I giorni dei santi di ghiaccio – Francesco Dalessandro

I giorni dei santi di ghiaccio 

Francesco Dalessandro

1983, n. 21

Quaderni di Barbablù

Non a caso l’epigrafe di questo libro, Amore ha fabbricato ciò ch’io limo, è di Guido Cavalcanti; il poeta duecentesco, contemporaneo di Dante, rappresentò quanto di più formalmente esatto potesse concepire la poesia “volgare”.
Francesco Dalessandro si pone apertamente in questo corso di rigidità formale e lo fa con un rigore, e al tempo stesso un pudore, che lo definisce come faro emergente nel panorama di tanta poesia “sine linea” della sua generazione. Ciò va detto per sgombrare il campo da tante possibili interpretazioni che il titolo potrebbe ingenerare. I giorni dei santi di ghiaccio è un’espressione meteorologica che potrebbe evocare filologicamente chissà quale alchimia linguistica che qui non c’è; traspare invece nel libro una leggibilità “culturale” che rispecchia quel concetto di Croce (che Dalessandro ama spesso riferire) secondo cui “poesia è l’espressione emozionale filtrata attraverso l’esperienza letteraria”.
Una poesia, quindi, di forma, di mezzi espressivi, dove la struttura sembra essere a metà strada fra la ballata dolcestilnovista (tradita dalla divisione in “stanze”) e la canzone medievale (specie nei contenuti). Qua e là si intravede, poi, come un’ossessione sottile, quell’endecasillabo istintivo di Dalessandro…Ma la cura metodica della forma non vuole essere una non-complicità del “pathos”, anzi il nodo che si scioglie lungo il rivolo d’inchiostro fuoriuscito dalla penna traccia una mappa lunare d’indicibile dolore. Nevica. C’è silenzio. Tutto è chiaro. / Altra luce non filtra, altro rumore. / Il fruscio della veste sui suoi fianchi. / Il dolore che invade la mattina.
C’è in questi versi la consapevolezza del poeta a vivere nel ghetto della sua solitudine interiore che non vuole e non può essere solitudine storica. E’ proprio questo bisogno di vivere da protagonista il suo tempo e la consapevole inutilità a poterlo, al tempo stesso, stravolgere, che detta versi come Osserva, indaga: adesso, qui e altrove, / considera le cose, pensa. Pensa / all’ansia che dilaga, che non basta / un grumo di colore a farsi grazia / e rigore.
Così il poeta fa del suo mezzo strumento, oggetto di ricerca e di comunicazione al di fuori di sé, ma lo strumento ritorna come un boomerang a sondare di nuovo e sempre se stesso: Uno specillo / sonda il lago del cuore, poiché solo in se stesso identifica l’interlocutore primario che dovrà spiegargli il perché dei colori, delle stagioni mutevoli o del concettualismo idiota, perciò la morte. Non ci riuscirà, questo lo sappiamo bene, ma perché privarsi della possibilità di torturare l’interlocutore fino alle soglie del giorno, se, forse, è proprio lui il depositario della verità?
Di questo interrogatorio fra carnefice e vittima, Francesco Dalessandro diventa uno stupendo trascrittore per ambage: Una fede caparbia ti preme / a incidere il foglio, avventuroso / mare dove lo scafo ha il poco scampo / che gli assegna la sorte.
Questa trascrizione assume toni che catturano il lettore proprio per l’andamento difforme, musicale, non solo nel ritmo, ma anche nel metodo. Così, il contrappunto (Solo. Annotta. S’abbuia), s’instaura tra una pausa (Un rimorso stanchissimo punge / la nuca. Tra noi cova / la tranquilla ferocia dell’ozio), un altro contrappunto (L’alba. Nevica. Ecco), un andante (E’ vero. Anche le cose / sfuggono al nostro agire), una fuga (Come chi ami / e non riamato soffra / del proprio amarti, ma senza rancore), che preparano il gran finale in cui carnefice e vittima, di nuovo sono in simbiosi nella grande attesa (Educato all’amore, in questo nido / confortevole, al canto; preparato / allo schianto anch’io sto…).
Dunque una poesia di notevole fattura e comunicativa realizzata con grande rigore formale che ci deve far riflettere sul perché la migliore poesia di oggi sia sempre più emarginata dai grandi templi dell’Editoria industriale.

(di Luigi Amendola, “Quale sinistra?”, ottobre 1983)

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