Poesia 2.0

Il poeta è un raccoglitore di perdite e assenze, di separazioni e addii. — Gabriella Sica

Carmelo Pinto intervista Francesco Dalessandro

Hai scritto: “… nutrimento / letale dei poeti memoria e dolore…”. È da questo che nasce la Poesia?

Sì, e non sono il solo a pensarlo, naturalmente. (Montale, per esempio, lo scrive in una lettera a Clizia del 1933, pubblicata di recente). Aggiungo (e correggo) che una poesia nasce anche dal desiderio (e dolore e desiderio possono essere perfino sinonimi, come sappiamo): dal balsamo della memoria e dal castigo del desiderio; ovvero – facile ribaltare la definizione –, dal castigo della memoria e dal balsamo del desiderio.

A proposito di Montale… Diceva che il poeta è un uomo necessitato…

Sì. Difatti, pare che avesse sempre le tasche piene di foglietti su cui aveva appuntato dei versi, che scrivesse ovunque: sui margini dei giornali, sulle scatole dei fiammiferi…

Anche tu?

No. Io, benché non meno necessitato, scrivo poco e lentamente: una volta, per mancanza di tempo; ora, forse per pigrizia o perché la vena va esaurendosi; non porto foglietti in tasca, né appunto versi qua e là. Per scrivere ho bisogno d’essere a mio agio, di sedermi allo scrittoio, di disporre di buona carta, della penna o della matita giusta, del tempo sufficiente, di concentrazione e di solitudine; insomma, di quegli strumenti di lavoro ai quali Cavalcanti fece dire:

Noi siàn le tristi penne isbigotite
le cesoiuzze e ’l coltellin dolente
ch’avemo scritte dolorosamente
quelle parole che vo’ avete udite.

La fonte dei miei versi è sempre in un accadimento (reale o immaginario o, a volte, soltanto emozionale) e solo più tardi su quello si costruisce la poesia. La vita normale (riciclo le parole di Citati a proposito dell’Ivan Ilic di Tolstoj) possiede una terribile forza sovrapersonale: una compattezza e una sicurezza quasi anonime; fatta com’è di abitudini, di ripetizioni, di rimozioni, di come sempre, di ottusità, e di una quasi incomprensibile leggerezza. Non so spiegarmi come la poesia possa introdursi dentro questo munitissimo sistema di difese. Ma quando ciò accade, cioè quando l’idea (una sensazione, un’impressione, cioè l’ispirazione), dopo essere riuscita a far breccia nelle mie difese, e dopo avermi abitato a lungo, inizia a prendere forma e a vestire l’emozione, diventando lentamente ritmo, respiro (ispirazione – inspirazione: la radice delle parole è la stessa, per questo, per me, una poesia è legata al ritmo del respiro), insomma, diventando poesia, entro in uno stato d’animo che direi, francescanamente, di “perfetta letizia”.

E il poeta invasato dal dio?

Non ho mai creduto a quella storia. Preferisco pensare a un rovello interiore imbrigliato dalla necessità della forma. La nascita di una poesia somiglia all’evento raro della neve sulla campagna romana, sui colli del Lazio: quando sui versanti dell’Appennino tirreno, sottovento – cielo terso, poche nuvole sparse, aria secca e fredda, bassa temperatura –,  spira qualche sbuffo di più umida e mite aria marina, si ha una rapida condensazione e nevica. Per la poesia è lo stesso: nasce quando nel cielo sereno della mente, all’aria secca e tersa del pensiero, alle sue basse temperature, si mescola l’aria più mite del sentimento, l’umore di un’emozione. Perciò niente è più lontano dal vero come credere che una poesia nasca per divina ispirazione, se non si è convinti ancor oggi che ogni evento atmosferico sia la manifestazione della volontà degli dèi.

Valery diceva: “Il primo verso me lo dà Dio…”.

Non amo Valery. La sua battuta – se è vera – dev’essere stata una benevola presa in giro, non priva di consapevole ‘esprit’, nei confronti di qualche sprovveduto postulante. Ma naturalmente è vero che a volte un verso, o un’immagine, nasce spontaneamente e indirizza lo sviluppo di un’intera poesia.

Questo volevo chiederti, infatti… La poesia non dovrebbe nascere spontaneamente? Come le foglie su un albero, dice Keats (che, per averlo tradotto, tu conosci bene).

Certo. Ma le foglie su un albero non nascono da un momento all’altro. Pensa quanto tempo e lavoro sono necessari alla natura per quel miracolo di spontaneità.

Per questo lavori lentamente, com’hai detto?

Sì, sono lento e quel che scrivo lo sottopongo continuamente a revisione. Procedo per accumulo e sottrazione: come un pittore nella sostanza e uno scultore nella forma. La poesia prende corpo per accumulo e accostamento di particolari, come il quadro dall’aggiunta e dall’accostamento dei colori. (In questa prima fase, scrivo a mano; successivamente c’è la battitura: una volta a macchina, ora al computer. Il mezzo meccanico permette di visualizzare nel modo migliore la partitura ritmica del verso). Poi, comincio il lavoro della revisione, che è fatta di sottrazioni, di spoliazioni, di riduzioni, di continue limature; come lo scultore che lavora il marmo, che sottrae pian piano materia…

Permettimi una digressione. Oltre che poeta, tu sei anche traduttore di poesia. In una intervista, Javier Marias ha affermato che ha imparato moltissimo dall’attività di traduzione; “soprattutto a calibrare le parole”, dice, e aggiunge che se dirigesse una scuola di scrittura richiederebbe ai corsisti, come pre-requisito, la conoscenza di una o più lingue straniere e li farebbe tradurre. “Riscrivere e ricreare un grande libro (perché per me questo è il compito del traduttore), è il modo migliore per imparare a farne altri”, conclude. Sei d’accordo? Per te è stato così?

Certo che sono d’accordo: l’esperienza che si acquista è preziosa e spesso decisiva. Per me non è stato proprio così, ma solo perché io a tradurre ho cominciato tardi. Ho fatto, insomma, il percorso contrario.

Per te, cosa vuol dire tradurre?

Significa compiere un servizio umile ma orgogliosamente espletato; ovvero, porsi di fronte ad un testo, pronti a fargli da specchio, impiegando tutte le risorse di cui si dispone, in termini di sensibilità, capacità, attenzione, conoscenza della propria e dell’altrui lingua. Porsi, cioè, orgogliosamente al servizio del poeta da tradurre e renderne lingua, idee, concetti, sentimenti e senso con il moderno nostro sentire, se si tratta di un poeta di un tempo precedente; non aggiornandoli, cioè, ma illuminandoli affinché tali aspetti di cultura e sensibilità siano all’occhio e al cuore moderno comprensibili e non (per quanto possibile) traditi; o, nel caso di un poeta  contemporaneo, superino le – ormai deboli – barriere della diversità di lingua e di sentire e si offrano a modi di sentire altri. Poi, si sa, una traduzione è solo il riflesso del testo originale: più di esso è caduca ed effimera; destinata a cambiare col passare del tempo e col mutare della sensibilità; destinata ad essere ogni volta riscritta, aggiornata, rifatta…

Torniamo alla tua poesia. Qual è la prima cosa di cui ti preoccupi, scrivendo?

La mia prima preoccupazione è quella della chiarezza, perché (sono parole di Stendhal) “soltanto la chiarezza può rappresentare ciò che un uomo sente”. Intendo chiarezza sintattica, non solo di senso. E chiarezza significa disporre le parole in un loro “ordine naturale”; detto altrimenti, significa non piegare l’ordine sintattico della frase ad esigenze metriche (milioni di eccezioni, se – dice san Girolamo – “anche l’ordine delle parole è un mistero”). Le convenzioni metriche, gli artifici, minacciano la naturalezza (del discorso e della lingua) e tendono continuamente a sopraffarla. Il metro è un codice culturale; se si sostituisce al ritmo, che è ontologico, si trasforma da strumento in fine. Ad ogni verso si aprono trabocchetti. Per non caderci dentro bisogna vigilare continuamente, essere sempre desti e concentrati. Per questo non credo alla spontaneità, se non come primo impulso.

E qual è il momento migliore? All’inizio o alla fine di una poesia?

Scrivere è un piacere e un tormento (le due cose vanno sempre insieme, si sa). Per me, ripeto, i momenti piacevoli sono “nel tempo del comporre”, come lo chiama Leopardi, il quale commenta: “Passar le giornate senza accorgermene, parermi le ore cortissime, e maravigliarmi sovente io medesimo di tanta facilità a passarle”. Il piacere sta nel “gusto della craftmanship”, come lo chiama John Berryman. Il termine vuol dire abilità, perizia, maestria. Una maestria – secondo il grande poeta americano – “di rado fine a se stessa, essenzialmente per come coglie e rende visibile il suo soggetto. La versificazione, la rima, la strofa, la forma, il tropo, sono gli strumenti. Forniscono il mezzo con cui lo scrittore può foggiare, da un’esperienza in sé di solito vaga, mero sentimento o frase, qualcosa di coerente, diretto, intellegibile”. Insomma, tutto quello che fa della scrittura un’avventura della mente. La fonte del canto è sempre nell’emozione, ma questa è destinata a restare “mero sentimento”, come dice Berryman, se le parole, che sono la trama e l’ordito della poesia, il tessuto del pensiero, non la vestono. E il tormento dove sta? mi chiederai. Il tormento, la dannazione, sta nel fatto che le parole per esprimere quel “fuggitivo istante” non sempre si fanno trovare, non sono sempre a portata di mano; a volte si fanno aspettare a lungo, altre si aspettano invano.

Ti hanno accusato, mi dicevi, di sentimentalismo.

Un amico, di recente, dopo aver letto Aprile degli anni, mi ha scritto che, per lui, il sentimentalismo “nell’esercizio della scrittura (qualsiasi) è una colpa non lieve. O meglio, è un privilegio un po’ perverso che hanno solo i cercatori di radici, i costruttori di itinerari, gli osservatori di paesaggi e di ricordi, i donatori di destini e di amori”. Insomma, sarebbe una mia perversione. In realtà, egli confonde “sentimentale” con “sentimentalismo”. E nella mia poesia non c’è sentimentalismo. Robert Lowell disse una volta, a proposito di un poeta amico, che “se non avesse osato essere sentimentale, non sarebbe stato un poeta”. Ciò è profondamente vero, e vuol dire assecondare la propria ispirazione. La lingua dei sentimenti può essere “leggera, emozionata e semplice”, come la sintassi dell’infanzia di cui parlo in una poesia di Lezioni di respiro, ma questo non vuol dire fare del sentimentalismo; anzi, quella leggerezza e semplicità di partenza sono il tramite per raggiungere la profondità, le machadiane “gallerie dell’anima”.

Si capisce che non ami la poesia d’avanguardia.

No, non mi piace. Anche se, a dire il vero, ho provato a scriverne, a un certo punto. Una volta scrissi una poesia che cominciava così: Divenire in complicanze ed assidua frequentazione /moto in circolo obliquo altro da sé / 24 minuti per sera… (inutile continuare). La lesse Caproni e storse il naso: rinunciai per sempre. No, la mia poesia non vuol essere d’avanguardia, ma vuole rappresentare ciò che l’uomo sente. Se, appena scritta, una poesia ha bisogno delle note a piè pagina per essere capita, allora vuol dire che è già nata morta, che non è destinata a durare, ammesso che sia poesia.

Un’altra accusa che viene fatta alla tua poesia è d’essere elegiaca, oggi che l’elegia è ormai inutile.

Un’altra accusa che non trovo giusta. Nella mia poesia non c’è né intimismo elegiaco né esibizione narcisistica, ma solo la messa in atto nella scrittura di una metodologia di tipo husserliano: è necessario partire dalle proprie esperienze di vita per esprimere idee. Se poi certe esperienze richiedono il tono elegiaco, che c’è di sconveniente? Non mi piacciono le generalizzazioni. Ti faccio un esempio. Pare che un poeta molto intelligente non consideri più i gabbiani, e in genere gli uccelli, soggetti degni della poesia e che ad essi preferisca cose più attuali, come copertoni o chewing-gum. Che dire? Copertoni e chewing-gum possono essere benissimo soggetti di poesie. Quel che non capisco è perché non possano esserlo più gabbiani e altri uccelli. Se è vero che il poeta deve esprimere lo spirito del tempo, non è detto che debba partecipare alla sua confusione.

Ora, vuoi parlarci de L’osservatorio?

Se permetti, lo farò con le parole di Elio Pecora: “Diviso in quattro libri o canti, L’osservatorio si snoda dal mattino alla notte, in una giornata che accoglie in sé molte stagioni ed esperienze. Vi si percorre instancabilmente Roma, qui vista e raccontata con pacato e spietato amore. E se l’occhio – che indugia nelle strade e nelle piazze, nelle stanze della casa e nel chiuso della mente – non trascura aspetto e mutamento, è poi il continuo trepido trasalire dell’emozione e della percezione ad ampliare all’infinito il raggio di questo minuzioso osservare”.
La battuta in esergo al libro: “Raccontami quello che hai visto e che cosa potrebbe significare” (parole che Grace Kelly rivolge a James Stewart in una scena del film di Hitchcock La finestra sul cortile), serve a spiegarne perfettamente le intenzioni – e, in estrema sintesi, è la mia dichiarazione di poetica. Raccontare è significare, è dare un senso. Dall’accumulo dei dettagli (messi insieme, spiega Hitchcock, per disegnare un’idea) quali noi, secondo che ci colpiscono desideri e altri affetti, ce li figuriamo, nasce la visione. Le sequenze del poema rappresentano il tentativo di afferrare e di affermare il senso delle cose che (ci) accadono; il quale è davanti a noi, ma sfuggente, perciò noi non riusciamo a vederlo; o ci riusciamo solo a tratti, con gli occhi della mente. Il mio compito – il compito che mi ero dato – era quello di far “vedere, col potere della parola scritta”, la mia stessa visione e di darle un senso, il più semplice e chiaro, e obiettivamente possibile (proponendone, cioè, un possibile significato, uno fra i tanti, uno fra i possibili; al lettore, a chi vi era interessato spettava il compito di trovare il suo, di proporne un altro – alternativo e anch’esso possibile, il suo possibile). La poesia come un processo mentale esploso nella mente a partire dalla semplice visione.

Perché hai sentito l’esigenza di riscriverne alcune parti e di ripubblicarlo?

La scrittura del libro – come spiego nella notizia finale che accompagna la nuova edizione – attraversò dodici anni cruciali, decisivi della mia vita; ne affiancò e accompagnò emozioni e mutamenti e ne registrò quasi in presa diretta realtà e visioni. Nonostante i dodici anni che impiegai a scriverlo, dal 1985 al 1997 (uscì in volume nel 1998, ma una prima parte era già uscita nel 1989 con l’amichevole avallo di Attilio Bertolucci); nonostante il lavoro così a lungo fatto, sentivo che c’erano ancora parti non realizzate, opacità o durezze sintattiche, asperità di sentire e di pensiero. Insomma, sentivo che il lavoro fatto non era stato sufficiente e che bisognava apportare correttivi e revisioni… E poi perché, quando uscì, se ne accorsero in pochi: ebbe il plauso – il solo che conti, è vero – di pochissimi amici; alcune lettere volonterose, accusandone la ricezione, espressero con poche parole imbarazzate un generico apprezzamento; guadagnò appena un paio di quegli “agrodolci gesti di tolleranza”, come li chiamò Fortini, che sono le recensioni dei colleghi-amici e niente altro. Siccome lo considero ancora un buon libro, mi è sembrato doveroso dargli una seconda possibilità.

E di Lezioni di respiro, della sua forma così particolare, fatta di sonetti contrapposti, cosa ci dici?

Anche Lezioni di respiro è diviso in quattro parti, ognuna delle quali è composta da dodici sonetti (tali solo nella forma e nel numero dei versi) doppi, talora caudati, disposti a specchio, a rappresentare anche visivamente un incontro (confronto o scontro che sia). Le quattro parti stesse sono a specchio e i sonetti in corsivo all’inizio di ognuna (gli unici, si potrebbe dire, canonici) rappresentano un portale, sono un’indicazione di percorso.
Il libro continua in altra forma il teatro dei giorni e della natura, presente ne L’osservatorio; continua la mobilità della rappresentazione, anzi del racconto (perché raccontare, ripeto, non vuol dire solo rappresentare le cose che si sono viste, e che oggi è possibile conoscere meglio attraverso altri strumenti, più esatti delle parole, ma esprimere il senso di esse); la mobilità del racconto, dicevo, nel tempo naturale che macula e chiarisce, che ferisce e sana ogni cosa: i luoghi, reali o mentali, di una privata geografia, fondali del teatro sul quale si muovono le figure e le ombre che respirano o respirarono in quel tempo e dalle quali mi vennero i lacerti di conoscenza che la poesia tenta di lumeggiare. L’incontro genera comunque un dualismo. Il poeta e il suo doppio, conflittuali come Jekill e Hide eppure consapevoli della loro interdipendenza, si esprimono nell’affanno ansioso delle voci, senza trovare conciliazione; si volgono allora al passato: infanzia, adolescenza, prima maturità che sia, per cercarvi una possibilità di salvezza avvenire.

Curiosa questa tua ripartizione – che torna quasi in ogni libro – in quattro parti e ogni parte in dodici testi…

Non è una ripartizione cabalistica, se è questo che vuoi sapere. Risponde più a suggestioni naturali, direi: le quattro stagioni, i quattro punti cardinali, ecc., i dodici mesi, le dodici ore del giorno e della notte… Ma c’è anche un’altra ragione: darsi delle regole costringe a restare concentrati (e ciò vale nei due sensi: fisico e ideale).

E il riferimento a Sotto il vulcano di Lowry, al quale accenna Gianfranco Palmery nella testimonianza che accompagna la riedizione de L’osservatorio?

Ah, sì… c’è anche quello, il riferimento ai dodici capitoli di Sotto il vulcano, uno dei libri che più amo, insieme a Lord Jim di Conrad.

Dicci qualcosa di più sulla terza parte di Lezioni di respiro, quella sull’infanzia. Perché quel titolo, La sirena-infanzia, per esempio?

L’infanzia è naturalmente poetica, mitica, perché leggendaria, cioè il più delle volte immaginata; ovvero trasfigurata da una memoria imperfetta perciò fantastica. Nel titolo, l’uso del kenning (che è un procedimento sintattico-retorico tipico dell’antica poesia anglosassone) vuole accentuarne il carattere mitico attraverso il legame con un termine, “sirena” (l’infanzia “sirena del tempo”, secondo Rebora), che nel nostro immaginario rappresenta il fascino dell’inganno o del pericolo e della possibile perdita di sé: tornare all’infanzia non significa regredire fino alle radici della persona? Magari per comprenderne le conseguenze future, le sue prospettive…

Qui, e in genere nei tuoi ultimi libri, c’è un ritorno alla versificazione tradizionale, in particolare all’endecasillabo. È così? E perché?

Molti anni fa, l’amico poeta spagnolo Eloy Sanchez Rosillo, che aveva appena letto la prima parte de L’osservatorio, mi chiese perché rinnegassi così palesemente l’endecasillabo, quando si sentiva benissimo che era la misura segreta dei miei versi. Gli risposi domandando a mia volta se non sentisse l’esigenza di cambiare e smetterla per un po’ con quel metro. No, rispose. Perché cambiare, se funziona? Io l’avevo fatto perché m’ero sentito schiavo della sua naturalezza, che rischiava di diventare facilità. Ma dopotutto aveva ragione lui, perché, anche ne L’osservatorio e nelle prime due parti di Lezioni di respiro, il verso s’apre a un respiro, appunto, che tende all’endecasillabo. Perciò, tornare ad usarlo è venuto del tutto naturalmente, senza che ciò rappresenti un intimo discordo; forse solo una riconquistata consapevolezza.

Ho visto che questo vale anche per Gli anni di cenere, il quaderno che hai appena pubblicato con “La luna”. Ma non per Aprile degli anni.

Sì, è vero. Ma Aprile degli anni è un libro scritto molti anni fa, quando ancora stavo lavorando a L’osservatorio. E poi è un libro tutto particolare.

Particolare come? Perché non ce ne parli?

Devo ripetere quel che ho scritto nella notizia che lo accompagna. Lavoravo alla rifinitura de L’osservatorio e, per rilassarmi dalla tensione di quel lavoro, leggevo le poesie di E. E. Cummings (spezzare la tensione con qualcosa di assolutamente diverso mi pare che aiuti). Senza neanche rendermene conto, mentre leggevo mi appuntavo varianti della traduzione e via via apportavo varianti anche al senso delle poesie, trascrivendole in una forma più tradizionale. Più andavo avanti nella lettura e più quegl’interventi diventavano seri e modificavano i testi stessi di Cummings. Insomma, alla fine cominciai a scriverne di miei, ma imitando quello stile fatto di incisi, di esclamazioni ecc., finché non si accumularono un bel numero di testi assolutamente autonomi. Col tempo, poi, altri se ne aggiunsero, il gioco si fece più serio di quel che credessi e alla fine Aprile degli anni arrivò a duplicare esattamente la struttura originaria de L’osservatorio (là poi modificata prima della pubblicazione): rovesciandone metro, sintassi e visione, ne diventò il contraltare lirico, le “commozioni familiari e semplici”. Le sue poesie, di solito brevi, furono anche una reazione alle lunghe sequenze de L’osservatorio.

Finora, ogni tuo libro è stato diverso dal precedente, almeno formalmente. Il tuo prossimo come sarà?

Il prossimo, che forse si intitolerà Dopo Aprile (ammesso che qualcuno voglia pubblicarlo), avrà una struttura diversa. Sarà costituito da quattro poemetti, strutturati come un macrosonetto caudato, con un prologo che si lega a Lezioni di respiro e un epilogo che riamanda a L’osservatorio.

Sarà un cerchio che si chiude. Ma in che senso parli di macrosonetto?

Perché i primi due poemetti sono divisi in quattro parti, e costituiscono un po’ le quartine di un sonetto; i secondi due sono divisi in tre parti: le due terzine di quell’ipotetico sonetto; in più, l’ultimo ha una coda.

E puoi dirne qualcosa?

Poco. Parla di alcuni momenti significativi della mia vita. Come dicevo, io parto sempre dalla mia esperienza. E qui, da un aforisma di Nietzsche che dice: “Troviamo parole solo per ciò che è già morto nei nostri cuori; c’è sempre una sorta di disprezzo nell’atto di parola”.  A volte è vero, a volte no. Il passato si può rivivere nella memoria, con la saggezza, o almeno l’esperienza, dell’età; nella poesia, con la trepidazione e l’imprevisto del momento presente. Qui sono entrambi messi in atto.

Per finire, m’incuriosisce la tua teoria dell’orfanezza. Puoi spiegarla?

Io penso che i poeti nascono orfani (ma guai a dispiacersene o a piangerne oltre l’infanzia – poetica, s’intende). Per molto tempo cercheranno il padre, ma potranno solo eleggersene uno adottivo. Qualche volta si uniscono in un gruppo, condividendo esperienze e scelte; orfani che per un po’ di tempo trovano rifugio in qualche luminoso orfanotrofio, ovvero una rivista di tendenza (ora sono in auge i blog) o un manifesto poetico. Ciò li fa sentire fraterni e solidali, ma dura poco. Di solito sono quelli più dotati che fuggono per primi; qualcuno anche tragicamente, lasciando in coloro che restano un vuoto fatto di nostalgia e di benevola invidia, ma anche di incomprensione dei motivi dell’abbandono, che ai rimasti somiglia a un tradimento. Qualcuno di essi si accosta appena alla porta dello strano orfanotrofio, attratto dalla luce che brilla all’interno; o, meno per scelta che per caso, condivide con gli ospiti di esso un breve soggiorno. Qualcun altro ne ignora perfino l’esistenza.

Perché si legge sempre meno poesia?

Perché il lettore ha fretta e è sempre meno disposto a spendere del tempo in una lettura lunga e impegnativa (se si tratta di poesia, perché poi è tutto contento di tuffarsi in qualche ‛riposante’ best-seller di tre-quattrocento pagine). Ma non sono certo che oggi se ne legga meno di un tempo. Diciamo che se ne è letta sempre poca. La poesia è sempre stata per sua natura un’attività un po’ clandestina, perciò anche i suoi lettori sono dei clandestini. Il che non vuol dire che non ce ne siano, ma solo che non si rivelano tanto facilmente. Semmai, verrebbe da chiedersi perché se ne scrive ancora, sebbene riesca a malapena a competere con l’immediatezza di un bel quadro o di un film; o, in altro senso, con la sedimentazione sinuosa e lacustre di un romanzo.

Perché se ne scrive ancora?

Il catalano Pere Gimferrer, rispondendo a una domanda simile, dice che “tutta l’arte, in definitiva, non è che un punto di vista da cui guardare il mondo – per un solo istante –; non come idea vissuta giorno dopo giorno, ma come presenza che all’improvviso esplode davanti ai nostri occhi”. La poesia è esattamente quell’istante di nitida visione. Per questo se ne scrive e per questo se ne legge ancora.

E ha un compito?

Non ha una funzione salvifica, ma spesso aiuta il lettore, il possibile interlocutore, a capire i propri sentimenti. La stessa cosa raramente vale per il poeta, il quale, quando una poesia è conclusa, rischia di restarne prigioniero.

E il poeta?

Ti rispondo con le parole di Conrad: “L’instancabile, onesta attenzione a ogni momento della vita, l’attenzione nel verificare come essa si riflette nella nostra coscienza, è probabilmente il dovere che ci è stato assegnato. Un compito in cui forse il destino ha impegnato la nostra coscienza, conferendole anche voce per testimoniare la sofferenza e la serenità”.

Dunque, sembri ottimista sul futuro. Eppure, in un testo di Lezioni di respiro intitolato appunto Il futuro della poesia dici che “domani è come un morto / giudizio”.

La tua citazione non è precisa. Il verso, in realtà, dice: “… e domani e domani è come un morto / giudizio…” (dove quel domani e domani viene dal Macbeth, frutto di quella che io chiamo “la memoria involontaria”: solo quando me ne resi conto lo misi in corsivo). Perciò non è il domani ad essere come un giudizio morto, ma l’aspettare il domani e qualcosa da esso, cioè dal futuro. Quanto al futuro della poesia… Una volta scrissi – e lo penso ancora – che la vera poesia è cosa strana e rara, fatta di mestiere ma anche di miracolo. Apparentemente accerchiata dalla realtà, vessata dalle tirannie delle urgenze quotidiane, ha in se stessa le capacità per rompere l’accerchiamento, per tirarsene fuori. Venere nacque dalla spuma del mare. Evento improbabile oggi…

Improbabile, ma sempre possibile.

Penso alla fuga di Beppe Salvia lungo i viali di Villa Borghese, disgustato dell’immagine che i poeti davano di se stessi durante un “Festival internazionale dei poeti” a piazza di Siena – era l’83 o l’84 –, proprio mentre lo chiamavano per leggere. Scappava dalla mondanità dei poeti, non certo dalla Poesia. Ma oggi? Oggi che alla Poesia, come a tutte le cose a rischio di estinzione, è necessario dedicare una giornata di salvaguardia?

E il tuo futuro? All’inizio accennavi al possibile inaridirsi della tua vena poetica…

È un po’ che ho perso la fede nella necessità dei versi (sono tre anni che non ne scrivo più). O forse ho perso la pazienza necessaria a quell’opera di lima e di pulizia che da sempre accompagna la mia scrittura. Sempre, dopo ogni poesia mi sono sentito vuoto e ho temuto ch’essa potesse essere l’ultima. Già in passato, il miracolo dell’assoluta solitudine, della completa disponibilità a ricevere questa sorta d’illuminazione necessaria alla scrittura, era sempre meno frequente e io ero preso dalla paura ch’esso non si ripetesse più; allora cresceva l’ansia e, con l’ansia, la smania. Ma una smania impotente, un desiderio acuito dalla privazione, senza possibilità di compimento, come quando desideri una donna che non ti vuole. “È come smettere di fumare”, mi dicevo allora. Fortunatamente, l’avanzare dell’età permette un’attenuazione del desiderio. E dell’ansia. Adesso che sono sedici anni che non fumo più, è tutto più sopportabile.

(di Carmelo Pinto, già su LPELS)

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