Gianni D’Elia: ‘Bassa Stagione’

 

 

 

 

Bassa Stagione

Gianni D’Elia

2003, 120 p., brossura

Editore Einaudi (collana Collezione di poesia)

 

 

Non è un libro scritto e pubblicato per passare inosservato quest’ultimo titolo di Gianni D’Elia: il piacere e la persuasione che hanno accompagnato la mia lettura di questi nuovi testi del poeta pesarese mi inducono a trascrivere alcune osservazioni intorno a un libro che non saranno certo i circa dodici mesi di vita nelle librerie a diminuire di attualità e freschezza. Bassa stagione, infatti, è un libro ‘forte’ e compatto, stretto intorno a una necessità espressiva che fa leva sull’etica e sulle convinzioni politiche, senza calpestare le dichiarazioni d’amore e una splendida capacità di dipingere paesaggi d’azzurro di rara evidenza; già in questo risiede la virtù propria della poesia di D’Elia, che sa scorrere i piani del privato e del sociale, del concreto e dell’ideale, del lirico e del prosastico, senza mai costringere il lettore a sobbalzi o scarti imprevisti e sgradevoli.

Sbaglia chi pensa (come qualcuno dei primi e di me più tempestivi o frettolosi dei recensori di questo volume) di poter distinguere (crocianamente!) zone lirico-sentimentali di prima grandezza – alle quali si accede per la dedica in versi alla «fragile e forte, Anna» e fra le quali si abita se si cede alle lusinghe cantabili dei meravigliosi squarci medio-adriatici – e cadute di tono nei versi espressamente politici, tacciabili, chissà, di poca poesia e troppa oratoria. È un fatto, ed è un fatto terribile, che da Carducci in poi chiunque abbia scritto poesia politica, soprattutto nel paese di Dante, ha ottenuto invariabilmente di far arricciare il naso e storcere le labbra in giudizi che coprono la gamma che va dall’ipocrisia alla mancanza di talento: è toccato al Quasimodo ‘convertito’ di Giorno dopo giorno (che avrebbe voluto divenire un cantore sociale e, invece, riuscì solo a perdere i suoi ultimi lettori ermetici e il credito presso gli storici della letteratura di qualunque orientamento), è successo poi anche a Pasolini e a Volponi, i più vicini, cronologicamente, geograficamente, idealmente e metricamente a Gianni D’Elia. Da allora la maggior parte dei poeti di buon senso ha tagliato il cordone ombelicale che nutre da sempre la poesia di ogni tradizione linguistica e ha messo al bando, quasi contemporaneamente, l’amore e la politica: tanto che, non avendo molto altro da scrivere, ha fatto poesia di poesia, poesia al quadrato (i migliori; ché gli altri si son dovuti accontentare di fare, piuttosto, la radice quadrata della poesia).

Ecco perché, invece, un libro raramente ben scritto come quello di D’Elia va custodito come uno dei prodotti più alti dell’editoria di poesia degli ultimi anni, proprio per il coraggio di riprendere a scrivere poesia d’amore e di politica con un tono asciutto e sicuro, distante dalla verbosità (mirabile e fascinosa, ma, quella sì, un po’ anacronistica) di Neruda e dalla criptolalia dei Novissimi. A dare compattezza e giustezza al libro è la strutturazione in ottantadue brevi capitoli in terzine di endecasillabi (sostanzialmente riconoscibili come tali, visto che molti di essi sono metricamente esatti e per i rimanenti s’invoca il principio di isocronia): i versi sono rimati, assonanzati e consonanti con una varietà di soluzioni che dona una musicalità di ottimo dosaggio nelle corrispondenze sonore degli echi e nella successione degli ictus.

Proprio la tecnica ritmica, già sperimentata con abilità nel precedente suo volume einaudiano, Sulla riva dell’epoca (2000), richiama i due maestri del Novecento certamente cari a D’Elia: il Pasolini almeno delle Ceneri di Gramsci e di Poesia in forma di rosa (per il ricorso alla terzina) e il conterraneo Volponi, soprattutto il primo e l’ultimo, cioè prima e dopo l’ossessione dello sperimentalismo monorimico. La tradizione dantesca e pasoliniana della terzina consente a D’Elia di disporre di un metro molto agevolmente modellabile intorno a oggetti che richiedono estensioni diverse, ben più di quanto non consenta di fare, che so, l’ottava, più costrittiva anche in ordine alla corrispondenza fra il giro sintattico e l’unità o la sottounità strofica. La terzina di D’Elia, invece, è una cellula agile e sapida, moltiplicabile a piacimento e secondo una necessità espressiva che non è mai ossequiosa della decorazione, ma è funzionale alla comunicazione di un ragionamento.

La sua scrittura lirica ha l’asciuttezza e la fermezza dantesca che ben si addicono a chi scriva «nel mezzo del cammin di sua vita» (è il libro dei cinquant’anni dell’autore, non va tralasciato questo dato biografico) e, dunque, stende un bilancio delle tensioni ideali giovanili e della mediocrità del tempo storico corrente: ed è da questo innesto fra la biografia personale e la polemica civile che scaturisce l’immagine cardine che dà il titolo e torna come fil rouge in numerosi capitoli lirici. Contribuendo a dare organicità timbrica ed equilibrio tematico alla raccolta, la bassa stagione è, per l’appunto, quella reale di fine agosto-settembre 1999, che si riverbera nelle belle atmosfere di altre stagioni e di altri anni, tutte, però, connotate da luci azzurre intense, improvvisamente corrucciate da annuvolamenti e rovesciamenti piovosi che bagnano uno spazio per lo più deserto, giacché l’uomo è costretto a scandire il suo bisogno di riposo secondo i ritmi sociali del lavoro e del consumo, che strangolano la sua vita in una eteronomia mortale. E infatti la morte, quella vera, piomba emblematicamente di domenica sulle autostrade, un 29 agosto: «[…] tutto mi pare senza senso, // la pioggia, le squame lucide dei tetti, / […] le code autostradali, le persone / morte negli incidenti del rientro / dalle vacanze di massa; è questa sì, / mi dico, la vita data a noi come una tassa / da pagare ogni secondo […]» (XIV); ancora più chiaro il riferimento alla reificazione della vita in un capitolo successivo: «Settembre ha spazzato le automobili /in doppia fila lungo l’Adriatica: / il rito di stagione brucia breve, // scandito dalla vita delle merci; / la gente riempie di nuovo le città, / come prima le spiagge, le montagne; // pochi bagnanti sparsi Sottomonte, / un mare d’olio contro le scogliere / riaccese dai pastelli del tramonto».

Si tratta delle prime tre terzine del capitolo XVII, uno dei più scopertamente politici, giacché il realismo lirico ed elegante di questo incipit esita nella riflessione intorno a un’altra «stagione» chiusa in fretta, quella di un’«ideologia» trasformata in un «castello di bugie, incubo fondo» che «negava proprio il vivo / individuo singolare, contro Marx, il suo sogno». Ecco allora il poeta fare della scrittura «la brace calda» con cui riaccendere «un’altra storia», un altro sogno di democrazia e di giustizia che liberi l’uomo dalle opposte tirannie del capitale e del partito. L’amore è ciò che consente a D’Elia di escludere dal suo orizzonte la «nostalgia», il lamento, l’impossibile laudatio temporis acti, poiché «la custodia d’Amore»(XXVII) ridona senso alla passione per gli ultimi e alla contestazione del potere, facendo, come voleva Majakovskij, anche della poesia un’azione costruttiva: «e forse scrivere non è la stessa / vita adempiuta, amore mio, lavoro?…» (XXVIII).

La bassa stagione è quella in cui si chiede al poeta una testimonianza sull’«Itaglia dei processi-farsa» (VII), «[…] è il tempo dei corti berluscones, / dei padani razzisti, fasci cloni, / di faccette bambocce alla Tremonti» (LXXXI), di una «sinistra» prigioniera delle lusinghe del potere (XXXII), della «gioventù deserta», il cui disordine etico-ideologico produce mostruose commistioni di «nazismo e trasgressione» (XXV). Ma è anche il tempo della pietà per coloro che sono stati stritolati dal cinismo e dall’incomprensione altrui, o da inconfessabili sensi di colpa, bloccati nel corso della propria espiazione: ed è il sentimento espresso in una delle liriche più struggenti e intense del libro, quella dedicata al «giovane principe borghese», il «gentile Edoardo Agnelli», volato il 15 novembre 2000 da un ponte sul fiume Stura «nella ricerca dello spirito e dell’essenza» (LXIII). La lirica di Gianni D’Elia è, a tratti, una dolcissima nenia funebre, nella quale le lacrime sono sostituite dalle gocce di una pioggia ricorrente, battente, giunta a dilavare le colpe della città dell’uomo e a mutare il lamento nel canto degli elementi naturali, figurando nel suo movimento la speranza nel «possibile»: «Ma quel suono di xilo sulle stecche, / come di martelletti sulla scala / minore, quel tic tic sventagliato che non smette… // E fino a tarda notte il gocciolio, / dalle gronde sfondate, sulle strade / ricade, fuso al rombo del mare natio…».

(di Daniele Maria Pegorari, pubblicato su Incroci)

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