Poesia 2.0

t’avrei lavato i piedi
oppure mi sarei fatta altissima
come soffitti scavalcati di cieli
come voce in voce si sconquassa
tornando folle ed organando a schiere
— Claudia Ruggeri

Francesco Dalessandro: ‘Lezioni di respiro’

Lezioni di respiro

Francesco Dalessandro

2003, Pagine 136

Il Labirinto

 

Leggo nella scansione endecasillabica della poesia di Francesco Dalessandro la ricerca di un ritmo che garantisca alla vita interiore quella minima misura pneumatica necessaria a sopravvivere nell’ “aere grasso” dell’inferno quotidiano. Il respiro vuol essere forse preghiera del cuore, che sappia guarire il cuore dall’ansia, dalla tachicardìa, dalla paura. Anche nella simbiosi bifronte che si realizza ad ogni coppia di sonetti sembra evocato quel disperato sì alla vita, quella lode alla vita che pur suo malgrado il vivente testimonia col respiro e col suo ritmo binario: inspirazione, espirazione. Come dall’espirazione si torna all’inspirazione, così nell’itinerario lirico, e nella struttura dell’opera, dalla maturità si torna all’infanzia. Quello che si delinea è il perimetro della vita di un uomo, sia l’aia del pozzo o il giardino delle tartarughe: il poeta è un geografo che lascia una mappa della propria mente. Una mappa circolare.
Ripensando il libro in silenzio, si sente il canto delle cicale: la cicala-lare, la cicala-musa, il perenne ritorno del suo canto. È la sua nota l’autentico e segreto e naturale filo sonoro che lega i sonetti della maturità a quelli dell’infanzia? Questo canto aleggia sulla terra di un poeta stanziale ma che nello stesso tempo, con un diarietto in mano, fa (autour de sa chambre) un cammino di conoscenza. Etologo di se stesso, analizza i sentieri filogenetici dell’animale-poeta (specie non più protetta). Scienziato e attore, fa e rifà le prove del difficile “teatro dei versi”. Si può sospettare che spesso, per una forma di saggezza ereditata dalla madre, elegga la cucina come laboratorio dei suoi esperimenti. E si tratta indubitabilmente di esperienze morali. “Non è compito della poesia dare un senso alla vita”: cercarlo, però, è la sua condanna. Ciò rimanda all’idea classica, senechiana, del fine morale implicito nella conoscenza. Se poi si chiedesse in che cosa si concretizza il fine medesimo, credo che l’agonista di queste psicomachie risponderebbe che la maturità è autocoscienza.
Fedele al compito che si è scelto, il poeta accetta con sopportazione (ma non con rassegnazione) lo sdoppiamento tra i panni impiegatizi (dentro i quali sente di non essere impiegato) e i panni curiali di umanistica memoria, con cui “cambia pelle”, diventa un predatore domestico, in agguato per agguantare l’occasione. E proprio in questo potrebbe essere individuata la poetica di Dalessandro: “l’occasione fa il poeta”. Ma bisognerà subito aggiungere che ciò che poi fa la poesia – e non di rado la migliore – è una costante apertura al dialogo che lascia la parola anche all’interlocutore, a dispetto dell’ “egotismo dei versi”. L’altra voce diventa testo nel quale si oggettiva il cammino di autocoscienza, dolorosamente necessario, del poeta. Voce interlocutoria; voce accusatoria. Un colloquio o un conflitto? Volendo giocare (giocare sì, ma forse non in modo del tutto sterile) con le parole, si potrebbe rispondere: un colloquio conflittuale, un conflitto colloquiale.
Stanza dopo stanza, lo spazio lirico si disegna: questi sonetti sono altrettante pupille riflesse, sguardi di specchi che restituiscono lo sguardo del poeta il quale osserva se stesso: la sua è l’arte d’uno sdoppiamento-olocausto in cui l’io della mente immola l’ego di tutti i giorni per raggiungere la maturità, ossia non l’affrancamento dalla miseria, ma – già lo si è visto – la coscienza della miseria stessa.
Stante che il polline del poeta è il dolore, nel libro non c’è nulla di pleonastico: perfino la coda del sonetto sta a significare un’insopprimibile vitalità del pensiero (anche staccata continua a guizzare!), ma anche la “dilezione” (parola cara all’autore) della vita, la petizione di un senso ulteriore, di un plusvalore ontologico.
“Lezioni di respiro” ci consegna (con onestà, donde la sua autorevolezza mai gridata) un autoritratto a minore, ma non autoparodico bensì illuminato dal sorriso affettuoso, necessariamente amaro, spontaneamente dolce, dell’ironia (un passo come questo contraddice ciò che sta dicendo: “[…] incapace d’ironia ti sei messa / su una cattiva strada mia / poesia –“) e della consapevolezza guadagnata faticosamente sul campo, come si legge, per non più dimenticarla, nella chiusa dell’“Imitazione” bertolucciana:

Non serve e non vale
oggi incidere versi se in giardino
anche il merlo riposa sugli allori.

Sauro Albisani, “Pagine”, XV, 42, settembre-dicembre 2004

 

 

Terza raccolta poetica dell’autore, suddivisa in sezioni che paiono procedere dall’esterno verso l’interno, a partire dalle prime Cronache della luce, frammenti di un discorso amoroso che si dipana all’ombra della grande tradizione: incipit di ammirevole eufonia, un verseggiare di squisita fattura, frutto di sapienza compositiva e sonora, e rinnovato nel fraseggio che segue spesso il ritmo spezzato dell’esperienza intima, del tumulto del cuore. Amore e poesia paiono sempre più inconciliabili («la felicità amorosa è l’anestetico dei versi?»), il sontuoso teatro della natura, così presente e vivo nel volume, è evocato a testimoniare un dialogo impossibile, e il fermo lamento «di colui che non trova pace né riscatto». Ciò che sta dietro al fare poetico, «ciò che siamo cos’è la poesia da cosa nasce» è l’oggetto della costante interrogazione, ma anche il proprio essere nel mondo, con la fitta rete dei rapporti che ad esso ci legano. Così, nelle sezioni successive, Lezioni di respiro, La sirena-infanzia, Figure e ombre, le liriche più chiaramente sfilano come un vero e proprio diario in versi, col trapasso delle stagioni che divengono stagioni dell’anima, e il bagaglio della vita che aumenta e si aggrava: «Un verso è la sutura del vero lo spago / con cui ricucio ogni volta il mio sacco / di ricordi e affetti –». Fino all’ultima sezione, abitata dalle ombre vere, i fantasmi dei morti, dove più acuta, penetrante come spada si fa la riflessione sul proprio passato che si precisa come passato di parole; e la poesia è davvero esercizio quasi coatto, «per non morire». Il minuscolo personaggio della tartaruga, ricorrente nella raccolta, torna un’ultima volta col suo simbolo primo, la difesa; e, come già Leopardi, «Questo di tante speranze mi resta» scrive Dalessandro con aperta citazione «il calore di un pallido sole / che illude tutti, i testardi animali corazzati contro le offese naturali / e anche i poveri poeti indifesi […]».

Idolina Landolfi, “La Sicilia – Stilos”, 8-21 novembre 2005

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