Roberto Mussapi: nel mio “Resurrexi” ho descritto la speranza dell’umanità

 

 

Resurrexi, la Resurrezione. Un tema, un fatto della storia degli uomini, difficile da rendere concreto, come hai inteso farlo?

Con uno scambio di voci tra i due regni, quello ultraterreno, dopo la Resurrezione, e quello mondano, che la precede, la vede avvenire, la ricorda, ne è trasformato. Poiché mi è disponibile solo la lingua umana, ho dato voce anche a chi ha parlato (e in modo memorabile, con la predicazione e le parabole, e la continua sfida e l’incessante promessa) questa nostra lingua umana, come Cristo, che ne parlava e ne era parlato dall’altra. E anche agli angeli ho dato parole e lingua umana: con queste si rivolgono a noi, non solo parlando, ma con la presenza nelle sue infinite manifestazioni di lingua assoluta e medianica.
In fondo Cristo ha parlato agli analfabeti e ai sapienti, si è immerso nella lingua del mondo e del suo tempo, anche se la sua favella non si esaudiva in essa. E gli angeli sono per definizione traduttori: portano a noi parole celestiali, e visioni e concetti superni, ma appunto traducendo per noi. Immagino facciano lo stesso verso l’alto. Non sarebbe necessario, ma immagino che la generosità divina voglia anche questo, se lo conceda come un ulteriore atto d’amore per noi sublunari, terrestri.

 

Ci sono dei testimoni concreti (quelli di Emmaus, la Maddalena del “Noli me tangere”), ma l’ambiente che traspira dai versi è di autocoscienza, di ricordo e consapevolezza. In questo la tensione a Dante che evidentemente contamina la sua ispirazione e i suoi versi conta?

La lezione di Dante, insuperabile, ovviamente, anzi, irraggiungibile, è, come lei giustamente osserva, il cuore di tutto. Ma non è un male, per me, porsi modelli irraggiungibili. Non si tratta di conseguirne la pienezza, ma di accostarsi alla loro aura, entrare in quel disegno anche linguistico, oltre che di slancio spirituale.
I testimoni umani, quelli di Emmaus e Maddalena, sono i miei simili, i lettori, i miei fratelli. Solo attraverso di loro posso salire alla lingua di Cristo, che essi compresero. Sono testimoni, cioè colleghi del poeta. Più innocenti, più fortunati, forse, perché più storicamente vicini all’evento. Ma la loro esperienza insegna che non esiste distanza, in questo evento. Anche il poeta può approssimarsi, anche il lettore può compiere il viaggio con lui.

 

Non si può non riandare a Peguy. In certi passi lei fa riflettere, come lo scrittore francese nei suoi Misteri, addirittura Gesù stesso, o il Padre. Entra cioè nel profondo. Un rischio altissimo ma con versi che sono sorprendentemente molto sicuri, bellissimi e in lingua quotidiana, non alta ed ermetica. Cosa pensa?

È vero, lingua quotidiana, poiché questa realtà, della resurrezione, o si svolge qui e ora, ora e sempre, da allora, o non sarebbe. Per questo credo che la mia versificazione, e più ancora la scelta linguistica sia semplice e diretta, ma non ermetica solo se attribuiamo all’aggettivo “ermetico” un significato riduttivo, equivalente a “esoterico”. Se invece prendiamo l’aggettivo “ermetico” alla lettera, ecco che la parola quotidiana custodisce, e il poeta la può svelare, una realtà profonda e complessa, della stessa stoffa del mistero.
Io faccio parlare Gesù, che storicamente e non solo, parlò eccome. La lingua del Padre è per me, secondo l’irraggiungibile lezione di Dante, ineffabile e impronunciabile all’uomo. Per questo, nel mio oratorio, non parla, se non con il suo disegno perfetto. E gioioso, alla fine, per noi, come lo era per lui al principio.

 

In un passo fa dire a Gesù «l’unico momento in cui ho temuto che ti staccassi per un momento non è stata la morte ma quando o visto mia madre e ho pensato che potesse rimanere sola per un momento». Cos’è la speranza, dentro la storia?

Ho immaginato Gesù disperarsi di fronte agli occhi di sua madre, nel Calvario. Era uomo fino in fondo, lo è stato. La disperazione è la paura – fondata, come la storia insegna – di essere soli. Il superamento della disperazione è la scoperta che non lo siamo. Per questo chi la pronuncia, oltre al viandante di Emmaus, e con più forza, è Maddalena, colei che si sentiva l’ultima.
E una volta tanto un proverbio è saggio: “la speranza è l’ultima a morire”.
Anzi, aggiungerei, è quella che non fa morire, e vince la morte stessa.

 

(pubblicato su Il Sussidiario)

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