Essere poeta è faticoso. C’è qualcosa di profondamente masochistico nell’applicarsi delle maschere [...] La poesia è la strada meno vile che può percorrere chi prova insofferenza per la schiavitù del vivere quotidiano inquadrato nelle regole borghesi.
—
di Redazione
![]() |
Le parole di Eliodora
Biagio Cepollaro 1984 Forum / Quinta Generazione |
(Carlo Villa, Prefazione a Le parole di Eliodora, Forum, 1984,)
Un meccanismo inceppato
Canetti una volta scrisse dell’impudenza di quei critici letterari che costruiscono la loro fortuna sfruttando la disperata solitudine dei poeti.
Hölderlin visse da folle negli ultimi anni della sua vita. Kafka destina al rogo i suoi scritti prima di morire. Rimbaud brucia nel silenzio e nella fuga da se stesso l’enorme patrimonio visionario de «Le illuminazioni», ed ecco, alla scomparsa di costoro, eserciti di esegeti, commentatori, catalogatori, imbrattatori, azzannare i resti di vite così sofferte e vilipese, semplicemente per esistere ed essere citati; in luogo dell’oblio sopportato in vita dai destinatari di tanta speculazione.
È davvero atroce il divario di un Musil, che muore isolato e sconosciuto, continuamente ostacolato in vita nella stesura del suo capolavoro, e i numerosi convegni fioriti attorno alla sua tomba.
Eppure quest’aspetto rapace e parassitario del critico finisce per essere una solenne garanzia per il poeta. Si tratta di una sottile dialettica hegeliana tra padrone e servo; di una sorta di resistenza non violenta, per cui l’opera valida, sottoposta al vaglio del tempo, attraverso gli artigli e i morsi di codesti sciacalli smembra cadaveri, finirà per ridursi a smagliante e sano scheletro essenziale, illuminando di sé la letteratura a venire.
La poesia non può, non deve essere compresa ed accettata subito; per il semplice fatto che innova la sensibilità corrente, rompe gli usuali schemi espressivi, mina l’aspettativa del lettore, deraglia il già tracciato, e dunque sbalordisce, indigna, reca scetticismo e fastidio in chi la legge: guai se non lo facesse.
Un nuovo, autentico poeta, questo lo sente vero, ancor prima di accettarlo e di capirlo; altrimenti non si porrebbe neppure dinanzi alla carta bianca nel tentativo di fermare ancora una volta gli assurdi del destino umano. Un nuovo poeta deve fare i conti con millenni di sensibilità già organizzata e ferma nei testi dei suoi infiniti predecessori: un’impresa davvero fatale e gigantesca. Eppure, se poesia c’è in lui, ancora una volta si compie il miracolo, e quei moti dello spirito, tramite questo miracolo, penetrano nel lettore come nuovi, suscitando in lui echi affatto sconosciuti.
E non si può negare che Biagio Cepollaro, con questo suo: «Le parole di Eliodora», abbia trovato una sua cifra originale per farcela, per ripetere questo inesplicabile miracolo.
Già la forma degli accapo, il taglio dei versi, la metrica, l’asciuttezza dei componimenti, pervasi tutti da una «laconicità socratica», in Cepollaro, che si è laureato con una tesi su Nietzsche, recano nel lettore un progetto di poesia essenziale e di lunga durata. In lui per davvero il risplendente scheletro del discorso, spolpato di tutte le parole superflue e ridondanti, illustrative e «poetiche», si staglia nitido e cruciale.
Cepollaro procede per eliminazione, sfrondando con mano ferma e impietosa ogni mezza misura e via traversa, per giungere a impietosi flash dal significato ambiguo e polivalente; come si addice e s’impone alla poesia. Apparentemente soltanto albero spoglio, il discorso poetico di Cepollaro, in questo modo prorompe più urgente e imperioso, proprio a cagione di una linfa invernale che scorre assai più lentamente sotto la scorza e nell’interno d’un tronco duro, chiuso, ma pronto a rinverdire ad ogni istante, ad ogni brezza di primavera dovuta a una lettura attenta.
Carica di responsabilità, sfrondata spesso di articoli e di preposizioni, nuda d’interpunzioni, divaricata tramite parentesi, puntellata da citazioni, la poesia di Cepollaro ha inoltre una sua indelebile marca sensuale; un po’ per la veste polita e liscia, d’accordo, ma anche per le immagini che usa, e per la rattratta carica dei suoi significati, sempre pronti a scattare come un congegno a molla.
Si leggano, ad esemplificare ciò che s’è detto, alcuni versi, estrapolati qua e là dalla raccolta:
chiuso lo sportello
(ultimi i capelli a sparire)
eliodora fece larghe
le strade (…)
oppure:
eliodora aveva calde
le ascelle
(riposavo le spalle
alla sua ombra
anche l’alfa girava più
leggera
tagliavo le curve, era
con i fari e la luna
e ancora:
così pieno e solo il pergolato
(al tavolo
del bar nello sguardo)
il tuo
ombelico che sussulta
(…)
Si tratta insomma d’una visionarietà tattile e che gronda attese; che nella penuria di descrizioni, evoca assenze ben più gonfie di qualsiasi possibile raccontare. Mentre la biografia del poeta, segreta e pudica dietro alla carapace delle metafore metalliche, dona al lettore avido di sapere, solo un caleidoscopio di riferimenti smozzicati e pervasi da un’arguzia e da un’ironia, che fa della poesia di Cepollaro una creatura indubbiamente votata allo sgambetto e alla irrisione.
«Meccanismo inceppato» comincia uno dei componimenti più equilibrati di Cepollaro, e non c’è dubbio che se di questa poesia arida, che trasuda vapori di zolfo e sentori d’un chiuso carnale, si dovesse dare una definizione, non ne troveremmo una altrettanto adatta: «inceppato», in quanto Cepollaro, nel procedere, trova sempre l’abile maniera di frenare l’urgente che vorrebbe imporsi, attraverso il facile; ringoiandoselo, al fine di licenziare solo la pura e nuda espressività priva di frange.
Articoli correlati: