caducità si ramifica anche quello dell’attesa bella e vana: «…e nell’attesa febbrile | soffoco le ore notturne lunghe di minuti oscuri».
A questo proposito va notato che sappiamo, ora, perchè (per quel senso del Tempo, dei virgulti calpestati, dei semi non schiusi, — delle ore notturne che attendono, invano attendono, il giorno onde saranno deluse) la poetessa di Udine risente profondamente — essa avida essa sfiduciata — il mito antico del paradiso perduto.«…Oggi il canto non si disgiunge | dal dolore… | Ogni pomo ha le sue radici amare». — Realtà essendo il mondo visibile, descrivibile, e realtà il mondo psichico dell’uomo, doppio può essere il realismo: realismo come contatto col Mondo, e in primis con l’ambiente naturale, e realismo come introspezione. La Lenisa è realistica in ambo i sensi: è acuta e coraggiosa nell’indagarsi, ma non perciò sprofonda nel solipsismo, con le sue pericolose sfuggenti nebbie, nemiche alla concretezza, e ama la Natura, e, perchè l’ama, la sa evocare con tocchi sapidi sagaci pregnanti.

Crediamo sia stato utile, esaminando l’arte di Il tempo muore con noi, semplificare un poco la visione e additare gli aspetti estremi di un tale mondo artistico: la gioia di vivere e l’angoscia del tempo, — la evocazione «sensibile» ricca di note sensorie ed impressionistiche, pregna di vigor «descrittivo», e la poesia di solitaria accorata meditazione. In questa duplicità, del resto, il mondo della Lenisa si riassume in grandissima parte. Tuttavia, non mancano alla Lenisa dei motivi «laterali», meno frequenti ma non meno sinceri, non meno suoi. La prodigiosa Fanciulla di Udine è tante volte assorbita dalla sua personale angoscia (la inimicizia verso il tempo, la prescienza così precoce di tutta la potenza distruttiva del Tempo), e tante volte assorbita dalla sua consolazione principale, il contatto con la Natura, amata con una sana fresca innocente sensualità (che talora mette in moto nelle sue vene presagi e desideri d’amore, vissuti con non minore sanità e naturalezza); non perciò ignora l’esistenza degli altri uomini; essa che è una creatura affettivamente completa, e che — possiamo rilevare, anticipando un poco — ama i suoi familiari con il più gentile ed umano trasporto. Non può ignorare l’esistenza deglialtri uomini, ma soprattutto non può ignorare l’esistenza degli uomini che soffrono. Ed eccola imprimere un’orma profonda nel campo della «poesia sociale a. Ci sono dei giovani poeti, oggi, che sono ossessionati daiproblemi politici, e di conseguenza fanno della «poesia sociale» con continua insistenza e, troppo spesso, con qualche schematicità programmatica. Non è tale il caso della Lenisa, che non sovrappone programmi alla sua spontanea prepotente ispirazione poetica, e che di liriche sociali ne scrive poche, di rado; ma quelle poche sono un’offerta profonda, perchè scaturiscono dal cuore.
È manifesto che la lirica Mezzadria è stata scritta di getto, in un momento di pura, fausta ispirazione. In essa Maria Grazia Lenisa parla della propria Nonna (o, per essere storicamente esatti, della Bisnonna, come ci avverte l’acuto saggio critico di Francesco Pedrina); ma la sua Ava non vive, nel canto, per la propria qualità di consanguinea, bensì come simbolo e compendio di tutta una gente. È quasi la statua, si sarebbe per dire, dell’antica Mezzadria italiana, ed evoca la vita sacrificata, la pazienza, il sagace scrupolo, il lavoro assiduo e la povertà di coloro che vissero in terra d’altri curando beni d’altri, e ricavando per sè appena di che alimentarsi e vestirsi, senza amarezza e senza rancore. Un inno alla pazienza e all’onestà; alla pacata sopportazione serena. L’unica cosa «superflua» che l’Ava ha messo da parte — un fazzoletto a fiori, per la domenica — ci esprime quella serenità, in una nota di superstite fantasia, mirabilmente. Ed è superfluo dire che il fatto che l’Ava non motrisse rancori od amarezze, non fosse una «ribelle», non è un invito perchè gli uomini si adagino nella conservazione delle ingiustizie sociali: più essa si scolpisce rassegnata, e anche serena, nei nitidi versi non più dimenticabili, più noi lettori sentiamo l’ingiustizia da cui essa fu colpita, e intendiamo che, per noi, ribellarci disinteressatamente all’ingiustizia è cosa santa.., contro il privilegio, per l’umanità.
«La madre di mia madre | lavorò i campi degli altri, perchè era nata povera, | i figli invece passarono l’oceano | e bagnarono di sudore | e di salsedine | il loro pane. | La madre di mia madre | restò sola, | ombra vestita di nero, | ma nessuno la vide piangere. | Si spezzò le unghie | a sgranare le pannocchie | degli altri ed ogni chicco, | che cadeva nella cesta, era un ricordo. | Curva per il peso | dei secchi di latte | badò a non spandere mai una goccia, | come fosse il sua sangue, | e non le vidi sul volto | un segno di ribellione. | La madre di mia madre | non mise da parte nulla | se non quel grande | fazzoletto a fiori, | che mette ancora la domenica».
È una delle più belle liriche sociali di questo periodo, che tante liriche sociali ha dato, perchè manca di ogni inflessione enfatica, dí ogni più remoto sospetto «oratorio». Questa è la vera purezza poetica, non quella degli ermetici e affini: purezza dagli scopi pratici immediati, purezza dalla immediata passionalità come grezzo sfogo, ma sentimento, ma umano calore, una ricca vita intima in cui è presente l’intera umanità del poeta.
(Il legame fra questo «motivo laterale)) ed i motivi principali della Lenisa sussiste, e lo si comprende in piena luce se si pensa che l’amore della vita presso questa Fanciulla è sano, colmo di naturalezza, sicchè per lei la Donna è destinata, non soltanto ai piaceri e brividi dell’Amore, ma anche all’Amore come dono di sè, gioia severa d’essere indispensabile ad un uomo, prima, e, pertanto, a una famiglia poi).
Echi sociali affiorano anche nella lirica Esodo, sebbene più inclassificabile sia la natura di questa lirica: è un pezzo lirico-drammatico, il monologo di una fanciulla di città che nacque in campagna e rimpiange la campagna, con particolari narrativi sobriamente fulmineamente accennati. (Il tono è deliberatamente prosastico, e per questo alcuni, dei molti critici che subito si appassionarono all’opera della Lenisa, hanno alquanto trascurato questa lirica; ma il Palazzi, critico di acume massimo, l’ha posta fra le migliori liriche lenisiane). Una «storia» particolare: ma ci vibra la pena e la fraterna pietà per coloro che, obbedendo al richiamo dell’urbanesimo, dalla campagna si sradicano senza esservi costretti, in cerca d’un paradiso urbano che non esiste, — motivo che non riguarda certo una famiglia sola. Grazie al sano potente Amore-della-Natura che già conosciamo, è, per la giovanissima scrittrice, un nuovo caso di preziosa chiaroveggenza.
La Lenisa qui appare assai efficace e risentita anche negli scorci narrativi: «….Io aspettavo il raccolto, ma si dimenticavano di me: | rossa in viso giocavo coi chicchi delle pannocchie…», «Io lo guardavo stupita ed egli nii diede | due dita di vino rosso e mi prese sulle ginocchia, | allora risi inconsciamente alla sventura…». Il carattere negletto della forma è soltanto apparente; in realtà, tutto deve essere, ed è, sottilmente pesato, in un narrare cosi rapido e sintetico.
Quanto alla lirica dei sentimenti familiari, la preminenza della Lenisa in questo campo non potrà dar luogo a discussioni, chè oggi la poesia dei sentimenti familiari è caduta in completo abbandono. Non la si tratta perchè si sentono meno quegli affetti? non la si tratta perchè si teme di sembrare poco moderni confessando di sentire quegli affetti? La Lenisa è sanamente moderna nella forma agile e sciolta del suo spontaneo versiliberismo, e moderna è anche nella gentile arditezza dei suoi accenni all’amore; ma non si piegherebbe mai ad una «modernità» che volesse tarparla dei suoi sentimenti più buoni o più caldi.
D’altra parte, non rasenta mai li «sentimentalismo» quando con tanta, e tanto femminile, dolcezza, ci parla della Madre, nella lirica Le tre vite, o della Nonna, nella lirica Sei tornata bambina (si noti che quest’ultima poesia, come altre, rimonta al 193?, quando la Lenisa aveva 17 anni appena): in affettuose ed insieme sorvegliatissime espressioni.
L’affetto per la Nonna, dolce e pura come una bambina, fa corpo con il desiderio d’una religiosità tranquilla e senza nubi, d’una mite semplicità spirituale simile a quella della ‘Nonna; l’affetto per la Madre, fa corpo col religioso rispetto pel mistero della vita, e per la femminilità che la perpetua. (Nell’un caso e nell’altro, un sobrio canto alla purezza dell’anima, che sopravvive agli anni e alle esperienze difficili dell’esistenza: «… la tua treccia è ormai bianca, | ma sei bella: | quasi incanto d’un paesaggio lunare, | e spaziì sereni la tua fronte».; «Nonna la tua bianca testa di dolcezza | è come una magnolia, fiore di santità, | il tuo sorriso casto splende di tenera grazia, | purezza sull’alta fronte pura si specchia….») Le tre vite è poi una ottitna introduzione per accostarci alla lirica Donna (cui strettamente si collega pur quella, gentilissima, intitolata Lodoletta ), dove vibra un così umano senso della duplicità necessaria della natura femminile: le figlie di Eva, che debbono servire la perpetuazione dell’umanità con la carne e con lo spirito, obbediscono al richiamo corporeo col fremito della carne, ma recano neIl’anima, pel bene dell’uomo, qualcosa di più alto, che resa pur sempre come inviolabile: «….Ma l’anima è pura | dal male dei secoli | che l’alimenta, | un giglio divino | fiorito sopra una palustre canna».
Anche sul destino perenne dell’ Uomo, ha, la Lenisa, una profonda, una duratura espressione, nel finale di Amo gli spazi infiniti: giungendo, in questa nuda lirica cristallinamente perfetta, nella rappresentazione di un suo pessimistico amore per visioni vaste, deserte, magari desolate, ad un’alta nota di ammirazione per la virile tenacia che lotta nonostante tutto, con poca speranza, contro qualunque tempesta: «Amo le grandi tempeste | e l’uomo che s’affatica, | solo, dinanzi al diluvio, | a costruire un’arca | bruna come una bara». Bruna come una bara… È la bara, infatti, conclusione ultima per l’uomo; ma ugualmente è bello affaticarsi e lottare,… come se non lo si sapesse!

 

Canti Vallombrosiani

L’uomo moderno non può appagarsi, di regola, ad una vita spoglia di pensiero, e fa intervenire il pensiero anche nelle sue passioni. Perciò una poesia tutta istintiva e visiva, per quanto perfetta, non può cogliere, e generalmente su tono minore, che alcuni lati, o minori o eccezionali, della sua vita; e il più fondo nucleo di essa (come già si vide presso Leopardi e Vigny) si manifesta e comunica nella poesia di tono meditativo. Nulla ha che fare con l’odierno, umanissimo realismo, l’intuizionismo di quei letterati (ogni tanto ce ne sono: ed uno, celebre, fu Benedetto Croce) che a sentire la «poesia di pensiero» sono negati per natura, e a posteriori cercano argomenti più o meno sofistici contro la lirica meditativa. Essi ci dicono che la poesia, quanto più si fa eterea, tanto più si spersonalizza; scambiando stranamente per eterea impalpabilità i temi della tristezza cosmica, angoscia cosmica, stupore cosmico, ecc., a cui così spesso approda, sin dal tempo di Dante («quale nei plenilunii sereni | Trivia ride tra le ninfe eterne | che dipingono il ciel per tutti i seni…»), la poesia di pensiero: temi che apparentemente possono anche mettere in primo piano stelle e plenilunii, o cieli vuoti, o mari deserti, o magari l’orrore candido delle banchise polari, ma in realtà ci parlano, prima di tutto, dell’uomo e del cuore umano: chè nel profondo cuore si annida il brivido del sentimento cosmico, il quale a certi temi o spettacoli o ipotesi aderisce. E il cuore umano sarà sempre il più denso e concreto degli argomenti.
Anche ci dicono .— coloro che mancano, dalla nascita, di tutto questo lato della sensibilità umana ed estetica — che, se differenze distinguono gli uni dagli altri i «poeti cosmici», sono differenze di pensiero; e che la diversità di pensiero caratterizza e distingue. l’uno dall’altro, i filosofi, non i poeti. E questo è veramente l’errore più grosso; perchè dei lirici meditativi non si investiga il pensiero in sè, bensì il pathos, il fatto di sentimento che s’accompagna al pensiero, espresso in elementi musicali e fonici, in immagini, in aggettivi, in pause, nei valori tonali: tant’è vero che due poeti, così considerati, risultano (a chi abbia adeguata sensibilità) ben riconoscibili e diversi, anche se, dal punto ,di vista strettamente filosofico, il loro pensiero parrebbe lo stesso: ugualmente pessimistico, per esempio, o ugualmente cristiano…
È chiaro, poi, che chi, per troppo amore di plasticità, misconoace la poesia scaturente dal meditare, poco o nulla sa cogliere dei valori del tono, che in questa poesia sono essenziali.
Tanto peggio per chi non s’avveda che i più pensosi frammenti di Michelangelo, e i più «cosmici» madrigali del Campanella, stanno al piano sommo della Lirica italiana. Inutile discutere con chi manca pur della minima piattaforma, necessaria a questa discussione: ossia d’una qualche sensibilità alle vibrazioni di quello speciale sentimento che fa corpo col pensiero. Ma è doveroso spiegare che il realismo odierno, anche per ciò che concerne la poesia non deve essere identificato col semplicismo di chi voglia soltanto quadri e quadretti, pitture di «choses vues», ricordi personali quasi «narrati», concretezza appariscente di un’arte visiva strettamente avvinghiata al mondo esterno.
Che cosa di più reale dei sentimenti profondi, dal sentimento cosmico al sentimento religioso? che cosa di più realistico dell’introspezione? Noi non vogliamo che il realismo contemporaneo (che assai più del decadentismo ermetico ha il diritto di rifarsi al limpidissimo e umanissimo Leopardi) si anemizzi col riconoscere soltanto un numero ristretto di temi. Immensa è la realtà; e realista è chi rappresenti fortemente e sinceramente qualunque aspetto di essa. Nè ci dispiace parlare, con il giovane realista Mario Cerroni, di un ricco «realismo romantico» in cui si accomunano e un Manzoni e un Leopardi, contrapponendoci alla fretta sperimentale di certo fotografico neorealismo all’americana. Ci è motivo di vera gioia constatare come Maria Grazia Lenisa, giovanissima poetessa impostasi immediatamente tra le forze più vive e imperiose del nuovo realismo, dopo aver meritato così accese lodi per la grazia immaginosa e sensibile di tante sue brevi liriche vibranti d’impressioni e di una ricettiva freschezza giovanile o adolescente, abbia mostrato di saper trattare con fermissima mano l’altro, arduo «genere» della poesia meditativa: e, presto, anche in forme di notevole ampiezza.
Sul finire del ’55 un elegante volumetto, di edizione Ceschina, ha compreso la trilogia lirica onde la Lenisa ha ottenuto il «Premio Vallombrosa» 1955, sotto il titolo Canti Vallombrosani, — recando in fronte alcune meditate parole del Verbale di Giuria: «Maria Grazia Lenisa unisce una delicata e nervosa sensibilità giovanile ad un senso profondo del tempo che fugge e consuma, nelle sue liriche di tono pessimistico e di singolare pensosità, e vi condensa una precoce sapienza amara, quasi si direbbe ancestrale, ma questa amarezza domina e rasserena in una forma limpidissima». Sono parole che valgono per la densa «lirica meditativa» dei Canti Vallombrosani, ma che valgono altresì per alcune delle più importanti liriche che la Lenisa abbia scritte anche nel periodo di Il tempo muore con noi; per esempio quella che, appunto, dà il titolo a quel volume, e di cui discorrevamo poc’anzi.
Personalissimi e intensissimi versi, i quali esprimono il precoce pessimismo d’una singolare creatura che antivede, con piena lucidezza, le fatalità dell’esistenza terrena, temporale, e corporea, il tempo che, sotto-forma d’invecchiamento, prende sede nel nostro stesso sangue e percorre le nostre vene, ci logora con la rapida corsa del sangue, — s’incarna in noi e vive di noi e (per quel che ciascuno concretamente sa) muore con noi. E già, esaminando Il tempo muore con noi, uno dei critici più avvertiti, Giuseppe Gerini (poeta egli stesso di raro valore) aveva insistito con molto acume sulla consapevolezza dell’arte di M. G. Lenisa, sulla presenza, in lei, del pensiero che arricchisce e approfondisce il sentimento. Scriveva il Gerini: «L’estetica del «realismo lirico n, se, riferendosi alla poesia, respinge, insieme col minuto cerebralismo delle agudezas e dei cosidetti a analogismi», l’intellettualismo che fa suoi i modi del discorso raziocínante per enunciare, in termini non alati ma sostanzialmente e scientifici n, idee ragionamenti insegnamenti, — accoglie invece quell’altro, legittimo «intellettualismo n che, per sua legge, è ovunque sia penero organizzato, pensiero vivo che procede non per accidente ma per fatalità, fluida vorremmo dire, d’intima costruzione, e vuoi toccare l’universale essendo universalmente comprensibile. Questo pensiero organizzato, che non contrasta affatto con la spontaneità estetica, è capace di produrre uno stato di coscienza definito, coerente, unitario anche se non rigorosamente «logico n; e dunque per l’appunto vale a farci provare, con quella sua rappresentazione unitaria, un sentimento poetico. (…) In sostanza l’Allodoli, critico e poeta, pur senza esplicite premesse teoriche, colloca la nuova poetessa nella nostra atmosfera di rinnovamento letterario: atmosfera che, ripetiamo, non soffoca il pensiero organizzato, non ignora i problemi che sono di una umanità collettiva, — come quella dell’uomo di fronte al proprio io pensante che mira alla conoscenza dell’essere, a stabilire, con coerenza d’immagini, il rapporto più stretto con le cose, con la verità, con Dio (…)
Il discorso poetico in lei è un discorso schietto, spontaneo ed umano; dominato veramente, nei componimenti più intensi, da un pensiero commosso eppure lucido, e capace di rappresentazione e vibrazione lirica». L’estremo acume del critico è certificato da questo, che le parole dettate per Il tempo muore con noi risultano più che mai valide per i Canti Vallombrosani, successivi, e non conosciuti dal Gerini al momento di stendere quelle note.
Ben si sa, per noi poesia è l’espressione comunicativa di qualunque stato d’animo, — anche, quindi, di quelli più tenui e sfumati e fuggiaschi; sicchè riconosciamo pienamente il carattere poetico della lieve grazia, quasi diremmo greca, delle più bervi, e aeree eppure un po’ castamente sensuali fantasie della Lenisa: come in Ultima Aretusa, in Forse, ecc., più innanzi citate per intero.
Leggiadrissimo sognare d’un adolescente che anche nel più lontano, mitico passato può riti ovare se stessa, — quelle speranze pel futuro, d’amore, d’idillio, di lieto abbandono nella Natura, che a volte non possono non nascere dal sangue giovane, dalla salute, dall’euforia dell’età…
Ma più larga ala ha il canto, e più intensa vibrazione, quando la Lenisa esprime il suo pessimismo. S’intende, del resto, che le sue qualità di concretezza e vividezza immaginosa non svaniscono, quando essa, più che mai consapevole delle fatalità dell’umana vita, dà voce al suo «pessimismo» pensosamente.
«Al principio» s’intitola il primo dei tre mirabilissimi Canti Vallombrosani, e ci dice come la poetessa immagina l’inizio della vita umana su la terra. Essa crede fermamente in Dio, ed è tutta permeata della nobile tradizione cristiana; la quale però in lei si sposa singolarmente, quantunque non disarmonicamente, col pessimismo che scaturisce dalla sua lucidità mestaraente preveggente. Essa dunque vede le anime esser create da Dio (più o meno, è l’ultimo giorno della creazione biblicamente intesa: l’uomo nasce per ultimo, quando già sulla terra prospera la vita animale) lassù in cielo, e poi inviate, da un cenno divino, su la terra attualmente abitata da sauriani o altri simili mostri preistorici.
Le anime appena create volano verso la terra ove debbono incarnarsi in quel fango di cui parla il Genesi. Il loro primo sguardo, lontano ancora dalla terrestre aiuola, è allietato dal fiorire degli astri, a dolce stupore; ma avvicinandosi alla terra esse per prima cosa, reluttando, vedono i mostri, vedono gli amori dei mostri, spettacolo di accoppiamenti ferini, brutti e crudeli come agonie: «…a tutta prima incantate dal fuoco degli astri, | dai grappoli lungimiranti | delle costellazioni. || Ma le anime sparse, | tremanti di cosmica angoscia, | ad un cenno si avvicinarono alla terra | ancor calda del soffio generatore. | E videro passioni violente | di animali nella preistoria dei mondi | e nella bestiale delirante agonia, | nella bava bianca sui sassi, | lessero la passione arida, che un giorno le avrebbe incatenate…».
Quale icastico e gagliardo contrasto fra quelle due visioni, i «grappoli lungimiranti» delle stelle (già materia, ma materia luminosa, ancora vicina a Dio) e le passioni dei mostri preistorici, voluttà simile a bestiale agonia, che cosparge i sassi di turpi bave! E affiora già, pienamente, uno dei più alti motivi di questo consapevolissimo poeta, il motivo della prescienza. Quelle anime, angosciate di dover scendere su la terra, hanno un brivido della prescienza più amara: intuiscono di essere destinate ad amori che anch’essi avranno purtroppo un lato materiale e ferino, che in parte — in quanto materiali — saranno simili a quelli delle bestie…
Fatalmente, poichè sono condannate ad incarnarsi! Esse, sopra tutto, hanno orrore del proprio futuro; perchè è amarissima la prima rassegnazione alle fatalità corporee ed alle passioni aride che ne nasceranno.
Il brivido d’orrore che percorre questi versi così forti e cupi, ci spiega un accenno fulmineo dell’inizio: «Migrare d’anime leggere f uscite dal sospiro doloroso di Dio | al principio dei mondi…». Doloroso? Il Creatore, nella originalissima visione della Lenisa, non è trionfante o almeno lieto dell’opera propria immensa, che giunge al termine, bensì triste. Egli appare, in quei primi concisi versi, un Dio enigmatico, che crea le prime vite umane con un accorato sospiro, ma ogni senso d’enigma sparisce per noi dopo quella visione di bavosi animali preistorici, e dopo aver sentito con la poetessa l’angoscia delle anime che prevedono tutti i pesi terrestri’ e materiali del loro futuro: ci è troppo agevole, ora, comprendere che anche Dio aveva previsto l’angoscia delle sue creature. Per quanto onnipotente, non poteva creare la Vita (con le specie destinate a procreare, moltiplicarsi sul globo di generazione in generazione) senza che questa dovesse sottostare a tutte le leggi in essa inerenti: a tutte le imperfezioni, le limitazioni, le miserie e le avidità, senza cui non si è generati, non si vive, e non si genera altra vita. Dio ha creato, perchè non gli bastava, evidentemente, essere solo col Nulla (e nella solitudine non si esplicano nè potenza nè amore), ma accettando egli stesso la Vita della sua creazione come qualcosa di triste, appena meno peggiore del Nulla.
Questo Dio della singolare poetessa veneta non è nè cattivo nè indifferente, se ha quel sospiro doloroso avviando gli uomini alla vita. È, anzi, pieno di pietà. Ma, appunto perchè pietoso, non è felice: oh quanto diverso, non solo dall’antico sereno Giove, ma dal Tonante Sovrano Supremo degli Ebrei antichi, che lanciava minacce sanguinose sui figli dei figli, e accoglieva con piacere il titolo immite di Dio degli Eserciti.
Questo nostro lungo discorso è dalla poetessa tutto contratto in un solo verso, in due parolette: «doloroso», «sospiro». La Fanciulla di Udine non ha minimamente indulto ai diffusi procedimenti del raziocinio in quanto tale, ha spontaneamente contato sulla sintesi, ha spinto la concisione all’estremo: e tanto più è potente, in senso artistico, quel rapidissimo tocco. Non lo dimenticheremo.
S’incide efficacemente nella nostra sensibilità, dolorosamente commossa dal mistero d’un Dio Doloroso. E tra poco, quando le anime rivolgeranno a Dio una domanda che quasi suona accusa, ci ricorderemo di quel tocco rapido, di quel cenno: Dio aveva previsto, aveva compatito: e, la vita è cominciata così, perché, per essere Vita, non poteva essere altrimenti.
Non c’è bestemmia nel poeta, anche se l’intima ribellione delle anime deluse è colta con la più fraterna partecipazione.Ella stessa, la poetessa, è tocca da fraterno dolore (poesia, non filosofia!) immaginando quel momento tormentoso, diciamo pure atroce, in cui le anime provenienti dal più alto e puro cielo si sentirono come risucchiate dall’attrazione terrestre, e tosto, non senza orrore, mescolate alla materia, intrise di materia: «…Più lontano si faceva il cielo, più forte | il loro gravitare verso il pianeta ormai spento, | attratte da una buia forza nascosta. | E quando la materia penetrò nell’ultima aerea sostanza, | a Dio, tremende, gridarono: | a Perchè ci hai create?» Sono versi vigorosi, anzi potenti, ed effettualmente contengono qualcosa di «buio».
Quest’elemento fosco, non è, però, compiaciuto; partecipe della terrestrità, la poetessa è ancor pura nell’antivederne gli effetti e misurarne l’opaco peso. È, questo, il canto di un’anima ancor verginale, che ha segreto orrore delle passioni e commistioni, che pur governano ed attraggono la vita.
Non meno efficacemente colto è quel senso di desolazione dei primi istanti d’una vita terrestre da cui Dio sembra sparito (Dio ha taciuto, non ha risposto alla domanda, è lontanissimo, non si mostra più); esilio, totale esilio. «…Intorno nella solitudine primeva | sordo l’eco tuonava: «Perché ci hai create?» Assorto il cielo lontano | non aveva altra voce che quella vana dell’aria; | l’uomo gridò alle pietre spaccate, | al mare la sua angoscia cupa | accecato dal terrore di dover vivere | in nostalgia d’astri e di cieli». Nel primissimo istante, la vita terrestre di quelle anime èsuli comincia col gioco quasi beffardo e vacuo dell’eco; soltanto la vacua aria risponde, così, alla loro terribile domanda: — perchè? perchè la vita?
Esse allora, le creature esiliate, alzano il capo, e si volgono al cielo da cui vennero: il cielo è estraneo, come assorto in sè; lontano. Così 1a disperazione, che assale le anime condannate a dimora tanto straniera, si sfoga in lamenti inutili: i lamenti, i gridi possono rivolgersi soltanto al mondo circostante: a quel troppo straniero sfondo e paese…
E si nota, qui, come la Lenisa non si sia per nulla indugiata in” esteriori descrizioni; eppure l’aspetto che la terra assunse per quelle anime che la guardavano con tanta, nello stupore, riluttanza, ci è perfettamente chiaro e noto; bastò, prima, l’accenno ai sassi, su cui gli animali preistorici meschiavano i loro amori, e basta, ora, quel nuovo accenno a «pietre spaccate», per suggerirei, presso un vuoto mare, una vastissima landa tutta di scogli e scheggioni.
Un paese che mai nessuno carezzò o addomesticò (arido — anche — come le passioni che, sgomente, le anime esuli prevedono per se stesse).
Fin qui la densa lirica si è attenuta al tono narrativo, ma nella chiusa — balzando dai secoli più remoti all’epoca attuale, nostra, — il tono si fa più «lirico n striato sensu; ecco che con naturalezza ma con passione, la vox poëtica si rivolge all’uomo. Ed anche questo lirico vocativo ha tutta l’efficacia della sobrietà, contenuto in brevi limiti spaziali e contenuto nel tono così da non giungere al grido. Quell’improvviso rivolgersi all’Uomo dà indizio d’una raffrenata concitazione; ma non la ostenta; ed anzi la palesa solo in parte. È dunque un tono commosso, ma padroneggiato: «…E tu, uomo, ancor oggi ti chiedi, | tu che sai plasmare la materia | al desiderio e del senso conosci | le voluttà aspre, perchè l’anima, | radicata nel corpo, lotta | per sfuggirti di bocca. || È per tornare, sciolta, al fuoco degli astri».
Ogni parola ha un suo peso, in questo stile misurato e a insieme vigorosissimo. La parola «radicata a basta a direi quanto sia intimo il legame dell’anima al corpo, e spasmodico l’impulso o conato di staccarsene. E quella piccola frase: «lotta per sfuggirti di bocca», esprime il desiderio d’evasione dell’anima con una forza che è quasi violenza: quasi brutalmente. Ma il tocco crudo prepara l’ampio ed alto verso finale: l’anima brama essere «sciolta)), desidera risalire onde venne: e ciò è espresso in tal forma, da suggerire un’affinità tra la sottile sostanza dell’anima e la sottile sostanza del fuoco sidereo. — Sebbene l’uomo abbia imparato tante cose (che cose, poi? essenzialmente due sole, riguardanti i rapporti con la materia: imparato a cercare le voluttà del senso, voluttà aspre e mai del tutto dolsi, imparato a plasmare tecnicamente la materia), nulla è mutato nel profondo: l’anima soffe sempre della sua nostalgia ino agibile. Così, la conclusione è del più puro spiritualismo cristiano, anche se a un certo punto la terribile domanda: «Perchè ci hai creati?» sembrò annunciare conclusioni di pessimistica ribellione: la poetessa fonde mirabilmente il suo pessimismo e il suo fideismo cristiano, e alla base di questa imprevista armonia (armonia piena sul piano poetico, non già fusione di filosofie, non fondibili!) sta la sua particolarissima sensibilità di fanciulla che, contradditoriamente, ama la Natura, e la mano di Dio che l’ha plasmata, ama la Natura e la Vita, — e ha sgomento, persino orrore delle oscure fatalità della carne, e dell’alterazione — verso il basso — che la carne può imporre ai più essenziali sentimenti scaturiti dallo spirito.
La lirica non è, soltanto, formalmente sobria e impeccabile, è anche personalissima; e abbonda di quei traits particuliers che definiscono tutta una sensibilità. Non dimenticheremo più la bava, sui sassi, dei mostri in amore, nè quel lontano cielo assorto in se stesso, nè l’anima che lotta per sfuggire di bocca; nè il sospiro doloroso di Dio. (Create, le prime anime umane, da quel sospiro; da un sospiro di divina accoratezza!) Nemmeno, d’altra parte, dimenticheremo i «grappoli lungiridenti» delle stelle in quel cielo non ancor chiuso ed estraneo….

Per la stessa sensibilità, conscia e mesta, la Lenisa ha anche cantato La fine: come il principio, così la fine della vita umana sul globo. Più brevemente, questa volta, chè, a non ripetere lo stesso motivo dell’inguaribile nostalgia dell’anima èsule, essa ai è affisata nell’orrore delle vita fisica che declina, su la terra spossata, verso la morte totale dell’astro. — Il clima della terra I. diventato gelido; gli uomini sono costretti a rifugiarsi nelle caverne per la ricerca di un po’ di calore. Naturalmente, questa poetessa non sarebbe se medesima, se dell’ultima tragedia umana vedesse soltanto l’aspetto fisico: «…gli ultimi nelle viscere della terra | cercheranno calore con negli occhi l’angoscia | dell’eterno, astrale silenzio | e nel corpo un gelo mortale». Il gelo che pervade i corpi gènera l’atroce scoraggiamento delle anime; le quali invano hanno guardato verso il cielo attendendo un prodigio, attendendo un qualche segno benigno. Come in Al principio il cielo apparve assorto e lontano, così ora il cielo appare eternamente muto. (Bellissimo, culminante quel verso sull’eterno, astrale silenzio…) È ancora lo stesso motivo, il terribile senso che il cielo non risponda, e non debba più rispondere nemmeno in futuro.
Ma il corpo principale della concisa lirica è dedicato proprio alla terra, all’agonia della terra che perde, come già il calore, anche la sua ricchezza di acque, e diventa sempre più aridamente minerale: tutto un esànime minerale. «Su sconfinate lande scorreranno | lenti, motosi, i fiumi, | ma la terra avrà sete… sete | e con enorme fauce riarsa | berrà paurosamente gli immensi oceani. || Moribonda scoprirà le sue piaghe: | aridi deserti di pietra, ossa immani | d’un cadavere millenario». È il modo di morire proprio di tutti i mondi sospesi nel cielo, da ultimo degradati a vuote lune; lunga sequela di versi, e non del tutto fiaccamente, un poeta didascalico avrebbe potuta dedicare a questa tragedia d’un intero mondo, ma alla Lenisa sono bastati otto versi robusti e duri per imporre intera la desolata visione.
Nessun asservimento della poesia alla scienza: nella preistoria dell’umanità (di cui parlano i primissimi versi) si altemarono, ad opprimere i primi uomini, i periodi tropicali con quelli glaciali, e ciò poteva indurre l’artista a scrupoli intellettuali e grevi chiose, esteticamente nocive: ma la Lenisa si è limitata ad una visione che, per un fine di suggestivo contrasto, le serviva, rievocando un periodo tropicale in cui gli uomini nelle caverne cercavano sollievo di frescura.
È superfluo — di fronte ai lettori sensibili — avvertire che questa non è una lirica «descrittiva» e che il descrivere la terra morente certo non è il suo «obbiettivo» principale. Nei versi sulla terra assetata inaridita c’è, più ancora che la desolazione fisica della terra, il desolato fremito dell’uomo, il suo orrore del freddo, del vuoto, del muto, il suo orrore della caducità. È sempre, questa, poesia che parla del cuore umano, dei suoi fremiti delle sue aspirazioni delle sue tristezze e dei suoi scoraggiamenti: quando non esprime, come in certe liriche, così leggiadre, di Il tempo muore con noi, la giovanile attesa e fiducia che scaturisce dall’anima in relazione all’euforia dei sensi, dice lo sgomento del previsto futuro e l’angoscia di ciò che appare cieco ed irrazionale. Questo, è un canto che essenzialmente esprime — anchè là dove l’uomo non è nominato più, — il cosmico orrore nel petto dell’uomo: «l’angoscia dell’eterno, astrale silenzio»… È in questo senso che i versi sulla terra morente, ridotta a deserti di pietra a ossa immani di pietra, rivelano tutta una sensibilità.

Se Al principio e La fine evocano, potentemente e dolorosamente — potremmo dire, potentemente perchè dolorosamente —, il remoto passato e il remoto futuro, la terza lirica della trilogia, Crollare di miti, è il canto del presente; in quanto sorge dall’amarezza propria della giovane generazione cresciuta su le rovine immani della Seconda Guerra Mondiale: generazione che ha visto crollare tanti miti, in cui uomini avevano creduto come in cose vive per sempre.
Sul finire della lirica, un accenno esplicito c’illumina circa tale origine temporale del canto: «…Per questa giovinezza che, piangendo, ride, | — fiore nato su cadaveri e macerie — | gli anni hanno la lunghezza di giorni | e troppo presto s’invecchia…». È opportuna quella rapidissima figurazione di «cadaveri e macerie», è opportuno quel ricordo della spaventosa Guerra da cui siamo poc’anzi usciti, e che per i più giovani, ahimè, ha sostituito il normale idillio dell’infanzia. Esso ricordo dà un sigillo di concretezza al Compianto sui miti che muoiono, nè più nè meno, come le deboli creature organiche. Ma era fondamentale che, nel complesso, la lirica prescindesse dagli aspetti più contingenti dell’ epoca; per la Lenisa la tristezza, il lirico pianto sulla caducità delle cose (sulla caducità fenomeno generale, anzi malattia cosmica) è un motivo, psicologico e poetico, dei più tenaci e ricorrenti, ed era necessario non rimpicciolirne la naturale grandezza.
La lirica s’apre su una sintesi che accomuna due visioni: la caducità dei Miti e la caducità degli alberi: «Crollare di miti, | bianche colonne spezzate dal fulmine! | Tutto si spezza con gli anni | crudelmente, | alto diritto ogni stelo | attende | di piangere lacrime verdi». Siamo ben lontani dalla pura, ari. da filosofia; se di carattere universale è quella caducità che il cuore del poeta lamenta, la strofa è tutta concreta di balzanti immagini. Adeguatissima l’identificazione metaforica dei Miti con bianche colonne, folgorate spezzate; miti che parvero puri, belli, forti, durevoli, e che sostennero edifici apparentemente armoniosi…: quante cose sottintende quell’immagine! Ma come le colonne, colpite dal fulmine, fan crollare tutto l’edificio, nel giro di un attimo, così rapida a volte appare la caduta dei Miti e di ciò che essi sostenevano. (Nello stesso tempo, questa identificazione con le erette colonne rende ancor più pronto e suasivo l’accostamento con gli eretti fusti degli alberi).
E gli alberi appaiono plasticamente immaginati nella loro eleganza più fiera, alti diritti; e lacrime verdi la linfa che scorre dall’inevitabile taglio. Si sente l’amore per quell’alta diritta leggiadria, l’amore per le cose caduche, che in questa poetessa è così radicalmente legato alla precoce consapevolezza — triste — della loro effimera vanità.
Il discorso che segue, è tutto un compianto, oltre che sui miti, sulla tristezza d’una gioventù, resa (dall’aver assistito a quelcrollare di Miti) così spaventosamente consapevole delle illusioni e delle caducità. Se prescindiamo da un’unica parentesi, la linea di questo discorso è d’un purissimo rigore, e si può schematizzare così:
— Sepolta è innanzi tempo la fanciullezza. Giovani diventiamo già vecchi e cì rifugiamo nel pensiero, passiamo intere notti a pensare; appunto per fuggire da noi stessi, dimenticare l’infanzia vicina e le illusioni proprie dell’età (le illusioni che poi ci tradirebbero). In questo travaglio corrosivo del pensiero, dell’analisi, troviamo un piacere malsano, un piacere di distruzione. Nella notte benigna talora riaffiorano le antiche illusioni, si riabbozzano i sogni; ma tanto più crudele è, al mattino, il ritorno alla consapevolezza, alla lucidità. L’uomo ha voluto superare la propria statura (eccesso d’orgoglio) e così è cominciato il crollo dei miti: lo sconta, più di tutti, la gioventù odierna, che invecchia troppo presto… —
Nitidissimo discorso, nelle sue linee maestre; e qui vediamo il felice ritorno, in una giovanissima, -di contro al frammentare, disossare, atomizzare degli ermetici, di contro alla poesia come inorganico polverio di sensazioni, anestetico quasi piacevole ma vizioso, — a quella fermezza di disegno che è una delle caratteristiche, non mai rinunziate, della grande poesia. Ma, da altra parte, la grande poesia, la classica poesia unisce umanità di commozione ed evidenza fiorente di particolari alla nettezza del disegno. Ed è ciò che accade in questa lirica, dove il rigoroso scheletro è con tanta naturalezza coperto, stavamo per dire fiorito, di quei particolari che nella concretezza rivelano una personale sensibilità.
Quale pathos accorato nella strofa che ci parla della infanzia così presto svanita, così presto tolta ai fanciulli di ieri!: «Anzitempo nel cuore è sepolta | la fanciullezza. | (È come strappare l’ali alle rondini | avide di tuffi azzurri.) | Poi resta solo il ricordo: mesti occhi che, puri, hanno assorbito il peccato | e ci guardano ancora | da un mondo lontano, trasognati». Oh questa non è certo (lo diciamo per gli avversari della poesia meditativa) filosofia in versi! Di dolente rilievo sono le due immagini dominanti, quella veloce similitudine delle rondini amputate delle ali, che dice la chiusa angoscia degli adolescenti a cui sono state innanzi tempo strappate le benefiche illusioni dell’età, e quella rievocazione dei puri occhi fanciulleschi condannati a vedere, vedere irrimediabilmente, i peccati degli adulti: occhi stupiti e dolorosi insieme, trasognati e mesti.
E con che scabro, cruccioso linguaggio un’altra strofa rappresenta le ore, le notti spese a troppo pensare: «…Giovani diveniamo vecchi | per dimenticare noi stessi | e ci ridestiamo al mattino | con l’angoscia di una notte trascorsa a pensare. | Pensando si contano | lentamente tutti i miti crollati | con la strana voluttà | di chi gode delle rovine». Meritano particolare sottolineatura quegli ultimi due amarissimi versi. Questa è profonda introspezione; e, come già accennavamo, l’introspezione — che è sempre concretezza — è una delle risorse fondamentali d’un’arte genuinamente realistica. (Proprio questa lirica ci spiega, forse, come una scrittrice così giovane possa possedere un così adulto potere introspettivo. Tragedia d’una generazione…?) Le parole sono semplici, aliene da ogni nebulosità, nitide, ma frementi, tutte, d’una sofferenza chiusa; e la loro forza è nel comunicare questo fremito.
Nè v’è minore fremito di sofferenza espressa, nella strofa dedicata ai dolci ritorni notturni del sogno: «…la notte talvolta | fa rinascere antiche favole, illude. | Le tenebre sono più dolci della luce | perehè ingannano, e l’uomo d’inganno vive. | (Questa, la sua miseria!) | Ma più angosciosa la lucidità | di antivedere il futuro, | portando un eterno lutto per immaginarie morti». Chi sarà così poco sensibile da scambiare per una mera e sentenza n di valore logico quei due versi sulle tenebre più dolci della luce? È una «sentenza» in funzione lirica e quasi esclamativa, come accade per certe famose cadenze gnomiche di Vincenzo Cardarelli: è la forma naturale, e per noi particolarmente affascinante, del dolore controllato, padroneggiato, — un grido di pena che in parte si nasconde. — S’incide, la visione dell’uomo che d’inganno vive; nè risulterà meno ricordevole (‘amplissimo verso finale, che così felicemente sintetizza quello, ch’è il male stesso dell’anima contemporanea: «portare il lutto» ad illusioni che ancora non sarebbero giunte allo stadio della delusione, e potrebbero essere dolci, ma vengono uccise prematuramente dall’eccesso di amara consapèvolezza. Tratti di tono personalissimo, altamente riconoscibile: s’impone una vox poëtica singolare, così mesta e pura. — Perchè questa strofa è tutta fremente di pathos, e non espressione razionale, si riallaccia con tanta naturalezza alla strofa successiva, ossia a quell’unica parentesi di cui avevamo alluso: dove il poeta, essendo una fanciulla, non s’appaga di aver parlato delle brevissime illusioni notturne concesse aì giovani e alle giovani della sua generazione, ma sente il bisogno di fermarsi in particolare sui sogni e trasporti femminili che sono, ovviamente, verso l’amore (e qui fiorisce l’immagine prestigiosa del fiume che tumultua, poi si placa e potrebbe cullare dolcemente un petalo).
L’intensa lirica trova una chiusa, degnissima del suo mesto vigore, nel contrasto dei due versi finali: «….e troppo presto s’invecchia | e troppo tardi si muore». Sappiamo perchè «troppo presto s’invecchia»: la lucidità distrugge le illusioni già in anticipo… Ma vale la pena di vivere così? Non si muore mai abbastanza presto; soprattutto muore tardi chiunque sopravvive alle illusioni ed ai miti. La nota più cupa qui veramente è la chiusa che, più o meno inconsciamente, noi lettori attendevamo.
Poesia matura, in questa Trilogia; perfettamente matura, qualunque sia l’età dell’Autrice; dove, classicamente, nitidezza e dolore si compensano e s’equilibrano: nè la passione e la pena distrugge la lucidità, nè la lucidità raggela il pathos e ne paralizza il fremito. E se il vivo pathos non viene meno, non c’è poesia più umanamente ricca che quella nutrita di lucidezza, d’introspezione e di consapevolezza.

 

Canti non solitari

Il titolo di «Canti non solitari» indica le tre liriche onde Maria Grazia Lenisa ha ottenuto il premio «Vado Ligure» di poesia sociale (1956), ed una quarta ad esse unita «fuori concorso a. Furono, a suo tempo, con grande accuratezza definiti, pubblicamente, i criteri ispiratori del premio vadese, e perciò l’assegnazione di un tale premio (che la Lenisa ottenne su voto unanime) riveste, senza dubbio, un significato molto preciso. È accaduto, in un certo settore della «Giovane Poesia» postbellica, che tutti i problemi estetici venissero semplificati in una unica formula, quella della «poesia sociale». Non è qui iI luogo di esporre argomenti teorici, e diamo per manifesto e indiscutibile che la poesia non si ridurrà mai -in nessun ambiente sociale — alla trattazione di un unico tema. In quel settore, a cui alludevamo, è accaduto che i giovani poeti realisti — prestandosi così alla facile polemica degli ermetici e filoermetici — si autoinfliggessero una eccessiva monotonia, che facilmente puo giungere sino alla diligente freddezza, quando non alla mera polemica in atto. Non solo: s’è visto anche il bizzarro caso di giovani ancora del tutto incerti tra ermetismo e realismo, i quali hanno creduto di risolvere il proprio problema col semplice adottare una tematica sociale, e specialmente col fare variazioni sulla povertà e arretratezza del Meridione, senza inibirsi, e anzi cercando, i peggiori sgambetti formalistici della stagione ermetica, restando così durevolmente, pur con ridevoli contaminazioni, alla atmosfera ed al clima del più arido «decadentismo borghese».
I criteri del a Premio Vado Ligure» di lirica sociale, per contro, furono definiti nel sereno riconoscimento delle due esigenze apparentemente opposte — da un lato, riconoscimento che i temi ed i motivi della poesia rimarranno sempre vanissimi, quasi infiniti, e che c’è un realismo della lirica amorosa o della lirica naturalistica, non meno che del sentimento sociale; dall’altro, riconoscimento che al gelido artificio dell’estremo decadentismo si giunse per le vie del solipsismo individualistico, e che è giusto se, ora, i Giovani, aspirando ad una Nuova Cultura, insistono con calore particolare sulla tematica sociale, in quanto il poeta non debba isolarsi dalla comune umanità, e anzi non possa, se è uomo vivo, non partecipare anche alle sofferenze e speranze e aspirazioni collettive.
Usando le parole più semplici, diremo che se il giovane poeta italiano si «specializza a nella sola lirica sociale minaccia dì eccedere, ed è giustamente sospettabile di meccanicità e di lavoro a freddo; ma che non ci pare d’altronde ammissibile (tranne il caso del malato, dell’abnorme involontario) che esso a giovane poeta italiano a, con i problemi che sono sulla tavola!, ignori sempre e tranquillamente i temi che sono stati chiamati «sociali a, ignorando del tutto le sofferenze e aspirazioni e speranze dei prossimi.
Proprio quella auspicata è la posizione di Maria Grazia Lenisa; che a volta a volta, con la più limpida naturalezza, canta ì palpiti dell”ìnquietudine adolescente, l’amore dell’erbe e delle zolle, la gioia d’essere giovane, la paura del tempo nemica, il presagio dell’avvizzimento e della delusione, la precoce consapevolezza di quanto è amaro e caduco nella condizione umana (motivi, tutti definibili come «individuali» e, in questo senso, «soggettivi a), e canta, quando l’estro — l’estro che non si pone programmi, e neppure preoccupazioni di esteriore coerenza — lo voglia, canta altresì il proprio moto d’affetto per l’umile che soffre le conseguenze della sua materiale povertà, o per colui che eroicamente si sacrifica all’ideale della libertà, canta il suo moto di pietà per le vittime del flagello della guerra, e la sua concordia con la universale aspirazione delle masse verso una durevole pace…: motivi collettivi e, in questo senso «oggettivi» (sebbene vibrantissimi di soggettiva adesione, cioè di sentimento).
Quale contraddizione dovrebbe esserci fra il suo individuale amore della vita, e il suo affetto per gli altri, nutrito della generosa comprensione dell’amore della vita, appunto, che è anche negli altri?
Proprio perchè era giovane, trepidante, e attendeva l’amore, la gioia, e godeva esuberantemente dei contatti con l’amatissima Natura, essa, al tempo di Mezzadria, ha cantato la Nonna materna (in realtà la Bisnonna) che visse poveramente e austeramente: con una spontanea pietà per una vita tanto sacrificata, e con una ammirazione, che subito supera la pietà, pel forte animo il quale seppe portare in tutta serenità il sacrificio: salvando ancora, dopo tutto, una nota festiva, il fazzoletto a fiori per la domenica, simbolo del non avere rinunziato a far festa con gli altri…
Così, oggi, mentre tanti italiani — anche del suo non dovizioso Friuli — debbono cercare, per vivere, le atroci luttuose miniere del Belgio, essa deve ai propri sentimenti più «individuali» (all’amore della vita, alla baldanza giovanile, e via dicendo) la sua fraterna, intimissima comprensione per il Figlio del Minatore. Per il giovinetto in cui essa intuisce la sua propria volontà di «sfidare la vita», e di cui con tanta sapienza psicologica sintetizza la tragedia, in tre atti chiaramente definiti: — per volontà di «sfidare la vita» egli vuole gareggiare col padre, gareggiare con gli adulti, ed è impaziente di scendere nella miniera; poi, se l’aria laggiù quasi manca, insieme con la luce, e il cuore si sente innaturalmente oppresso, egli, per la stessa baldanzosa e generosa gioventù, si ribella al destino del minatore: non è giusto un troppo grande sacrificio per un troppo piccolo compenso, cercare una vita migliore è anche difendere lu giustizia!; poi, umanamente, soffre di essere stato lontano, di non essere stato in miniera, il giorno in cui il padre vi ha trovato la morte, quasi rimordendosi d’una diserzione…
In se stessa la L. ha trovato i sentimenti, di cui ha reso vivo il suo personaggio lirico; il passaggio dalla «soggettività» alla «oggettività» è stato il più breve rapido naturale, quello che ogni semplice creatura, se buona se non murata nell’egoismo, compie ad ogni istante: interessarsi agli altri, averne pietà, ecc., per l’immediata intuizione che essi, nel loro cuore, sono fatti, per il dolore e per la gioia, esattamente come lei….
Nella lirica «Il Figlio del Minatore», che non esitiamo a considerare come una delle più belle liriche sociali dell’attuale poesia italiana, Maria Grazia Lenisa ha usufruito, dunque, d’una sapienza psicologica di natura mirabilmente spontanea, pur se lucidissima, ed ha, pertanto, del tutto evitato di appesantire il proprio discorso, che corre veloce in una limpida sintesi. Bastano ventitrè versi di semplice fattura a evocare tutta una situazione umana coinvolgente due destini, quello del padre e quello del figlio. Non un particolare inutile; in un perfetto equilibrio tra il sentimento e l’intelligenza, tra l’umano abbandono cordiale e l’artistico controllo di sè.
E qui bisogna opportunamente ricordare un’osservazione critico-teorica, assai fine, di Adolfo Diana, il quale notava, in «Situazione», come la poesia contemporanea stia travolgendo, fra l’altro, le troppo rigide (e, dunque, troppo astratte) distinzioni fra il genere lirico e gli altri generi letterari. In effetti, nascono, felicissímamente, forme lirico-narrative e forme lirico-drammatiche, oggi; e quanto più l’ispirazione è «collettiva», tanto più si impone il moto, del Lirico, di farsi, sino a un certo punto, anche «drammatico», caldamente immaginando il soliloquio, il monologo interiore di personaggi distinti da sè.
Le tre liriche della Lenisa premiate a Vado Ligure, sono, e non certo per un partito-preso programmatico, proprio tre monologhi di tre personaggi (il che implica una complessità psicolagica definibile anche come «narrativa»): il Figlio del Minatore, il Padre del Partigiano caduto, il Reduce. Tre personaggi maschili, per maggior garanzia dell’obbiettivazione.
— Parla, dunque, egli stesso. il Figlio del Minatore, e il suo primo moto affettivo è di rievocare con tenerezza, e insieme con la tuttora presente ammirazione infantile, la figura del padre: alto, forte, possente! E con chiari occhi azzurri, nella fantasia della poetessa; occhi che facciano pensare al libero cielo, occhi che inducano il figlio a ripensare al contrasto fra la loro libera luce di cielo (il mondo che egli stesso preferì’ e scelse) e il notturno orrore della miniera buia e sorda. Questa commossa rapida figurazione del Padre compendia il mondo dei ricordi più propriamente infantili, — e subito cominciano i ricordi dell’adolescenza: le due proprie decisioni che s’incalzano, quella di seguire il padre nel lavoro difficile, quella di abbandonare la miniera per rompere una soggezione assurda, per non sottostare, come i padri, ad un destino ingiusto.
Bastano poco più di tre versi per presentarci tutto il discorso, al padre, del figlio «riottoso» che cambia mestiere: in cui c’è il carattere fiero d’un ragazzo, e c’è anche l’intimo sensodi rivolta di tanti e tanti, di tutta una categoria di uomini (che confronta il salario ricevuto, bastevole soltanto al mero vivere, con l’enormità di ciò che ha dato: sei giorni della settimana in tutte le settimane, — tutto l’anno e tutta la vita, — e tutte le proprie forze e la consumazione accelerata della povera vita senza ritorno…). «È troppo, | questo è dare troppo per il pane. | Per ogni tozzo di pane si dànno due anni di vita, | nell’aria morta della miniera!» Dopo di ciò, è geniale che la poetessa sopprima ogni ricordo intermedio; per il giovane figlio, i due momenti si saldano: quello della ribellione, per cui la miniera fu da lui abbandonata, e quello in cui egli ha dovuto, or ora, rimpiangere la pur giusta ribellione, perchè non gli ha permesso di essere vicino al padre nel giorno della tragedia. E, del resto quel forte verso «nell’aria morta della miniera», che fa parte delle parole di ribellione, getta il suo alone evocativo pur sui versi immediatamente seguenti, legandoseli anche in un altro modo: — nell’aria morta della miniera íl padre agonizzò e morì.
La stessa facoltà di trasferirsi, liricamente e drammaticamente insieme, nell’animo — oh fraterno, oh così simile al nostro! — degli altri uomini, è pur nella lirica «Al tuo posto la nuda parola, che si pone come pensoso monologo paterno. Il padre del Caduto ricorda il giorno della separazione, e lo compendia in un piccolo fatto crudelmente preciso: quelle pesanti scarpe militari, ai piedi del figlio, che calpestarono senza riguardo l’erba adolescente (i contadini, si sa, risparmiano l’erba dei prati, e cercano, per salvaguardarla, di passare sempre lungo la stessa traccia che forma un sentierino), — come se il figlio avesse di colpo abbandonato tutte le sue abitudini e dimenticato la sua antica, amorosa cura per i raccolti ed i pascoli. Così quel giorno fu strazio e diverso… — Si badi, però, che la poesia non comincia proprio con questo ricordo, bensì con la constatazione di un’intima ombra e oppressione che cominciò quel giorno, e non si dileguò più: il dolore della partenza, il dolore della distanza e del pericolo, il dolore della morte si fusero in un’ombra sola, costante. «L’angoscia nel mio cuore | nera è come cipresso | nella notte…»: da quel giorno.
L’angoscia è venuta e non è passata, oscurando notturnamente tutti i giorni della vita. Anzi, il dolore aumenta ancora, si perfeziona: «quasi spiga cresce»; chè l’uomo anziano sempre si rende conto (perduta la prole) di non possedere speranze proprie, di non possedere il futuro. Il figlio è stato presto travolto dalla guerra, e per lui, il vecchio genitore, la sua fine si precisa nel ricordo di quell’erba: anche il giovane è stato calpestato come l’erba.
A che cercare particolari cronisticamente esatti? Egli fu calpestato e restò là come una cosa calpestata che non può più rialzarsi. Ancora una volta la sintesi è più efficace di qualunque analisi, e un solo tocco rapido dice assai più di molti tocchi diligenti.
Nonostante l’angoscia che oscurò già il giorno del distacco, al ricordo s’impone il contrasto: quando egli partì, aveva occhi così azzurri e luminosi! il ragazzo non aveva paura del «buio della notte», anzi non appariva nemmeno capace di pensarci. Ed era primavera; c’era un bel sorriso aperto sulle labbra di lui…. — È l’eterno contrasto, per i morti in guerra, fra la loro rigogliosa gioventù e il fato della morte precoce; che si rinnova nell’espressone, con la freschezza di una cosa non detta ancora, per lo slancio affettivo che dà tanto rilievo a quel sorriso a quella luce di sguardo (e alla primavera ebbra pur se ferita; fragrante proprio come le primavere di pace), ed il controllo sapiente che denuda i particolari essenziali tacendo tutto il resto.
Rinunziato ad ogni altra possibile rielaborazione di ricordi, viene in primo piano, con prontezza definitiva, quello che rimarrà il pensiero centrale: nella persistenza dell’angoscia, il padre ben s’avvede che non basta a consolarlo il fatto che suo figlio sia morto per una grande causa, sia morto da volontario campione della Libertà. Non basta… Eppure un improvviso raddolcimento, nell’angoscia così cupa, gli è dato, dal pensiero che al figlio sarebbe bastato. Per lui quella magra «parola)) incisa, ora, unico ornamento?, nella sua lapide là sul luogo dove fu ucciso, aveva un valore immenso; per lui, poteva controbilanciare anche la morte…
Sono i sentimenti di un padre comune,. che non ha mai voluto essere uno spartano, che certo non aveva idee politiche veramente precise, ehe amava soltanto il figlio e la terra, e la terra per amore del figlio; eppure è momentaneamente sollevato al di sopra della consueta angoscia senza luce, dal considerare, non senza occulta fierezza, che per il figlio l’Ideale esisteva, e che non gli sarebbe apparso troppo amaro il perire per la sua idea.
Così, quasi impercettibilmente, si sale dal piano dei comuni affetti familiari a quello dell’ammirazione per chi, in virtù di una ideologia sinceramente vissuta, sa farsi eroe. La parola «eroe» non compare; le parole più solenni sono rigorosamente evitate! Ma tutto il significato profondo dell’episodio umano s’è scoperto: dolore, ed anche, col dolore, una luce. Così come il Figlio del minatore, nel momento della sua rivolta contro la Miniera, ha parlato il linguaggio di tutti gli oppressi, ha parlato, quasi, per tutti gli oppressi. — ed una vibrazione più vasta è stata ottenuta con estrema naturalezza e come inavvertitamente, — così, questa volta, è fatto presente il fascino dell’Eroismo e dell’Ideale come inavvertitamente: attraverso il linguaggio di uno a cui la parola «Libertà)) non dà consolazione sufficiente, di uno che aggiunge a torto la parola «forse» nell’alludere a chi non conobbe il «forse» e non esitò… È il procedimento contrario a quello, che i filoermetici e decadenti hanno potuto compiacersi d’accusare di polemicità e cronachismo tendenzioso; è il procedimento, così spontaneo e che tuttavia può anche definirsi infinitamente cauto, della vera poesia: è commozione sincera, e la commozione sincera non può mai ridursi ad una tesi, che è cosa astratta; ma può evocare le idee e può suscitarle.
D’una maggiore complessità «narrativa» diremmo la lirica Il Ritorno, che crea la figura del Reduce, ritornante dopo una lunga prigionia.Il monologue intérieur comincia col ricordo della partenza, ed il ricordo è trattato — in sette rapidi versi — con la felice concisione che già abbiamo analizzata. I1 padre, mentre il figlio partiva, si guardava intorno e diceva un rimpianto in cui l’attaccamento al figlio e quello alla terra erano una cosa sola («C’è da arare, da seminare, | tu parti per luoghi ove non cresce il grano…»: in quest’ultimo verso non c’è soltanto la pena per il podere che sarà trascurato, c’è un senso elementare istintivo di repulsione per i luoghi strani, desertici, remoti, — dove il figlio è condannato ad andare: povero figlio, in terra così estranee!); la madre taceva, d’un tratto più vecchia, come rimpicciolita: una povera vecchiuccia dallo scialle nero.In questi pochi tocchi c’è la famiglia e c’è tutto il mondo di ieri, l’affettuoso mondo del tempo di pace. Poi il Reduce scende nel suo proprio cuore, e di sè stesso — del suo io di allora — vede un particolare tutto interiore: l’ingenua bontà, o per meglio dire l’ingenua credenza di poter essere e rimanere Luono. Dopo, oltre il reticolato della prigionia, egli non solo vide — fuori di se medesimo — la crudeltà umana, ma s’indurì egli pure: guardando con crudele indifferenza i morti che sarebbero rimasti nel passato, dietro le sue spalle, mentre egli riusciva a vivere ancora. Ciascuno reluttava alla morte, ciascuno aveva paura per sè.
Egoismo e paura… E qui col mezzo più semplice (un segno di interpunzione: i «due punti)) esplicativi) la poetessa collega i più dolci pensieri della prigionia, quelli della propria Casa, alla crudele paura: «Sì, ogni uomo ha paura, è vile dinnanzi | alla morte: sognavo il paese, la mesta | dolcezza fingevo….». I dolci pensieri erano cercati come un riparo, un’autodifesa.Accanto alle soavi parole per la madre («…la mesta dolcezza fingevo di mia madre china | ad accendere il fuoco»), per la prima volta appare la figura della giovane moglie: «e il volto della mia donna | e i suoi docili fianchi e il seno odoreso di spiga». Lasciando che, nel molle, lungo verso che chiude la strofa, il seno e i fianchi assumano più risalto dello stesso volto, con estrema discretezza l’Artista ci dice la parte che, là tra l’atroce solitudine del campo popoloso, i sensi ebbero nel nostalgico ricordare. Anche i sensi avevano bisogno dei ricordi, — i sensi sacrificati nel campo, come ogni altro bisogno dell’uomo.
Senza il minimo indugio inutile, dal lager (ormai evocato nell’essenziale) si balza alle ore del ritorno: un ritorno senza la gioia prevista, perchè il cuore, ormai reso ‘diffidente dalle sventure, non osa credere che tutto possa ritornare bello e chiare come prima («…Ritroverei ancora qualcosa di immutato? | Non era tutto violato o distrutto?…»). Sceso dal treno, il cuore ha pietà delle ingenue illusioni di un tempo, delle illusioni del padre che pensava tanto al raccolto del grano, quasi come se in questo problema ci fosse l’essenza della vita o la garanzia della felicità; una pietà sprezzante (come a dire: — quanto eravamo sciocchi! —), e non per caso il piede calpesta senza riguardo alcune spighe: è il rinnegamento, esacerbato, della ingenuità e fiducia antica. A questo stato d’animo si connette un altro motivo psicologico, la «sete di purezza».
La moglie, la giovane donna dalla bellezza sensuale ch’egli aveva desiderato nel Lager, ora egli la sente lontana; segretamente sfiduciato, dunque, ch’essa possa dargli l’amore più puro, tutto tenerezza, che vorrebbe oggi. «Piansi in me allora la sua purezza | un tempo fragrante come fonda acqua di pozzo: | prosciugati erano i pozzi e bruciavano le pietre». I versi finali non smentiscono in alcun modo questa sfiducia; a ragione il reduce aveva temuto che la donna non sapesse rifarsi pura e virginea per virtù di superiore tenerezza. La fragranza di purezza così suggestivamente paragonata al sentore, al fiato dell’acqua, non esiste nella lirica se non come vano ricordo; soltanto un ardore arido («bruciavano le pietre») Si sostituisce all’antico indefinibile inafferrabile incantesimo, dolcemente evasivo come il profumo dell’acqua. Ma il padre e la madre sono immutati, lei col suo scialle nero la sua umiltà, lui con i suoi pensieri di alacre lavoro agreste, «come quel giorno | in cui tutto era ancora come doveva essere». Il discorso non prosegue; tuttavia è facile intuire che il giovane si attaccherà disperatamente a quell’elemento immutato, per poter riprendere il filo della sua vita. Ad ogni modo, la funzione degli ultimi versi non è soltanto di lasciarci intuire questo: molto altro ci dicono, sull’animo del reduce, queste parole: «il giorno in cui tutto era ancora come doveva essere n. Il mondo ormai si è rivelato, a quel cuore, troppo più cattivo .ed irrazionale di quanto fosse ammissibile. La partenza per la guerra dolorosa e inutile, ha segnato una frattura insanabile. Ormai il giovane non ‘ha più fiducia nel mondo, che non è come dovrebbe essere. La razionale armonia fra la realtà e le insopprimibili aspirazioni dell’umano cuore, c’era soltanto nel mondo del . passato. Ormai il giovane contadino, senza saperlo dire, è diventato un irrazionalista pessimista.
Il Padre del Partigiano e il Figlio del Minatore, nella prima e seconda lirica, si rivelano più immediatamente dei «personaggi tipici», nel senso che premerebbe a un Lukàcs: rappresentanti significativi d’una intera categoria o classe di persone del loro tempo. L’ex prigioniero de Il Ritorno — con quella moglie di molle beltà e quella sua eccessiva sete di purezza, non soddisfacibile, forse, mai più — è personaggio, come dicevamo, più narrativamente complesso, e quindi, in un certo senso, più spiccatamente individuale. Ma, a saper guardare, ha, anch’egli, la sua «tipicità a: anch’egli, col suo più sottile sconcerto intimo, è rappresentante dei molti che, dai campi di prigionia nazisti, sono ritornati con i nervi limati, ormai incapaci della serenità e semplicità di prima. L’arte dell’esprimere, nelle tre composizioni, è sempre, mirabilmente, la stessa: la sobria lucidità unita a profonda commozione umana, e il dono di dir molto in poco, per via di accenni pregnanti, — con un autocontrollo virile nella dolcezza della femminile sensibilità.
Non ha carattere monologico e semidrammatico la breve lirica «Ricordatevi, nel tempo, di Casablanca a, e in questo si isola dalle altre tre: ammonimento del poeta agli uomini, pronunciato con una voce severamente chiara. Ma in definitiva l’ispirazione è sempre quella stessa: comprensione, pietà, fraterna partecipazione d’un cuore generosamente affettuoso. Sdegno umanissimo per l’avventuriero intento alla roulette, mentre altri uomini combattono e muoiono; senso dolorosamente acuto degli spari notturni, degli agguati, degli «occhi spalancati a dei morenti che odiano ancora …E, nella sofferenza umana, la nobiltà umana: la bellezza del grido di un popolo che ama la Libertà, vuole la Libertà: «…Mette brividi quel grido | nel sangue di chi ama la libertà — | furore e dolore quel grido — | quel grido è nero uccello dalle ali immense…».
Sangue e guerre e lutti, ancora, su la terra: e l’uccello dell’alta immagine è nero, d’immense ali nere… Ma la suggestiva grandiosità dell’immagine riassume anche l’ammirazione per lo eroismo, per il sacrificio, per la capacità di combattere nel nome d’un’Idea disinteressata.

 

L’uccello nell’inverno

La silloge «L’uccello nell’inverno», (ultima parte della presente opera, che riunisce le liriche successive ai Canti Vallombrosani e ai Canti non solitari), ben più vasta di questi due ultimi cicli, riunisce tutte le altre espressioni del periodo posteriore al maggio 1955, e, come Il tempo muore con noi, pone a fianco a fianco le composizioni ispirate dai più diversi motivi di questo mondo poetico: liriche vibrantcmente naturalistiche; liriche della in tefinibile trepidazione sentimentale propria della prima gioventù, e (sia pure in nome di personaggi fantastici, o mitici anche nell’essere reali: da Giulietta a Saffo) liriche amorose; eppoi liriche sociali, liriche della meditazione cosmica, e, talvolta, più rare ma non meno efficaci, liriche religiose. Capire il «segreto» per cui la Poetessa, quasi risalendo a tempi migliori e più gloriosi, che si ornarono di poeti meno monotoni e monocordi di quelli contemporanei, — non solo vive con uguale sincerità motivi così, apparentemente, diversi, ma li riconnette mirabilmente, .e li anima e colora d’una personalità unica e concretissima, significa capire tutta l’intima sostanza di quest’arte.
È un profondo, dolce, fenuninile, caldo amore della vita. ma portato e sentito nel modo più nobile, che aspira sempre a espressioni sicure e luminose, aspira al durevole cioè all’assoluto, — e perciò può assumere, a volte, l’opposto viso: quello di una cosmica tristezza, che condanna la meschina od. impura realtà terrestre, e desidera un oltremondo: dove la vita non conoscerebbe miserie, logorii e avvilimenti. È una così appassionata fede in Dio, che a volte può sembrare eterodossa nel pensarlo, Dio, triste, afflitto di vano dolore, impotente a bandire i dolori, gli eccessi stessi del dolore, dall’esistenza delle sue creature: ma questo rimane il modo più sicuro di continuare ad amare quel Dio, nonostante gli orrori del mondo, e sentirlo esente di durezza e di tirannia. È un fremente, frescamente innocentemente sensuale, amore della Natura maliosa, e della propria trepida gioventù in mezzo alla Natura, che origina il timore del tempo corrodente, e la più spirituale delle angosce, ed una ribellione contro ciò che ha peso di carne caduca. È una istintiva solitaria ebbrezza giovanile, quasi ninfale, che sembrerebbe poter portare all’egocentrismo, e invece genera la più fraterna, turbata pietà per i sofferenti, per tutti coloro a cui la realtà amaramente delude le primitive, istintive, fresche speranze.
Un amore della vita, e, sì, della gioia (chi, su questa terra, non desidera la gioia?) che è sempre accompagnato a dolcezza, bontà e nobiltà, e pertanto non si abbassa o avvilisce in oscure bramosie, ma crea esso la comprensione e la pietà del prossimo, le severe meditazioni cosmiche dopo le urgenti ingenue sensazioni, e l’aspirazione alla realtà di un Mondo dove il tempo più non possa corrodere e logorare, affievolire e umiliare: a un Essere oltre il Divenire, che pur spesso inebria.
Gli esempi, diciamo pure, insigni, sono tali e tanti, che troppo vasto discorso si postulerebbe per esaminare da presso anche soltanto i principalissimi. Non ci è qui concessa dunque che una sola possibilità: quella di cogliere pochi esempi a sorte, ma raggruppandoli secondo le grandi suddivisioni tematiche che abbiamo accennate, a illuminazione di quelli che sono, e senza dubbio resteranno nel tempo, i vari «volti» di questa Poesia così ricca e complessa.

Chi saprebbe oggi dire con tanta genuinità certi illusi brividi di gioia giovanile in seno alla Natura, — illusi, diciamo, nel senso che la creatura umana sembra sentirsi congeniale e consustanziale alla Natura, e dunque duratura com’essa? Momentanee ma divine illusioni, nelle quali le sensazioni sostituiscono i pensieri con l’affinarsi e prolungarsi in sogni, in «miti», aerei eppure consistenti, come quelli della prodigiosa poetessa di Lesbo.
Un fiume che scorre, e la luce della prima stella, Espero, bastano, nella lirica «Discenderò con te» a creare uno di tali incantesimi: «Espero mia | che tenera imbianchi | il pelo dei cerbiatti m’hai sorpresa a guardare, | sognando, | in fondo al fiume, | dove vive la trota taciturna. | Discenderò con te dalla sorgente | alla foce…. laggiù, | lieta cantando | tra i segreti dell’erbe | che io sfioro. | Bocca di menta e gambe | di capriolo, | corro j dietro ad un canto di pastore | e alle pecore bianche | lungo il fiume». L’euforia fisica («bocca di menta e gambe di capriolo») non rimane limitata in se stessa, bensì trasfigura tutte le apparenze: il chiarore della luce vespertina che pone quella sua lieve sfumatura sul pelame dei cerbiatti, acquista un singolare rilievo come se li facesse veramente diversi, tutti bianchi (come bianche tra poco appariranno tutte le pecore del gregge); le vecchie cose risapute riacquistano tutto il loro sapore intenso e misterioso: che, ad esempio, sia un essere «taciturno» la trota che vive in fondo al fiume (e quell’aggettivo «taciturna» dà anche il senso ch’essa avrebbe antichi segreti da raccontare, come i serpenti e i coccodrilli di Rudyard Kipling); la piccola vita dei fili d’erba diventa, rivelando confusamente la ricchezza eh’è in ogni vita, «i segreti dell’erbe», e aggiunge così, in quel senso di sfiorare gli altrui segreti, un nuovo elemento d’ebbrezza a quell’abbandono solitario… Una fanciulla può allora fantasticare, come cosa realizzabile, di seguire il corso del fiume sino alla foce: seguendo un canto di pastore (un canto pacato ch’è in armonia con l’andar delle pecore bianche del suo gregge) e cantando essa stessa: certo, secondo la medesima semplice melodia che congiunge il pastore e le pecore. E, dal primo verso, su tutto domina la stella Espero con la sua luce bianca e tenera: e su tutti i particolari si distende un’eco o un riflesso di quella nota mite, nota di tenerezza. Con tenerezza alla lontana stella, la fanciulla dice: «mia», e se ovunque, in ogni sillaba, scorre una vibrazione di squillante gioventù, ovunque quello squillo è temperato, dal sapore mite della tenerezza, in una casta fiducia, che si direbbe di Eden. «Lieta cantando»… La Letizia non è amica dei nostri poeti, non è musa dei nostri tempi, ma la Lenisa,. che della odierna gioventù bruciata sa e penetra tutto il dolore, può pur cantare la letizia quando ferma certi attimi, oggi a troppe persone negati, di abbandono ingenuo alla Natura, di sensualità perfettamente innocente, di sensibilità docile ai più puri influssi della Natura quando questa è benigna…
Sono momenti miracolosamente attoniti, ma, ovviamente, non possono durare a lungo; e al loro chiudersi ci si riaccorge subito di essere mortali, finiti, imperfetti, e forse anche un po’ infelici. Onde l’inevitabile riscoperta della tristezza, magari dell’angoscia: o, nella migliore delle ipotesi, di una sottile malinconia che ha per sostrato la coscienza della umana caducità.«Illuso uccello canta | nell’inverno, | canta il nascere dolce | della foglia: | goccia di latte | su nodo che cela | la gemma neonata. || Illuso cuore nato | per il canto | tu emuli l’uccello a folli note. | Canti il fiato del vento | che denudanidi incompiuti e gemme… | E tu sei buono, | o Cuore, | e così nudo | nell’inverno del mondo, | eppure canti» (L’uccello nell’inverno).
Sì, ci sono momenti di addolcimento, sul finire dell’inverno, che annunziano la primavera e sembrano anticiparla: e può realmente accadere che un uccello obbedisca al soave inganno, cantando fuori tempo la primavera. E anche il cuore umano, illuso di primavera, può obbedire momentaneamente alla stessa suggestione … Ma questa lirica nasce quando già l’incanto sta finendo: sul punto ineffabile in cui la dolcezza ancora dura, ma la creatura umana, tornando alla realtà, ha riappreso ch’è inverno, è ancora l’inverno, ed illusione fu quel mite canto di primavera. Di questo contrasto, mentre nelle malinconiche parole pur si prolunga tanto incanto di soavità primaverile, è frutto la tenerezza, diversamente soave, malinconicamente soave, per l’uccello che s’è illuso, per l’uccello che ha saputo cantare la primavera in inverno. E la stessa tenerezza, ma più profonda, nasce verso il cuore umano, che ha saputo condiridere la medesima illusione e quasi il medesimo dono di canto segreto, la medesima offerta di canto inopinata… Non verso se stessa, verso il cuore umano: il povero cuore umano, in generale, — ch’è circondato di angosce in questo duro mondo (l’inverno., del mondo non allude più soltanto al freddo fisico della stagione che tra poco muterà), e tuttavia non sempre nega e maledice, e tuttavia talora canta… In questo senso non appare ingannevole l’idea ‘che ci sia bontà, una forma di bontà, ovunque c’è umano canto: e si comincia a chiarire un legame che in questo mondo poetico sussiste tra poesia e bontà, anche tra gioia c bontà. La Lenisa, che sa con lucidità estrema come tutto sia caduco sulla terra, riconosce un segno di bontà, ,più o meno segreto, in ogni manifestazione di ingenuità apparente (sottolineiamo: apparente) dell’uomo, quando egli, effimero, non maledice la propria condizione d’effimero, ma l’accetta sereno e magari sorride…; essa che ama tanto i contadini tenaci nel seminare anche quando è poca la speranza di raccogliere, essa che ama tanto l’antica Saffo che cantava dolcissimamente la Natura come se la Natura fosse sempre amica, essa che ha cantato la purezza dolcezza di Antigone, — essa che, fuori del mondo umano, predilige i piccoli animali inermi e miti quali i cerbiatti, i quali, insidiati da tante belve, sono rimasti dolci e fidenti come nell’Eden, con quei loro teneri occhi umidi.

L’Amore è uno di questi dolci atti d’illusione, dolci atti di giovinezza fiduciosa, dolci atti d’abbandono d’un essere effimero che dimentica (o, talora, quasi eroicamente vuol dimenticare) d’essere effimero, i quali si possono considerare canti del cuore in mezzo a un duro inverno, e suscitano presso la nostra poetessa tenerezza, fraterno calore di simpatia, umana pietà. La leggenda del Liocorno, che accettava di posare il capo e addormentarsi soltanto in grembo alle Vergini, esercita una suggestione ispiratrice su Maria Grazia Lenisa, poichè le fa contemplare l’ora più fugace e patetica della giovinezza femminile, quando l’amore è già nato e la verginità dura ancora, quando le crude realtà della vita sono ancor tutte da esplorare e ogni desiderio, avvolto d’ingenui prestigi, è desiderio di Mito, desiderio di Eden, desiderio di Miracolo….
Parla una mitica Fanciulla senza nome, nella poesia intitolata «La vergine e il liocorno»: «Se la mia bocca è divenuta fonte, | anfora calda sia la tua Anima, | Amore; | se i miei capelli son come le foglie | che trapelano sprazzi di sole, | sii tu il vento d’amore | a scoprire il mio riso | e le mutevoli luci degli occhi. | ‘ Se io raccolgo sul cuore due tenere | tortore, | tutte un tremore soave, | sia il tuo respiro quieto alito | di primavera | a rinfrescarle, piano. | Ma se il mio grembo t’è nido, | sia il tuo capo stanco | quello del bianco liocorno | ammansito dalla mia verginità».
La Fanciulla giovanissima ancor tutta legata alla Natura che sente i suoi capelli come foglie, — che vezzeggia la sua propria bellezza, ma con naturalistica innocenza, — ospita in sè l’impeto di Dedizione dell’Amore, poichè ama, ma il suo amore è ancor tutto limpido, e la sua Dedizione è dolce d’una sacra tenerezza: anche il suo casto grembo vuole offrire all’Amato, ma pensa questa offerta, senza alcun presagio di colpa, come l’offerta d’un caro giaciglio per un capo stanco, morbido riposo teneramente donato. L’aspetto «naturalistico» delle sensazioni della fanciulla (fonte la bocca dissetatrice; i capelli, foglie che fanno trapelare sprazzi di sole: e questi sprazzi sono le mutevoli luci degli occhi; tortore i seni tremanti d’amore; nido il piccolo grembo che accoglierà il «capo stanco» dell’Amato) s’impone immediatamente all’attenzione dei lettori, ma non è separahile dall’aspetto tenero: in questa giovane estasi anche la carne si spiritualizza, la fanciulla vuole elargire all’Amato un sollievo e un dìssetamento totale, e per questo donerà la sua bocca, — il limpido liquore della propria bocca ella s’attende sia accolto dall’Anima, da tutta l’Anima dell’uomo…
Nella nostra epoca complicata e tormentosa, spesso cinica e volutamente brutale, era tempo che qualcuno esprimesse quale puro e bellissimo mito sia pur sempre l’Amore per ì sogni di molte giovinette in fiore. Non tutte le jeunes filles en fleurs del nostro secolo sono come l’Albertina di Proust, nè come la Cecilia di Frangoise Sagan… Esistono anche oggi bei sogni, limpide attese, trasparenti miraggi, desideri senza torbore.
La nostra poetessa conosce bene — come mostrano altre sue pagine — l’amara sapienza del Leopardi, la sapienza del Sabato del Villaggio: — la vigilia essere migliore della festa., la vita non mantenere le stupende promesse fatte all’adolescenza e alla prima gioventù. Non per questo quell’attimo dei sogni più incantati e delle speranze più pure è meno bello; anzi, direbbe Leopardi, rimane il solo bello, il solo bene reale concesso dalla Vita alla stirpe umana. Quanto presto l’ombra lo raggiungerà!
In Giulietta, la innamorata fanciulla il cui amore fu così tragicamente troncato, la Lenisa vede il simbolo stesso dell’Amore che troppo presto finisce. E la immagina presaga della morte imminente, per accarezzarla con una ancor più profonda pietà.
«Non tardare, Amore, coglimi nella notte | profonda | come un fiore di melograno. | Casto letto alla mia pura attesa; % veglia un’intatta purezza | d’angelo insonne | il tuo amore. | Il desiderio di te, mio Diletto, | m’adombra le viole bagnate degli occhi | e induce a un lieve tremore colombe | in attesa del nido. | Amore lontano, matura la notte | al frusciare del vento sui fiori | dei meli, | matura l’attesa nel sogno, | un sogno le tue labbra | infuse nel mio tepore. | Ma ci divide già l’ombra della morte, | Amore, | e la divina alba e le nere nozze. | Già il mio breve tempo ha sulle labbra | il sapore della tua morte, Amore!»,
Giulietta con un lampo della divinazione di Cassandra: quale invenzione potrebbe meglio adeguarsi alla nostra patetica lucidità di Moderni, che non dimentichiamo i ferrei limiti imposti alle felicità umane ed agli stessi aogni, pur quando più avidamente amiamo la vita?
Il desiderio di essere «colta» è per Giulietta divinamente naturale, non si scompagna dalla ingenua fiducia in un Angelo Custode che vigila quell’amore, e ne vede la purezza e lo approva e gli è amico. I brividi della carne (trema lievemente il suo seno inviolato) sono anche brividi dell’anima: l’amato Romeo è il nido, cioè la cosa più bella, più cara, più necessaria e più giusta che íl cuore abbia il diritto di desiderare. Giulietta ha già baciato Romeo, ma ciò fu in così brevi estasi in così trepidi rapimenti che le labbra dell’Amato non hanno per lei ancora che un fascino ed una consistenza, o inconsistenza, di sogno. L’attesa si prolunga, genera il virgineo pianto: e allora si desta il presagio della morte incombente, l’improvvisa prescienza: — tutto sarebbe troppo bello, se il suo seno tremante trovasse sul petto di Romeo il suo nido, — nella «livida alba» che giunge, non possono esserci altre nozze se non quelle che si consumano nella morte…
O tremblant coeur humain!
Cantare l’Amore, per questa poetessa vuoi dire cantare il più trepido, il più lieve, il più minacciato dei sogni umani; non la colpa, ma un’aspirazione incoercibile, un bisogno di nido e di leggenda e di rapimento di cui nessun Dio potrà mai farci colpa. La più patetica delle ragioni per cui l’essere umano merita comprensione e pietà.
La ricchezza del cuore, fra tante minacce e in così breve storia, è la nobiltà dell’uomo caduco. Non soltanto, perciò, il romanzesco amore di Giulietta, ma tutte le tenerezze e tutte le dedizioni.
Ed ecco, accanto alla tremante dolcezza di Giulietta già così prossima alla morte, la dolcezza di Antigone giungente a Colono col cieco Edipo: «Vieni dalla tua notte profonda verso le plaghe | di sole a Colono sognata, | ci sono boschi ed acque… | La tua mano nella mia e lo stesso sole | sulle nostre gote; | la terra feconda è commossa | ai nostri passi stanchi. | Non temere il buio se il suono | ti porta il colore dell’acque, se il canto dcì teneri uccelli | già ti disegna le piume | colme di vento. | Fremono le vette delle querce antiche | al tuo canto j e matura la mia dolcezza per te | come il loto intriso di sole. | E anch’io ad occhi chiusi ascolto | suoni e sussurri lontanì, | echi d’un’anima antica diffusa | nel vento. | Vieni dalla tua notte profonda verso le piaghe | di sole a Colono sognata».
Dopo il lungo vagabondaggio il mite luogo soleggiato di Colono con le sue acque e i suoi canori uccelli, appare ad Antigone come un’oasi estremamente desiderabile: e con melodiosa voce essa l’annuncia ad Edipo. Gli annunzia i beni di cui essi godranno tra poco. Ma questi beni, acque ed uccelli e sole e alberi, non sono, tutti, cose visibili, di cui il Cieco non può più godere l’aspetto? Oh, la tenerezza di Antigone sa come promettergliene i conforti: il suono delle acque ne evocherà l’aspetto nella memoria di Edipo, le voci degli uccelli ne disegneranno i movimenti e il fremito… Tutto sarà vivo per lui, vivo presente come per lei medesima. Ed egli canterà nella sua sosta, tra la corona delle querce annuenti; e nella potenza dei suoni egli non patirà diminuzioni dalla sua cecità: sarà sovrano il potere della sua musica sul cuore ascoltante di lei, maturerà in questo cuore la dolcezza più profonda…
La Poetessa ha creato soprattutto la voce di Antigone, una voce tenerissima, la voce d’una creatura devota che sa dire al a cieco vegliardo», pur senza dirlo esplicitamente, in ogni parola: — tu non sei solo, tu non sei mai solo… — Tutte le sensazioni lí riuniscono (…lo stesso sole | su le nostre gote: ed essa abbasserà le palpebre per meglio udire l’anima della Natura e le melodie del vento, chiusi gli occhi come quelli di Edìpo), essi godono e godranno insieme le stesse cose, e più che mai, poi, li unirà il Canto di lui… Egli non è mai solo, — il buio non ha il potere di murarlo, di isolarlo dalla sua devota Antigone!
È il mitissimo inno alla Tenerezza, ad una forma di Amore che, a suo modo, non è meno alta e consolante e piena che la passione di Giulietta. La generosa giovinezza femminile può anche questo… E il Cuore umano (tu sei buono, o Cuore) sa tentare strenue difese, con commovente tenacia, contro tutte le sventure contro tutte le ombre.
Ma, prescindendo dall’Amore, ritorniamo alle vibranti emozioni della giovinezza che beatamente s’illude, concorde con la Natura, per brevi attimi, e tosto comincia a ridestarsi ritrovandosi preda dell’inesorabile tempo. Per questa via è ben rapido il cammino verso il mesto stupore cosmico, verso l’angoscia cosmica… L’ispirazione accorata nasce non appena la Giovinezza si riavveda della propria fugacità: essa piangerà nella sua pena la pena di tutti.
«Giovinezza ti volgi ed è già sera: | Alle tue spalle il sole, | Pure è dolce la vicenda degli alberi |’ A cui sempre ritornan primavere di foglie | E caldi amori | D’uccelli e di ci. cale…».
Continua la natura ad esser dolce mentre il nostro giorno corre verso la sera, mentre ci accorgiamo che abbiamo ormai il sole dietro le spalle: essa non appare partecipe del nostro destino, e ciò accresce l’accoramento in noi. (Non è eterna, la Natura, con le sue ritornanti “primavere di foglie”, ma quante volte riesce a sembrarcelo, perchè meglio misuriamo la nostra brevità!).
« …Giovane anch’io sento già avanzare, | Nella blanda lusinga d’un meriggio | La mia sera d’estate: | Brevi l’ore pomeridiane | Poi il mondo non è che del tramonto. | Afferro con angoscia | Ogni gioia e la rendo angosciosa. | È questa mia paura del tempo | Che scava sul mio cuore: | So che l’attimo è goccia | E mille e mille attimi | Son mille e mille gocce | Che mutano il volto della pietra | E, più tenero, il volto dell’uomo. || E che importa al presente | L’eternità di un canto, | Quando tu fuggirai giovinezza, | Tu che garrula ridi | Nei miei occhi, e le labbra dischiudi ad un sogno? | Ah, l’inconscia sapienza dei millenni | Sul volto della donna… || Io che l’età misuro | Dal ritmo del mio sangue | In me stessa vedrò scritta la mia condanna, | Nella lenta morte dei miei fiori, | E tu ti volgi lieta ed è già sera, | Oggi per altri, per me domani: || Oh albe e meriggi e declinanti sogni!» (Giovinezza ti volgi ed è già sera).
Mentre quella prima strofa, che abbiamo citata testè, in quei lapidari sei versi quasi epigrafici, compendia il destino di ogni giovinezza, che troppo rapidamente vede giungere la sera su di sè, nelle strofe successive si dispiega più particolareggiatamente il caso individuale della Fanciulla-Poetessa, che è pur femminilmente consapevole, come ogni fanciulla, delle sue fragili respiranti grazie attuali, e antivede la loro sfioritura fatale e ha cercato di consolarsene pensando alla ben maggiore durevolezza, alla immortalità forse conseguibile dai propri canti — e in questo pensiero non ha trovato consolazione vera, perchè essa non è il suo canto, essa è questa persona che tra un gioco d’attimi declinerà. Quale straziata dolcezza in quel verso evocante le grazie del giovane corpo lieve: «…Nella lenta morte dei miei fiori…»! Quale smarrita vastità — la vastità del tempo in continua fuga — nell’esclamazione finale: e Oh albe e meriggi e declinanti sogni!…». Ritorna all’animo, per ciò che in questa mirabile lirica è lamento di fragile femminilità, ancora una volta la melodiosa e come inerme finezza di Saffo. Ma vi è anche qualcosa in questa poesia, che nei pervenutici frammenti di Saffo non riscontriamo, e cioè una vibrazione lirica che va ben oltre il fatto individuale, la vibrazione cosmica, il cantare un epicedio non soltanto sulla giovinezza propria, ma su quella di tutti. «So che l’attimo è goccia | E mille e mille attimi | Son mille e mille gocce | che mutano il volto della pietra | E, più tenero, il volto dell’uomo…»; «…ed è già sera | Oggi per altri, per me domani: || Oh albe, e meriggi, e declinanti sogni!…». In una oscillazione naturalissima, che è essa stessa parte essenziale del fascino di questa lirica, la poetessa si volge ora più verso il destino di tutti, ora più verso il destino suo proprio; onde un sapore particolare di umanità, — dolorosa, sì, ma non certo scompostamente, — dì un dolore contemplativo dagli occhi limpidi, parzialmente serenato dalla forza stessa del contemplare. E sulla nota cosmica il canto si conchiude.
Non sarà facile, per chi abbia saputo sentirle a fondo, dimenticare quelle cosmiche immagini, quasi diremmo illimitate, del nostro comune destino, — quelle gocce di attimi che cadono sul volto della pietra scavando, e sul volto dell’uomo come su quello della pietra, — quella fuga vertiginosa di albe e meriggi e tramonti, in cui il declinare della luce è declinare dei sogni, declinare dell’anima viva che genera i sogni…
Se in questa lirica noi assistiamo per l’appunto al passaggio dalla poesia individuale alla poesia cosmica, ecco in «Come il fiume» la nota cosmica ulteriormente dilatarsi e, per così dire, invadere tutto il canto: «Mesi respirano vasti come anni | sulla mia anima assorta | e nella loro intensità io bevo | l’amara sapienza | delle cose, ed in questo fluire | vedo l’ineluttabile destino d’un fiume | che lento va verso la Foce. | Come il fiume ricorda | l’anima mia | i verdi paesi selvaggi percorsi, | le forre scavate dal forte desiderio, poi la mite pianura | dolce di carezzanti ulivi. | Ed è come se fossi divenuta | fiume ormai anelante alla larga visione del mare. || Se respirano gli anni | con ansito grave, | se più e più trasportano limi e detriti | sopra il mio capo…, | limo sarà Ia mia bellezza, | nè ciò mi turba, da quando ho penetrato | il profondo essere, e so che nel fluire | sempre si va verso l’immenso mare».
Le immagini sono tali, interamente, da imporci la visione del destino comune di tutti gli esseri viventi: e il senso del Tempo trionfatore, che ci porta via… I mesi che sembrano vasti come anni, l’intensità della vita interiore che quanto più è intensa più produce sapienza amara, consapevolezza del tempo dominatore… Il senso di un continuo fluire come il fiume… Quel che v’è di dolce nel ricordo, tanto del passato difficile quanto di quello più facile, — sia un progredire tra forre che bisogna scavare al modo del fiume tenace, sia un rallentare tra pacata pianura d’olivi — e, sempre, in ogni ricordo, il senso d’un fluire avanti, avanti, verso una foce, cioè verso il momento di perdersi nel mare… E l’immagine del fiume corrente al mare via via ha cambiato valore: mentre da principio dava il senso d’un corso ineluttabile (lottare dunque si vorrebbe, per fermarsi — ma non si può) dopo è pervasa dal desiderio di giungere: al di là delle forre, al di là dei limi e detriti, nel mare che respira immenso, nell’immensità. — Parole che valgono per tutti, e creano la visione panoramica, immensa, del destino di tutti: — fluire, ma per poi fermarsi nel mare, diventare parte dell’Immensità.
Non indugeremo a mostrare come ogni particolare tecnico sia sapientemente curato: per esempio, quell’unica pausatura strofica per cui gli ultimi otto versi, isolandosi, riassumono tutta la poesia in una luce di più intensa concentrazione, come l’ultimo verso del sonetto classico riassume tutto il sonetto. — La tecnica è sempre e interamente subordinata, come nei poeti delle età auree, al “contenuto” umano: al sentimento del tempo che passa e accumula limi e detriti, e alla scoperta che la fine del tempo è l’Immensità.
La sofferenza del tempo, e la religiosa speranza, talora certezza, che la cessazione del tempo, cioè la morte, sia la vera vita… Quest’idea la quale irritava Anatole France, che les morts siano les vivants véritables, pensandola egli in quanto nata nel cervello confuso, tra superstizioni e stregoni, degli uomini primitivi, non si è presentata all’uomo soltanto nell’ombra dei primordii: spontaneamente rinasce ogni volta — come in questo caso, — che l’uomo si rende conto di come il divenire, ossia il fluire, non sia veramente vivere. Non un dono di stregoni antichi ma la postulazione, permanente nella nostra Natura, dell’Essere quale contrapposto al Divenire… Postulazione che non produce necessariamente precise formulazioni dogmatiche nel nostro cuore: e questa poesia non è, per esempio, più cristiana che buddista; anzi, fa pensare al divino naufragio nel Nirvana assai più che alla sopravvivenza individuale. Ed è, poeticamente, questa la sua forza. Questo ha voluto, incoercibile, l’Ispirazione, sebbene la Poetessa creda nel Dio personale del cristianesimo.
(Un Dio che è buono, e che non vorrebbe il Dolore delle sue creature, se questo dolore fosse evitahíle; ma la vita [la vita-divenire] non può essere se non così, dialettica assidua di gioie e dolori, con moltissimi dolori sempre risorgenti, — dolore e morte. Neppure l’Onnipotenza divina può andare contro la logica della Vita e darci carne senza morte, vite limitate senza imperfezione, la coscienza di vivere senza il dolore di vivere.. Motivi, questi, espressi in una lirica non compresa nel presente volume).

Dalla poesia cosmica alla poesia religiosa, a un certo punto, il confine è assai incerto. Poesia religiosa, infatti, non vuoi dire poesia dogmatica, esposizione di dottrine particolari, o cattoliche o anglicane o israelitiche, e via dicendo. La poesia religiosa non è un appannaggio di una sola chiesa o setta o confessione, era già trionfalmente nata al tempo dei Veda e ha dato alcune delle sue pagine più sublimi grazie a penne cattoliche, ma non è negata ai cristiani riformati, nè agli ebrei, nè ai mussulmani, nè ai scintoisti. Così intesa (e così deve essere intesa) la poesia religiosa è ovunque ci sia un senso (espresso) del Divino, pur attraverso le più varie interpretazioni individuali.
Essa, nel caso della Lenisa, può essere, — come è già nella lirica Mosè, uscita in «Realismo Lirico» — slancio d’affetto verso un ‘Dio infinitamente buono il quale soffre crudelmente che il Dolore sia necessario nella vita animale ed umana — e può essere più circoscritta evocazione propriamente cattolica come quando chiama tra noi la figura di .Santa Caterina da Siena.
Per Santa Caterina la Lenisa ha efficacissimamente rievocato (drammaticamente, cioè attraverso le ardenti parole ch’essa attribuisce alla Santa) i tre momenti culminanti delle sue misteriose comunicazioni col Divino. Nella prima parte, Io slanciodell’Alba quando l’amor sacro per tumultuosa ardenza più rassomigliò — quasi — all’amor profano, suggerendo un bisogno di abbracciar Gesù crocifisso.
«O Dio, dove ti vidi Dio | in questa tenera alba? | che sento una piaga profonda | nel cuore, | uno spasimo per ogni vena, immenso fuoco d’amore. | O Dio, lo so — fu in quello sguardo | colmo d’ombra e’ d’angoscia mortale. | Ah. io ti riconobbi Dio | io ti riconobbi uomo | e un desiderio sconvolse | il mio sangue di vergine | amante di carità. | Ma quant’è lunga l’attesa delle tue nozze | promesse | in questo rogo che brucia pensieri | come sterpi | pensieri che non siano d’amore. | Stringerti forte al mio seno vorrei | stringere la tua umanità confitta | su due rami in croce. | Amore, amore casto | un fuoco più ardente del fuoco | terreno | mi consuma, m’annienta: come una fragile foglia | nel vortice dell’uragano».
È meraviglioso come la giovanissima Fanciulla di Udine sappia interamente comprendere interamente rivivere, nella sua evocazione liricodrammatica, l’ardente ma limpida passione dei grandi mistici, quell’ardore che attinge una così piena concretezza da poter usare un linguaggio non molto dissimile da quello delle nostre passioni terrene, e tuttavia non perde di castità.
Si coglie, attraverso la strofa della Lenisa, ciò che di proprio e inalienabile la femminilità pone nel sacro ardore di Caterina, ma così da arricchirlo e non da abbassarlo. E si coglie il santo orgoglio la consapevole felicità di Caterina nel sentire d’aver annullato tutti gli altri pensieri — bruciati “come sterpi”, poveri aridi pensieri simili a sterpi — per vivere di un sentimento solo.
Il secondo episodio è quello, così arcanamente dolce, del fanciulletto che corse a Caterina come a mamma, per le vie di Siena l’episodio del Meriggio.
«O Amore dell’Anima mia | mio Gesù crocefisso, | dove ti vidi in quest’alto meriggio | che incendia le pietre? | Io sento dentro le palme | una fonda ferita, | dove ti vidi Dio? | Passavo e un fanciullo mi chiese | una dolce carezza | poi come una rondine corse | fra gli altri fanciulli; | sentii Cristo mio Amore | uno strappo violento nel grembo | le viscere pianser pei figli, | mio Sposo, pei figli che abbiamo nel mondo».
Tutti gli affetti umani sono ancor vivi per la ricca umanità della Santa, nessuno è cancellato; ma rivivono assunti nell’amore per ‘Gesù, in esso trasfigurati. Amare Gesù non significa ignorare la grazia e innocente gentilezza dei fanciulli terreni, esserle indifferenti; significa sentire anche l’esistenza dei fanciulli, anche il vago impulso di maternità (che è in tutte le donne, non escluse le vergini) come una parte, come un elemento dell’Amore per Gesù, tutti quei bimbi sono figli di Gesù, e colei che si sente sposa di Gesù lí ama in lui, con trasalimento profondo, anche suoi, anche suoi, se sono di Gesù… E quanti d’essi lontani, non felici, non protetti… Come non desiderare di accarezzarli tutti? come non sentirsi misteriosamente, per un attimo, madre?
Episodio del gran sole, e che ha pure qualcosa d’idillico, con quel fanciullo che corre come una rondine; ìl suo momento più profondo e trafiggente si riduce ad un trasalimento nel grembo, ad una sensazione che tocca anche il fisico, sì, ma si esaurisce in un baleno e non lascia visibili ferite. Il terzo episodio invece ha odore di morte, di vera morte, e si svolge in tutt’altra luce: è l’episodio della Sera.
«Ma dove, mio Dio, mio fratello, | ti vidi in questa livida sera? | Le mani ho macchiate di sangue | ed il bianco soggo. lo…, | del sangue di un peccatore. | Erano bruni i suoi ricci, i suoi occhi | erano buoni | quando mi disse: Sorella | e in un soffio….Gesù, Caterina, poi nulla. | È morto, sei morto, Signore, | sotto la scure dell’uomo, | oh la tua testa bionda | in quella testa bruna | sul mio seno ferito. || Oh Dio, dove ti vidi Dio?».
È universalmente conosciuto l’accenno di Caterina all’odore del sangue. La poetessa non se ne avvale, e fa che in primo piano rimanga soltanto il senso della sostituzione del capo biondo di Gesù al capo bruno del condannato sul seno di Caterina.
La morte violenta fa pensare alla morte violenta, il supplizio al supplizio; non occorrono troppi particolari per intuire come Caterina sempre pensosa di Gesù e delle sue sofferenze, vedendo morire un suo infelice contemporaneo riveda la morte di Gesù e frema di amore per Gesù… Subito prima, invece, sono stati in primo piano gli occhi buoni del Condannato, mentr’egli bisbigliava le sue ultime parole: ed è quel senso di bontà, quella luce di occhi pieni d’anima, che prepara l’identificazione con Gesù nell’animo di Caterina, il suo rivivere ancora una volta il sanguinoso olocausto dell’Amato.
È raro che una donna vivissimamente legata alla vita quotidiana di noi tutti, tenti di riprodurre in sè le sensazioni dei grandi Mistici. E se lo tenta, quati inevitabilmente tende a strafare, accumula le parole e le immagini, cade nella letteratura…. Mirabile, per converso, come la poetessa udinese rimanga fedele qui alla sua greca semplicità consueta; non compie uno sforzo e non dà il senso d’uno sforzo, nel trasporsi entro il rapito e fremente animo mistico di Caterina. Sa evocare il raptus e il dolce spasimo di Caterina, come sa evocare l’amore di Saffo per la Fanciulla-Conchiglia; vivere per forza d’arte esperienze non sue, lontanissime dalla sua: e amare personaggi assai diversi, da Saffo a Santa Caterina, veramente riconoscendo a sè non alieno alcunchè di femminile; e alcunchè di umano, se si pensa anche ai suoi personaggi maschili, il Padre del Partigiano caduto, il Reduce, Davide, il profeta Isaia, S. Gerolamo…
Come si vede il senso del Divino, presso la Lenisa, può giungere fino alla celebrazione dei Santi della Chiesa Romana, nella forma più rigorosamente ortodossa. La Santità è Amore, e, dunque, la tocca profondamente. Ma altre volte torna, seppure in tonalità più dolcemente attenuata, il motivo ch’è riuscito così intenso e drammatico nel Mosè: il dolore di Dio perchè non può impedire il dolore delle creature.
«Dorme la notte immensa sul tuo cuore | che veglia e sulla terra, | Dio. | Certo tu scendi ancora dai tuoi cieli | per parlare con l’uomo; | l’uomo che non t’attende, | non crede a Dio | che passa sulla strada | che conduce alla morte. | E tu non puoi gridare d’essere Dio, | nè avere un volto | da scoprire all’uomo. | Ma ogni sera ritorni | sulla terrà, | ogni istante t’illudi | che il tuo morire | ci salvi dalla morte». (Ogni sera ritorni sulla terra).
Non stiamo a formalizzarci su una parola isolata (t’illudi), ricordando del resto il pio Verlaine di Sagesse: «Etes-vous fous, | Père, Fils, Esprit?» Verlaine, seguace, a sua volta, delle orme di Sant’Agostino… Consideriamo il «fantasma» nel suo insieme: ed è una sublime figurazione d’Amore, quel Dio che veglia mentre gli uomini dormono nella notte. quel Dio che desidera di parlare con l’uomo chiuso e sordo che non l’attende, quel Dio che viene ogni sera, inutilmente ritorna ogni sera, condotto dalla sua pietà, quel Dio che non può che non deve ad ogni sera rigridare all’uomo la sua rivelazione e il suo monito, e tuttavia lo desidererebbe, per salvarlo, — quel Dio che vuole illudersi di salvare, con il prezzo della sua passione e morte, l’uomo non salvabile. Un brivido tragico corre questi brevi intensissimi versi, ed è la tragedia dell’amore non degnamente ricambiato, l’Amore di quel Dio che soffre e si tormenta per pietà dell’uomo.

L’amore e la bontà che ispirano le poesie religiose, così pure ispirano le poesie «sociali)),, e invero queste distinzioni frapoesie naturalistiche, cosmiche, religiose, sociali, ecc. appaiono in gran parte distinzioni di comodo, dacchè il nucleo lirico centrale rimane sempre lo stesso, a sè stesso fedelissimo, secondo la legge di una personalità così straordinariamente netta come è quella di Maria Grazia Lenisa. In quante poesie «naturalistiche» giunge un quasi indicibile brivido di ispirazione «cosmica»! (Amare la Natura fino a sentirsi in tenera armonia con essa, non è sempre, un mite arrendimento cosmico, un arrendimento al senso del Tutto? E qui ricordiamo particolarmente i quieti versi del desiderio di morire in un colmo meriggio: «Io che amo la linea dei miei colli, | e le acque serene, | in cui si bagna l’erboso riflesso | del sole, | sogno un giorno di sole, | alla mia morte. | Morire, | mentre un carro di fieno dondolando | pare affondare | nel cielo infinito. | Caldo meriggio alla mia morte | e nessuno pianga | il fascio d’erbe caduto | se resta un grillo solo | a cantare | tra i fili gialli | e se il suo canto duri». La creatura umana è un piccolo elemento del tutto, come un fascio d’erbe; e se cade come un fascio d’erbe ormai falciate, non si pianga: la Natura continua, — finchè un solo grillo canoro ci dica che la Natura continua, a che piangere se qualcuno è rientrato nella sua unità?).
Come non c’è netta barriera fra la poesia naturalistica e la cosmica, come non c’è netta barriera fra la cosmica e la religiosa (e l’abbiamo visto nel Mosè), così, a saper guardare, labili appaiono i confini della poesia «sociale» lenisiana, sia verso la poesia religiosa sia verso quella naturalistica e amorosa.
Sappiamo già quanta parte, nella lirica sociale Il ritorno, abbia il senso caldo della campagna e della vita contadina… Ed ecco ora una poesia, dolce e un po’ bizzarra, bella, che forse è sociale e forse è naturalistica e forse è amorosa: la «Canzone dí una coglitrice di tabacco»:
«Piantagioni distese di tabacco | in larghe foglie | al sole | e nel mio palmo | la tenerezza delle larghe foglie. | Tubolose corolle | al mio passare | gocciavano rugiada, | era un brusio di gocce, | un arpeggiare d’aria | fra gli steli. | Sentivo la tua voce | ed ,io, nel campo | a sognare gli amori delle lucciole | e il nostro incontro | nella viva sera. | Tra gli alti steli socchiudevo | gli occhi… | E passò la mia vita. || Ora negli occhi ho il colore del tabacco trinciato».
C’è la distesa Natura, il respiro di essa; la tenerezza delle foglie; il melodioso brusio, arcana musica di gocce che cadono… E c’è la bellezza dell’amore: riassunta, ineffabile sintesi, in quel socchiudere gli occhi, durante il lavoro, per previvere l’incontro amoroso nella sera, mentre anche le lucciole intorno si amano, e si congiungono. Ma c’è, ed è conclusiva, la vibrazione «sociale»: la povera Coglitrice di tabacco non ha avuto di bello, in tutta la vita, che quel giovanile amore. Trascorso quello la sua esistenza monotona può essere riassunta in un solo verso: «E passò la mia vita». Non restò che il lavoro, non restarono che le foglie di tabacco, il tabacco, a colmare tutta una vita umana, — tanto ch’essa senta, ormai, colore di tabacco le sue stesse pupille.
E quella lirica «L’emigrante friulano» che secondo il nostro avviso è una delle più belle liriche sociali del dodicennio postbellico (tanto eloquente nella sua casta nudità, tanto spoglia di retorica e di polemica) e riassume il dramma di quei paesini del Friuli dove l’emigrazione appare come un male endemico, — è anche una dolceamara, pudica, aerea, accorata, poesia d’amore. È introdotta a parlare, infatti, la fidanzata del giovane emigrante:
«I ragazzi del mio paese | a vent’anni | vanno lontano, — | in gola un nome straniero, | nome che brucia | quanto l’acquavite. | Partono | il bavero rialzato — | senza voltarsi indietro. || Tu pure partisti: | le tue spalle nel mio ricordo | più del tuo volto. | Tua madre parla con te | come se tu le parlassi, | ogni giorno crede | di udire i tuoi passi | vicino alla casa. | Nè sei ritornato: | le tue spalle nel mio ricordo | più del tuo volto».
Soltanto una poetessa di prima grandezza poteva incidere questa dolorosa situazione umana e poetica in quei due versi: «le tue spalle nel mio ricordo | più del tuo volto», senza cedere per nulla alla tentazione di aggiungere, d’insistere. Quale intensissimo accenno, che riassume cento cose’. Sappiamo così con quali disperati occhi la ragazza seguì quella figura che si allontanava, verso chissà quale miniera francese o belga, tanto da imprimersi nella memoria la visione di quelle spalle, per sempre incancellabile; e come essa abbia cercato di ricordare il volto di lui, nell’attesa e poi quando si seppe che non sarebbe più ritornato, vedendolo svanire a poco a poco; e come abbia entro di sè confrontato la mite follia della madre, che parla con colui che non ritorna e crede di riceverne risposta, e il proprio dolore senza consolazioni di follia, misero umiliato dolore a cui non resta che l’indelebile ricordo di due spalle che s’allontanano.
Ed ecco in Alvin Palmer la poesia «sociale» che si ricongiunge alla ,areligiosa». Alvin Palmer, uno scolaro negro di 17 anni, ucciso ferocemente da alcuni compagni di scuola coetanei, «americani di razza bianca»: generosa creatura morta perdonando…. Qui più che maì è palese come la poesia sociale, per M. Grazia Lenisa, non sia mai grido d’odio, si grido d’amore: ma un grido d’amore così forte da aiutarci potentemente a coltivare in noi l’odio dell’odio, se siamo di temperamento combattivo! Utile, cioè, sul terreno pratico e umano, come altri vuole; ma poesia ignuda e casta, pura poesia, senza appesantimenti polemici e razionali
«Alvin Palmer, Creatura di Dio, | pelle nera, ma liscia | come la buccia del fico — | Alvin Palmer per la tua anima | bianca come il lino | ti chiamo fratello. | Alvin, se io t’avessi incontrato, | sarebbe stato dolce | ridere con te | un riso dì denti bianchi, | parlare di viaggi lontani… | Alvin, Creatura di Dio, | quanto fu triste la vita | per te | che portavi nel sangue | anche il dolore dei padri | curvi sulle piantagioni | il dolore dei padri che invano | sognarono come fossero uomini. | Uccisero i ragazzi bianchi | (oh adolescenze ingrate) | la tua adolescenza mite || che ancora perdona».
Con quella efficacia rapida che le è propria, la Lenisa ci mostra a un tempo la tristezza e la letizia di Alvin: triste era la sua vita, col retaggio degli antenati schiavi, con le prepotenze e le umiliazioni da subire, via via sommantisi fino alle sevizia e all’assassinio; non triste era Alvin, tuttavia, con la cristiana mitezza incapace di rancori, con la sua dolce natura, e anche con la facilità al riso ch’è così naturale a quell’età… Povero Alvin, che sapeva ridere un bel riso di denti bianchi, e che è stato distrutto a diciasette anni — mentre è facile ridere, mentre gli altri ragazzi ancora sognano la vita assai più bella di quello che è realmente. Ma sopra tutto s’impone l’idea della bontà di Alvin: candida era la sua anima ed egli ha saputo perdonare fino in fondo. Perciò ritorna ripetutamente quell’appellativo «Creatura di Dio», ricolmandosi di tutto il suo vergine significato originario. Dio era presente in quell’anima bianca come il lino, Dio in quella dolce capacità di perdonare. La bontà ci fa pensare al divino, è presenza del Divino. E nell’impeto di pietoso affetto verso una vittima così innocente, il chiamarla «Creatura di Dio» significa — tra tanta umana bassezza e crudeltà — ricordare quanto vi è di sopra-umano, sopra-terrestre nella bontà; e quanto si ferisce Dio, ferendo essa; e come sarebbe conforme alla volontà di Dio il dare amore, non odio, ad una giovinezza così inerme, così indifesa, — ad una giovinezza buona. Gli assassini, d’altra parte, sono definiti con un solo epiteto severo: «ingrati». È un aggettivo che può parere debole, di fronte a tanta ferocia! Ma la poetessa intende che quelle adolescenze erano ingrate a Dio, ingrate di tutti ì freschi beni dell’adolescenza (ingrate del privilegio stesso d’essere nati bianchi in un paese dove i bianchi sono così privilegiati, e così cattivi coi neri), e sente l’ingratitudine come il più vile e turpe dei peccati, Così intesa, la parola «ingrato» (oh adolescenze ingrate!) suona tutt’altro che blanda: un marchio ignominioso.
Non oziosamente dunque il nome di Dio è stato pronunziato e ripronunziato in questa poesia. Il concetto di Dio, la fede nel nesso Bontà-Dio è il sostrato di ogni sillaba. Tutta la lirica è «sociale» e tutta la lirica è «religiosa», indissolubilmente.
E in effetti una poetessa così genuinamente ispirata, non si propone problemi, e non si appesantisce di assunti, razionalistici. È semplicissimamente se stessa: e così appunto palesa, in sintesi, tutta la sua ispirazione nel trattare uno qualunque dei suoi singoli motivi, mettendo un po’ della sua bontà profonda anche nelle sue poesie più impressionistiche e sensorie, un po’ della sua gioia di vivere più istintiva anche nelle sue poesie più meditative, e spesso un brivido d’angoscia del Tempo anche nelle sue poesie più lietamente abbandonate. Essa possiede un mondo suo di cui ci lascia vedere a volta a volta diverse facce: ma è sempre quel mondo, coerente e costante, che la fa grande poeta.

La modernità della cultura-sostrato, la modernità delle finezze musicali nel plasmare il trepido verso, l’amore novecentesco della concisione, gli effetti lirico-drammatici più controllati e sapienti, fanno di Maria Grazia Lenisa, come si suol dire, una poetessa di «avanguardia»; e un’assoluta padrona di tutte le più suggestive risorse delle forme aperte e del verso libero. Ma in nulla essa mai indulge alle laboriosità immaginistiche, alle oscurità volute, alle artificiosità del decadentismo. Forse nessun esponente della nuova poesia è così totalmente indenne dalle tentazioni di «decadenza», dal cerebralismo arido. Così il significato storico della sua poesia non è soltanto italiano ma europeo (e lo hanno sentito già parecchi critici, e traduttori, stranieri da Hennart a Bernier, da Delfi alla Hochgriindler, da Clérici a Sarantis): essa si inserisce, in modo esemplare, nella grande lotta contemporanea tra la schiettezza-concretezza realistica ed il raffinato ma sterile artificio.

di Aldo Capasso

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  • Sono particolarmente grata alla Redazione per questo importante lavoro documentativo che segnalerò agli amici scrittori desiderosi di approfondire la poetica di Maria Grazia Lenisa. Il critico Matteo Veronesi ha studiato in modo più dettagliato della sottoscritta la corrente letteraria del Realismo lirico, il suo lavoro ha contribuito a gettare una luce di maggior comprensione su Capasso e su la Lenisa oltre a segnalare l’opera dei molti artisti che partecipavano e contribuivano con i loro scritti poetici e teorici. Marzia Alunni

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