La strada n.4: Come capisco che una poesia è una buona poesia

[Riproponiamo la lettura di un intervento di Francesco Terzago pubblicato in gennaio per la rubrica La strada, e che oggi diventa il secondo tema di discussione del nostro spazio Parliamone a cui tutti sono invitati a partecipare (qui). Buona lettura.]

Settignano.

È da parecchio tempo che mi pongo questa domanda, sostanzialmente perché è da parecchio tempo che non leggo una poesia che mi faccia provare granché leggendola. Compro libri di poesia, li ordino, do la mia fiducia e spendo i miei soldi: niente, su dieci libri di poesia mezzo è decente. Ci sono degli autori, certo – e mi riferisco solo ai più che viventi –, sui quali torno abbastanza spesso, e ne faccio tranquillamente i nomi: Alessandro Ceni, Tiziano Fratus, Matteo Fantuzzi, Salvatore Ritrovato, Pasquale di Palmo, Agostino Cornali, alcune cose di Andrea Inglese, altre di Alessandro de Francesco, Luigi Nacci… Ci sono molti altri nomi, questo è certo – ma non voglio farvi sorbire degli elenchi infiniti, il problema credo sia semplice – i testi sui quali continuo a ritornare rispondono formalmente a certi parametri dei quali in poesia, solitamente, poco si discute.

Penso ai lavori raccolti in Prosa in Prosa di Inglese, dove non si racconta ma si mostra (e lo show don’t tell è la base della narrativa contemporanea), penso al modo lusinghiero di Fantuzzi dove il significato di un componimento non è esplicitato in una eventuale sua chiusa ma è deducibile interpretandone il complesso, in Kobarid si mostra, non si racconta, ed è questo mostrare che rende la versificazione ‘scabra ed essenziale’ di Matteo così efficace. “Non credere che il lettore sia cretino, digli il giusto, evita di fare la morale, a tutti sta sul cazzo la morale” parole di Matteo che tengo sempre a mente quando mi metto alla tastiera, sempre Matteo propone dei personaggi che non sono ingessati, dei personaggi assolutamente viventi e credibili, dei personaggi che potrebbero trovare spazio nell’opera di Carver.

E sempre di mostrare si può parlare per Ceni, dove può capitare che della sua poesia non resti proprio che questo, versi che dipingono una profonda suggestione: e credo che sia l’unico poeta, o uno dei pochi, che abbiamo oggi in Italia, che si possa permettere di utilizzare una lingua che per certi tratti costringe una severa riflessione di senso. Mentre gli altri poeti che ho citato in questo elenco lavorano nella fase di digestione del senso, Ceni in quella di masticazione: che cosa intendo dire con ciò? Che l’erede della nostra poesia tradizionale è certamente lui, è l’unico che porta avanti con una spiccata serietà certe istanze poetiche senza apparente rottura con lo ieri (ovvio, senza andare sui Zanzotto di turno – ma d’altro canto Zanzotto di sé dice di essere “l’ultimo grande poeta italiano morente”). Gli altri che ho citato, pur partendo dal crogiolo comune, subiscono di riflessione le influenze del mondo culturale nel quale ci troviamo quotidianamente a operare (non che Ceni ne sia immune, ma la reazione è sostanzialmente differente), un mondo culturale che sa sempre più di dinamismo, competitività, straniamento, USA, denaro, e sempre meno di Agro Romano, di Liguria di Levante, di Tindari e di colline piemontesi ma di urbanizzazione, e del rapporto che intercorre tra il cemento e le furono aree agricole e boschive.

Mentre Ceni è un poeta della sana nostalgia, così sana da raggiungere un universo che è solo ad appannaggio della stessa nostalgia, irreale, magico, gli altri sono per me poeti del confine, loro stessi, forse – non hanno chiara che un’urgenza, un sentimento di privazione, ed è proprio nel campo di questa privazione che si muovono, e quando Ceni illustra la natura prima dell’offesa o ciò che se ne salva, evocando gli uccelli e le piante con il loro nome, facendo spiccare questi elementi dall’indistinto del nostro quotidiano, gli altri operano nella tragicità del mondo alternativo e artefatto, di un mondo di piccole cose che resistono a grandi cose omologanti: è vero, sempre di nostalgia si parla (sebbene umane e dell’umano) ma queste piccole cose, all’interno della più efficace delle narrazione, appaiono per la loro straordinarietà: una fotografia cela dietro di sé un tempo alternativo, un tempo del racconto, ci si salva così, riscoprendo piccole porzioni di sentimento, di sensibile, di pietà.

Una vetrina con su scritto ‘latte ebreo‘ ci precipita nei risvolti di una specifica provincialità. Gli Annegati di Di Palmo, nel frattempo, ci illustrano molto più dell’umanità delle parole buoniste o dichiarative di molti proclamati ‘grandi del nostro tempo’ che poi tanto grandi, alla fine, non sono: perché non sono né originali, né tanto meno latori attraverso le loro poetiche di una tradizione né, infine, coscienti degli strumenti con cui si racconta bene una storia.

In narrativa è più facile, è più onesto: un romanzo mi deve tenere incollato alle sue pagine fino a quel magico momento in cui non lo finisco, nel romanzo ci possono essere complicati intrecci, personaggi imbastiti bene o male, personaggi tinca, ci possono essere momenti concitati d’azione seguiti da momenti descrittivi che fanno riprendere fiato al lettore. Un romanzo per essere apprezzato deve avere una sua coerenza e una sua coesione interna, sia dal punto di vista formale sia dal punto di vista contenutistico. In un romanzo non si deve dire né troppo né troppo poco… A questo riguardo non posso che pensare a un libro del 2000 che ho apprezzato davvero molto e nel quale mi sono imbattuto casualmente, in biblioteca. Ogni volta che si va in biblioteca cerchiamo qualcosa che non troviamo, in compenso un libro trova noi. Il libro di cui vi parlo è di poesia, poco pochissimo ne ho sentito parlare, un libro ora disponibile in pdf, Il culto dei morti nell’Italia Contemporanea di Giulio Mozzi, e questo lavoro non conferma altro che il mio timore: che i poeti dovrebbero prima imparare a scrivere e poi a fare i poeti.

Ecco, seguire queste buone indicazioni, show don’t tell, coesione e coerenza interne, ricorrere a personaggi ben caratterizzati e credibili, necessità di veicolare un messaggio, in poesia sarebbe così difficile, sarebbe così disdicevole? L’unica cosa che posso dire è: una poesia o un insieme di poesie che vengono scritte secondo queste linee trovano l’apprezzamento anche di persone che non sono iniziate alla poesia, non sarebbe questo un modo di rendere più democratica e accessibile una forma d’espressione che se non trova il coraggio di riformarsi è destinata, giustamente, a un irreversibile declino? E allora non dovremmo tornare ai benedetti manuali di scrittura creativa e professionale?

Francesco Terzago
Written By
More from Francesco Terzago

La strada n.6: La dieta del silenzio. La noia. Basta con (certi) blog letterari.

Una riflessione sul rapporto tra social-network, blog letterari, deficit di democrazia, forme...
Read More

31 Comments

  • Vedere ricchi poeti
    sbilanciarsi con metodo,
    alzare la testa antiproiettile
    e deliberare risate aggreganti,
    laccate, profumate, esplosive,
    una forza maieutica sistematica
    contrattuale, guerriera.
    Un birichino mercimonio di sé
    irresistibile, goloso,
    senza nessun millantato credito.
    I libri di grammatica
    lo chiedono.
    C’è bisogno di cuori
    grandi come elicotteri,
    in un cielo da imparare a memoria,
    di paracadutate canzoni,
    baci, poesie,
    da far esplodere
    dove la vitalità è offesa
    prigioniera di un mattino
    che non ne vale la pena.

  • per me una buona poesia è quando c’è grazia… quel qualcosa di gratuito che riscatta il testo dalla presunzione del “dire”

  • E così mi sembra di capire: bastano delle regole, dei manuali di scrittura, la norma di non eccedere, il vocabolo giusto, e la buona poesia , come il buon racconto ,è fatto. Ma non è così, non è la via del ‘lavora per sottrazione’, che fa la poesia degna di essere letta. Ma è quello che tu volevi dire e che il poeta ha detto in quella maniera che ti risuona dentro, per anni, per la vita, che fa la poesia. Ho letto da qualche parte che Neruda e Alda Merini sono poeti per analfabeti, e a Machado, Jmenez anche,credo, a Salinas, Eliot, quante cose si potrebbero togliere. E allora, io che sono sempre per l’unire e fluire, dico che sono un’analfabeta, anche se ho letto tutto di poesia, gli anglosassoni, le donne stregonesche., No, nessun manuale, che i poeti escano pure fuori dalle righe , come Ashbery, lungo e prolisso, ma che ti trascina con lui in mondi che riconosci, che ogni volta parla di mondi che ci va di scoprire.Ma no, noi che siamo un popolo di poeti etc ( non mi va di ripetere frasi fatte), che abbiamo avuto varie correnti poetiche dobbiamo ripulire anche le ‘trombe d’oro della solarità’? Troppo metaforico, denso , troppo colorato …Sinestesie di colori e suoni. Eccesso? Lasciamo stare le scuole di scrittura, hanno prodotto già anemici racconti. Ogni gruppo si dia una poetica e si esprima, poi limi. Ma senza togliere la sostanza viva della poesia.

  • E’ una affermazione che posso accettare in parte, ma è anche qualcosa che non mi va di riferire ad uno spazio di discussione così stretto. Archivio e parleremo.

  • @Jxx, non appena farai ritorno dal tuo viaggio nel Palatinato… Comunque, credo che si possa fare finalmente a meno del virus nichilista Derrida. Il decostruzionismo distrugge l’arte, la scrittura, la logica, la Ragione. E non è nemmeno uno scetticista come si deve, se paragonato ai grandi filosofi della scienza.

  • Francesco, sono jonathan. Ciò che hai scritto è molto interessante, e come di norma, mi trovo poco d’accordo.
    Posso dirti soltanto che così come l’individuazione di certi parametri muove una logica di senso diventando il proprio moto, quel moto è destinato ai parametri immessi come metro di movimento di senso. Consiglio pertanto che ci si azzardi sul tutto che non si sa o con cui non si è d’accordo, e studiarlo in fondo. Mi riferisco ad esempio all’altra parte, alla coltre del linguaggio scatenata dal decostruzionismo, da Blanchot, dall’intuizione di Carlo Sini e quant’altro. Io di per sè sto tornando sui miei passi dove denigrai Cartesio, torno su Aristotele e Platone, e m’accodo agli studi che già so mi creano non poche incazzature, in quanto in disaccordo, un disaccordo profondo. Ma tralasciare lo spazio d’intersezione che ci separa da esso è esporsi ad una pratica di dominio tutt’altro che critica. La tua presa di posizione è sacrosanta; ma il superamento delle prese di posizione è fondamentale(giudicare non è conoscere ma conoscere è giudicare, te lo scrissi una volta). Augurandomi di poterti vedere e prenderci a pugni a riguardo, rileggo e ripenso.

  • ci sono due tipi di poeti. quelli che descrivono il mondo a loro intorno, e gli altri, quelli che inventano un proprio mondo. personalmente preferisco i secondi, ma è solo questione di come ‘stare’ al mondo.
    Luigi caro, dici: ‘cultura di massa’, proprio in questi giorni a lezione cercavo di definire (con gli studenti) il termine: cultura. ti racconterò quante ‘belle’ cose sono venute fuori!

    un abbraccio

  • quando intravvedo un mondo mi nasce il sospetto di essere davanti a una buona poesia quando un testo assomiglia a chi l’ha scritto ne ho quasi la certezza
    quando torniamo a considerare il linguaggio uno strumento e non un gesto allora comincia a puzzare

    il dire tutto è diventato fortemente visual, la narrazione oggi nasce visuale, il poetico non è più l’implicito o il soggetto della memoria, è una scansione, un fotogramma
    abrazos
    ale

  • Estremamente interessante la poesia di Roversi! In nome di una Perfidia ribaltabile propongo l’inversione dell’ultimo distico: tutti crediti iniqui vi dirò io/tutti meriti innoqui direte voi…

  • Personalmente credo che la vera poesia (oltre ad un’ accorta e leggera azione di bulino applicata alla parola) affiori solo da una dilatazione del proprio spazio interiore. Leopardi parlava a riguardo di Idillio, luogo dell’anima dentro cui il verso stende infinite onde e risacche reali quanto immaginarie.
    Molta poesia di oggi (ma anche buona parte della narrativa da scaffale di libreire-supermercato) è costruita attraverso l’esercizio di una tecnica enigmatica che ha come finalità quella di essere enigmistica. Solo Sanguineti è riuscito a dimostrare il contrario: l’enigmistica di una possibile forma svela il complesso ed ironico enigma dell’esistere per sè e con gli altri.
    Cogliere la poesia, fiore del mondo è semplice. Riconoscerla per riconoscersi accade di rado.

  • Perfidia

    Quando è la coda
    che scodinzola il cane,
    il suo padrone esprime
    un’ambizione sublime
    ma seleziona ciarpame.

    Quando è il carro
    che traina il paio dei buoi
    (mai che l’intenzione pazienti,
    sempre a precorrere gli eventi!),
    ahi ahi! sono guai.

    Quando invece del bottone
    uno cuce un blasone
    sul pantalone, si scade
    nel patetico, che con la sicurezza
    è il peggiore nemico della tenerezza.

    Tutti meriti innocui direte voi.
    Tutti crediti iniqui vi dirò io.

  • Pingback: Tweets that mention Come capisco che una poesia è una buona poesia | Poesia 2.0 -- Topsy.com
  • Luigi, ti rubo l’ultima parte: “invece di innalzare il livello degli “incolti”, si è abbassato quello della cultura perché fosse più accessibile. E così ora ci ritroviamo con una miriade di analfabeti funzionali che scrivono poesie”.
    Questa è la verità delle verità!!! 🙂

  • Come al solito, Francesco, con il suo approccio diretto, senza fronzoli, spesso brusco e in un certo senso militante, riesce sempre a smuovere le acque del pantano. Pare semplice ma, visto un “certo ambiente” (il pantano, appunto), non lo è: tutti vogliono essere senza colpa e senza macchia e la domenica, dopo l’eucarestia, si riuniscono a fumare sigari al bar lamentandosi di dove andrà a finire la poesia. Ma di prendere posizione, rischiando tutto ciò che si rischia quando si prende posizione, nemmeno l’ombra. Dunque è per questo che lo ringrazio Francesco, anche se ciò non vuol dire che sia d’accordo. Anzi, il più delle volte, mi trovo sempre piacevolmente in disaccordo e trovo che la cosa sia positiva: prima il tacco e poi la punta: è così che si fa il passo, o no?

    Finita la premessa (doverosa), vado al succo.

    In primis, evidenzierei il fatto che qui non si parla di poesia assolutamente buona o assolutamente cattiva. piuttosto si parla di poesia buona-per-me, cattiva-per-me. E questo è già un segno,a mio avviso, positivo di confronto, di voglia-di-toccare-il-morto-per-vedere-se-ancora-si-muove.
    Detto questo, più che sui nomi, mi soffermerei sulla metodologia, sull’approccio.
    Già Mr. Bloom si pose la fatidica domanda “come riconosco una buona poesia” in un librettino che consiglio a tutti coloro che non l’hanno già fatto di leggere (L’arte di leggere la poesia, Rizzoli, 10,50 euri, recentemente riacquistato visto che la mia copia è in italia). E prima di lui se lo chiese Aristotele ne La Poetica (che consiglierei di leggere al posto dei manuali di scrittura creativa…).
    Secondo il caro vecchio Aristotele, l’arte è il risultato della capacità di imitare (leggere: rappresentare) che l’uomo possiede; la poesia, nello specifico, nasce da questa capacità e dalla naturale predisposizione che l’uomo ha per il ritmo e l’armonia, la sonorità. E sono proprio questi due elementi di cui lamento l’assenza nella maggior parte della poesia contemporanea. Paul Valery scrisse a proposito de Il cimitero Marino, nato appunto da un ritmo nella testa, che ,in poesia “la risonanza è più importante della causalità, e la «forma», invece di svanire nel suo effetto, ne è come ripostulata. L’Idea rivendica la sua voce.” In altre parole: possiamo piantarla di prosare in poesia e poetare in prosa, per favore? Cazzo, è lapalissiano: hanno addirittura due nomi differenti che non sono sinonimi, quindi perché continuare a confonderli? Che poi si voglia creare un altro “genere” perché, come dice Bloom, il principale problema dei poeti post-romantici e fintamente non romantici è il complesso di non avere più assi nella manica da tirare fuori dopo tutti i predecessori, allora è un altro discorso. A cui però va dato un nome comune di cosa proprio.
    Anche in narrativa, dopo l’Ulisse di Joyce – come affermava il buon Carmelo Bene -, si sarebbe potuto fare a meno di continuare a scrivere. Però, i narratori, o perché più sfacciati o perchè l’Ulisse non l’hanno letto (come la maggior parte dei loro lettori), continuano a profferire parole il più delle volte al vento. Una ragione, questa, che mi basta per allontanare da me qualunque dubbio sulla possibilità di “imitare” la narrativa. Anche perché, per tornare ad Aristotele, secondo il filosofo la poesia si distingue dalla prosa soprattutto per un motivo: la sua ragion d’essere è quella di descrive situazioni probabili, ciò che sarebbe potuto accadere; mentre la prosa descrive avvenimenti possibili, o ciò che è accaduto. Che detta con Rimbaud suona come “una metafora può cambiare il mondo. E questo non perché effettivamente lo cambi, ma piuttosto perché cambia le sinapsi del cervello che il mondo lo imita, lo rappresenta, in cui miracolosamente è stata inoculata la coscienza del lettore. Come afferma Bloom con le parole di Barfield: la coscienza è per la poesia ciò che il marmo è per la scultura: materiale da lavorare. Dunque la poesia come arte di accrescere la propria coscienza nell’intento di diventare sempre più liberi artefici di noi stessi.
    Qualcuno potrebbe obiettare (come io stesso ho obiettato a me stesso) che questo “ingrandimento” della coscienza può avvenire non solo attraverso la poesia. Vero. Però con la poesia è “meglio” in termini di efficacia, poiché il suo potere evocativo (show don’t tell) è talmente grande da resuscitare i ricordi più morti e le immagini più recondite sepolti negli anfratti del nostro cervello. Con la buona poesia, s’intende. E• la buona poesia è quella che contiene il verso “inevitabile”, che non potrebbe che essere così com’è o non essere. Come direbbe Eisenstein: “ciò che richiede di essere scritto” e in una specifica forma. Poiché contenuto e forma in poesia non possono essere disgiunti.
    Direi che tutte queste argomentazioni _(non mie, ché sennò non sarei dove sono, ma da un’altra parte) mi paiono dei buoni punti di partenza per decidere della bontà o meno di un componimenot poetico. Poi, altra cosa è il gusto. Lì non c’è molto da fare: una poesia ti piace o non ti piace; la apprezzi o non la apprezzi, a prescindere dalla bontà delle sue intenzioni. E molto dipende dalla formazione, da quanto si è letto prima, da come lo si è letto, da cosa, dalla storia personale, dal momento storico etc. Per non parlare dell’effetto museo… sempre, quando si fa questo discorso, pongo la domanda: quanti di noi, sinceramente, se avesse trovato un Mirò accanto ad un cassonetto invece che in un museo se lo sarebbe portato a casa convinto di aver incontrato una opera d’arte?

    Insomma, i fattori sono tanti e si intrecciano tra loro in maniera imprevedibile. noi si fa quel che si può, e già parlarne è per me moltissimo.

    A prescindere da tutto, su una cosa non sono assolutamente d’accordo (e già altre volte mi sono “scontrato” con Francesco su questo): non credo sia auspicabile ” rendere più democratica e accessibile una forma d’espressione che se non trova il coraggio di riformarsi è destinata, giustamente, a un irreversibile declino”. Significherebbe comportarsi come ci si è comportati con la cultura trasformandola in cultura di massa: invece di innalzare il livello degli “incolti”, si è abbassato quello della cultura perché fosse più accessibile. E così ora ci ritroviamo con una miriade di analfabeti funzionali che scrivono poesie (me compreso).

    Un abbraccio

    Luigi B.

  • Mi pare di aver detto chiaramente del perché non ritengo la poesia degli anni 70/80 così buona: è troppo strumentalizzata, è una poesia meccanica, una brutta copiatura di testi vecchi, una storpiatura.
    Non dico di tutti, ma molti purtroppo che sono sul podio dovrebbero lasciare il posto ad altri, che meritano di più.
    Francesco parlava di poesia che arriva ad un pubblico vasto, cosa che non mi trova per nulla d’accordo. Spesso oggi infatti si parla di poesia di nicchia più che di poesia del “grande pubblico”. Oggi non esiste più il grande pubblico.

    A.

  • a Francesco, dico che la visuale offerta, nonostante l’apprezzabile sforzo propositivo, corre – a mio avviso – seriamente il rischio di precipitare la poesia (non ne parlo come ipostasi) nel posto peggiore che potrebbe esserci: la modalità tutta strumentale, la mera “funzione” del linguaggio (quale che sia di volta in volta). proprio per i cenni che fai, qui nei commenti, alle neuroscienze, mi sembra strano che invece tu non voglia riconoscere alla poiesis la prima e principale sua funzione, che è appunto cognitiva e biologica, l’essere cioè una forma gnoseologica alternativa – anche radicalmente – ad altri “usi” (appunto) del linguaggio. la logica del “comunicare” pecca – a mio avviso, sempre – di una fortissima impostazione retorica: io sono il poeta e scrivo “per”, pragmaticamente impostando la mia scrittura in vista dell’obbiettivo in quel “per” implicato. viene così a mancare ogni scarto e differenza e proprio clinamen del senso, non può esserci conoscenza né per chi scrive né per chi legge perché non c’è un vero processo conoscitivo in atto nella scrittura, ma solo una sua simulazione.
    cerco di fare un discorso generale (e certo pressapochista), non mi riferisco dunque agli autori da te citati ma alla proposta interpretativa complessiva.
    continueremo a discuterne, magari non subito, spero di non risultare sgradito con questo commento.

    più stupito mi lasciano invece le repliche di Anila, alla quale vorrei dire invece che, appunto, un po’ di umiltà non guasterebbe.
    prima di cancellare la poesia degli anni settanta e ottanta dalle librerie o interdirne le pubblicazioni (già pressoché nulle) ripenserei fortemente ai commenti che hai lasciato: di censure ne abbiamo già abbastanza in Italia. certo che ci sono molti bravi autori in ombra, e che la poesia italiana non si riduce (né mi pare sia questa l’intenzione di Francesco) ai soli nomi fatti nell’articolo, articolo che si pone chiaramente in prospettiva personale e “partigiana”, come è giusto che sia. (il titolo ha, mi sembra, un “capisco”, non un “capire”). ossia: è nel diritto di ognuno proporre una personale prospettiva della situazione, di qualunque situazione, certo passibile di critica, ma che appunto sia una critica: se ci dici che i libri summenzionati non sono buoni libri, che la poesia degli anni settanta deve finire al macero, dovresti anche, credo, darcene argomentata ragione.

    un saluto a tutti,

    f.t.

  • Saluto rinnovando stima a Francesco per la sua lettura comparativa, e per essere andato dritto al punto. Francesco ha segnalato, oltre che una modalità di lettura, anche una modalità possibile di poesia, con il suo pezzo. Segnalando, per dovere critico, la sua esistenza e i suoi vantaggi. E questo è tutto. Il resto, cosa sia poesia o meno, trascendono da quanto ha detto Francesco, così come la presunta maggiore autenticità o verità di un “tipo” di poesia rispetto a un altro.

    Guido Mattia Gallerani

  • A me dispiace che qui venga lasciato un messaggio “questa è la poesia buona” ed il resto magari non è lo. Questa poesia “buona” è solo una poesia, punto. Non è nè buona nè cattiva: può piacere come può far inorridire. Per me come prosa può essere pure accettabile, ma non come poesia.
    Qui si parte dal presupposto che qualsiasi cosa “nuova” sia bella perchè nuova. NO! Io non giustifico certa poesia con il termine, poesia civile o poesia sperimentale, perchè fa comodo. Adesso magari Francesco troverà del buono per dire anche sulla poesia di A. Broggi, come fanno molti. A me la cosa fa rabbrividire. Come mi fa rabbrividire il parlare tanto di un libro solo come fosse il libro del secolo, come Kobarid. Può stamparne pure 10mila di copie, ma questo non vuol dire che sia un buon libro.
    Di questi autori qui citati sì, salverei Ceni e Inglese, ma non tutto.
    Non posso concepire un mondo della poesia in futuro con in vetrina solo questa poesia.
    Ci sono tantissimi nomi che scrivono buona poesia oggi, spesso anche di autori che rimangono nell’ombra. Ma non perchè fanno parte di una categoria di poesia, non perchè scrivono poesia sperimentale o civile o quello che vuoi, ma scrivono poesia e basta, senza avere bisogno di giustificarla con un nome dietro.
    E’ questo che io penso di tutti questi nomignoli poverelli che vengono dati alla poesia.
    Poi ripeto, pure io ho moltissimo da imparare. Ma almeno io non mi sento di dire “questa è buona poesia, questa no” oppure “”l’erede della nostra poesia tradizionale è proprio lui”. Ma chi lo dice????
    Un po’ di umiltà non guasta.

  • Per Anila. Uno impara a scrivere perché vuole provare a se stesso di essere capace di produrre quella magia che ha scoperto leggendo. Impara copiando, sostanzialmente; e non c’è altro modo. In questo modo acquisisce la tecnica. Poi, se si ferma lì, si ferma lì. Altrimenti si mette a cercare, e a questo punto davvero forse sta scrivendo poesia. Spesso, purtroppo, non trova niente di particolare.
    Proprio per questo, più è variata la dieta a cui ha assunto (e a cui continua ad assumere – perché non si smette mai di imparare) e più è facile che possa staccarsi dai modelli.
    Quanto a quello che rimarrà di quella poesia, se lo domandava anche Dante. Poi lui è rimasto. Non so quanti allora avrebbero scommesso su di lui. Comunque Ceni e Inglese valgono senz’altro la pena di essere letti e meditati, per quello che possono valere i miei gusti personali. A Inglese ho persino dedicato un lungo post.
    Certo, il mondo non finisce qui; ma anche questo è mondo.

  • Ecco, la narrativa. Visto che sono tanto bravi di fare codesta “buona” parola, che lascino la poesia e si dedichino alla narrativa. Di poesia c’è ben poco in questi versi.

  • Cara Anila, a questo punto fammi qualche nome. Sono molto curioso. Be’, se non succede qualcosa di sconvolgente – addio poesia. Be’, fra 15 anni probabilmente sarò già passato alla narrativa, in narrativa si guarda in faccia alla realtà molto più che in poesia.

  • Daniele, visto che leggo il tuo commento: secondo te come uno impara a scrivere? Per uno che comincia i primi passi nella poesia oggi, credi davvero che serva leggere la poesia di questi autori? Mi chiedo veramente cosa rimarrà di tale poesia….

  • Io non credo che poesia e pittura nascano per comunicare qualcosa. Magari per tramandare sì. Certo che comunicano: non comunicare non si può. Quindi è meglio che lo facciano al meglio: ma mica leggiamo poesia per quello. I giornali e la critica comunicano molto meglio, e assai più chiaramente.
    Semmai la poesia (e forse anche la pittura) serve per vivere insieme qualcosa. Per questo talvolta è davvero “turbine, vortice e voragine”. Ma altre volte è semplicemente riposo, o malinconia, o dolore, o anche noia.
    Non credere nelle ricette non significa svalutare la tecnica. Certo, sono d’accordo: prima bisogna imparare a scrivere, e poi si scrive poesia. Gli dei che possiedono il poeta quando crea abitano nelle sue sinapsi, ma se le sue sinapsi non sono abituate a scrivere, quegli dei cercano altri modi di espressione.
    Anch’io mi domando continuamente come capisco se una poesia è una buona poesia, e anch’io apprezzo molti dei poeti che hai nominato – e magari alcuni li apprezzo persino per le stesse ragioni che hai detto. E tuttavia amo la poesia proprio perché mi spiazza, e per quante regole su cosa sia una buona poesia io possa trovare, trovo sempre, prima o poi, una buona poesia che non le segue.
    db

  • Scusa Francesco, ma forse hai preso fischi per fiaschi.
    Ma senza ribadire quanto ho detto, mi chiedo veramente se tra 15 anni sarai ancora di questa idea della poesia. No, perchè mi verrebbe da piangere.
    Mi è capitato più volte di leggere poeti “buoni” come li chiami tu e “selezionarli” dall’alto del loro nome, senza il loro “buon” nome dietro, ben stampato in fronte, e la pochezza mista a degrado della parola era lampante.
    I poeti buoni come li chiami tu sono frutto di una nicchia di sbrodolamenti tutti loro, perchè si amano, si lodano e si sbrodano come dico sempre, tra loro.
    E’ une vergogna e ripeto una vergogna che qui non vengano magari inseriti autori molto più importanti e di poesia di pregio, di VERA poesia, e vengano nominati questi “buoni” poeti perchè fanno 200commenti e 300letture diverse e la loro faccia si vede e si legge ovunque.
    In una giuria che legge in anonimato questi “buoni” poeti, credimi, mi è capitato, viene spesso da ridere, perchè senza il loro nome, rimangono anonimi.
    Ma tanto, nessuno di questi “buoni” poeti avrà mai le palle, e scusa il termine, di farsi leggere in anonimato da nessuno e far vedere veramente se la sua “buona” poesia interessa veramente ad un editore o meno.
    La poesia che parla di cicciobello e supermercati e la poesia “civile” che di civile non ha nulla, la lascerei volentieri nel poco similhumus da dov’è uscita. Perchè humus vero e proprio, non sarà mai.
    Questo non è un invalidare qualsiasi procedimento evolutivo, ma piuttosto è far luce sui veri volti della poesia di oggi. Fosse per me, anche la poesia degli anni 70 andrebbe cancellata dalle pubblicazioni. Figuriamoci anni 80.
    Prima si studia, poi si può parlare.
    E credimi che te lo dice una che della poesia conosce poco o nulla. Ma qui, mi dispiace, ma si sopravvalutano coloro che non meritano e si dimenticano quelli che veramente, anche se non hanno dietro la ciurma di plausi, meritano e tanto di cappello a loro!

  • Poesia e pittura, nascono per comunicare qualcosa. O per tramandare. Anche nelle forme tradizionali più astratte, penso all’Enso giapponese, dove comunque troviamo un impressionante lavoro di elaborazione del senso, il tradursi di maestria, tradizione e forme di pensiero orientali. Non credo in nessuna forma artistica che non abbia uno stretto legame con la tecnica: e allora guardo di buon occhio tutti gli studi linguistici che vengono fatti sul linguaggio e sulla sua efficacia. Non credo in dèi capaci di possedere un poeta nel momento in cui questo crea, dobbiamo leggere quei libri che parlano di come una parola esca dalle nostre sinapsi, questo ci farebbe bene. Piuttosto che scrivere ‘in totale libertà’ affidandoci solo alla spontaneità dei sentimenti e all’acquisizione di una certa poesia per riflessione torniamo alla metrica più severa – altrimenti accettiamo il mondo in cui viviamo e cerchiamo di fare della buona poesia che sia adatta al mondo in cui viviamo. Se vogliamo muoverci nella nostra contemporaneità, bene, utilizziamo allora gli strumenti della contemporaneità. Il ragionamento che fai rischia di invalidare qualsiasi procedimento evolutivo che riguardi la poesia (se non quello che subiamo tutti passivamente, cioè dell’evoluzione del linguaggio).

  • Io invece ritengo che la poesia non debba nè essere cinema, nè essere teatro, nè raggiungere il pubblico con una visuale troppo “popolare”. La poesia è arte e l’arte si eleva spesso e volentieri. A me sinceramente, turba, come poetessa, un certo linguaggio in poesia e turba che venga considerata poesia “buona” una poesia che è tutt’altro tale. Non dico che tale poesia che tu ritieni e definisci buona, sia del tutto malvagia. Ma manca totalmente del sentire, dell’anima, del cuore. E’ una poesia che è meccanica: come se questi non fossero poeti, ma ingegneri della parola. La poesia non ha nulla a che fare con l’ingegneria. La poesia è turbine, è vortice e voragine. E spesso questo turbine non è facile percepirlo grazie a frasi come ” evita di fare la morale, a tutti sta sul cazzo la morale” e non ho nulla contro i poeti da te citati. Matteo è pure mio amico. Ritengo però che si debbano allargare un po’ gli orizzonti della poesia. Andando a fare cinema con la poesia, la stiamo solo uccidendo. La poesia è altro. Molto altro.
    Quindi dissento con il tuo dire ristretto di “buona poesia”.

  • @Lorenzo. Sì Lorenzo, hai ragione, ma da qualche parte si deve pur partire.

    @Anila. Potrebbe essere – ma è di certo una poesia che ha le carte in regola per raggiungere un pubblico vasto. Che può raggiungere quel pubblico che non è addestrato alla poesia, una poesia che sia, per fare un paragone facile, come il grande cinema.

  • Trovo questa lettura identificabile solo con un certo tipo di poesia, non con tutta la poesia di oggi. E’ lettura per una vetrina ristretta, soltanto.
    Non credi? 🙂

    A.

  • mi sento di rispondere questo:
    lo show don’t tell – anche se mette in gioco caratteristiche strutturali del fare letteratura – non ha la capacità di una regola universale. o almeno io non riesco a essere così categorico.
    e un’altra cosa… manuali di scrittura creativa mai.
    ma, a parte questo, la poesia che citi e che leggi con passione è davvero orientata a parlare al lettore e non solo al circolo ecolalico dei poeti contemporanei, così com’é la tua.
    non lo dico per piaggeria, ma perchè abbiamo lavorato assieme su questo concetto e il nostro contributo dovrebbe uscire a breve… a brevissimo…

Lascia un commento