Per Fabio Franzin e i suoi operai

 

Non ho avuto un padre operaio. Mio padre, i miei zii, quasi tutti gli abitanti del mio paese, erano braccianti agricoli: termine palese, per dire delle braccia e di ciò che è loro richiesto.
Così la mia infanzia e la mia adolescenza sono state costellate dalla ricorrenza di un lavoro che si trovava ai tempi del raccolto e della semina, quando i padroni, piccoli o grandi, spesso si rivolgevano alla piazza piuttosto che agli uffici di collocamento.
I ragazzi che “non volevano” la scuola andavano a bottega, assai spesso si facevano garzoni per imparare la dura arte del muratore e del meccanico. Già da piccoli, appena prima o appena dopo la terza media.
Poi c’era la strada del profondo Nord, la piccola e scomoda carriera militare, la malinconia e la reverie dei treni, l’invidia per chi se ne andava, per chi era riuscito a tracciarsi l’idea di un possibile futuro.
Nello sfondo del paese: la parrocchia e il circolo degli operai, la malinconia di chi restava col sentimento dell’inutilità, e la caparbietà di chi proseguiva e si anneriva con dignità nelle campagne, o con rassegnazione, sulle panchine della piazza, a montare e smontare motorini, a esibire piccole e grandi libertà, piccole e grandi idee di una rivoluzione impossibile e idealizzata.
Gli operai erano lontani, a Gela, ad Augusta, alla Sincat. Quelli erano i privilegiati, possessori di posti fissi ottenuti chissà come, tolti alla campagna e perfino all’handicap mentale della pastorizia e del piccolo crimine. E infine l’aspirazione a un posto fisso, negli uffici pubblici: un sogno al quale si poteva accedere solo attraverso una raccomandazione. Le raccomandazioni c’erano veramente, e palesi, altro che frottole!
Non ho respirato, da ragazzo, l’odore delle grandi lotte sociali. Le lotte operaie c’erano già state, ad Avola; i braccianti avevano alzato la voce, avevano preso le botte. E poi si diceva che i comunisti adocchiassero gli adolescenti, si diceva che li strumentalizzassero. I tazzibbau al circolo degli operai li ho preparati anch’io, in un breve periodo della mia vita da adolescente, un anno in cui la ricerca di un pensiero proprio venne scambiato per inutile idealismo. “Ma chi te lo fa fare, lascia perdere, pensa alla tua vita! Non farti nemici. Prima o poi avrai bisogno anche tu…”
Seguì la fuga nel profondo Nord, più immaginato che reale. Lasciavo un luogo che non è cambiato: il circolo del partito comunista simile a un ritrovo di vecchietti; la parrocchia; discorsi impegnati sulle panchine della piazza, voglia di fuga, strazio adolescenziale.
Gli operai erano ad Augusta, a Priolo, a Gela. Non li vedevamo. Li leggevamo sui giornali, soprattutto quando scoppiava qualche cisterna e i fumi arrivavano a Siracusa, e si diceva di malattie, di metamorfosi del corpo. Noi sapevamo, piuttosto, della fatica della campagna, del sole che bruciava la schiena, della vergogna di non sentirsi all’altezza delle donne che entravano nelle serre a quaranta gradi e ne uscivano come madonne straziate da un calvario, nere come carbone. Questo dolore, questo peso della vita, questa grande dignità, me li ricordo. Sono valori che ho avuto la fortuna di respirare. Ero studente con le mani nella terra – un rapporto che ho sempre mantenuto ancora ora – il dolore di sentirsi fuori dal tempo circolare delle stagioni, di abitare una consapevolezza lontana e crudele, lontana dalla Comunità.
Gli operai sono sempre rimasti in un orizzonte culturale, piuttosto che nella vicinanza del capire.
Dico questo per un fatto molto semplice:
per parlare del dolore bisogna aver provato dolore
per parlare della lotta bisogna aver lottato
per parlare della rabbia bisogna essere stati arrabbiati
per parlare degli operai bisogna essere o essere stati operai.
Io non potrei. Non mi permetterei.
L’operaio poeta Fabio Franzin, operaio per necessità di sopravvivenza, parla da dentro per testimonianza, ma anche per necessità. Lui lo può fare, i poeti che fanno la cronaca no. Per questa necessità le sue parole trovano un ritmo naturale, una cadenza che non ha niente di manieristico e che ci fa ascoltare il racconto, ci fa vedere le immagini degli interni; al principio con una forte connotazione sinestetica, poi col cipiglio della polemica, necessaria polemica, e della sconfitta.
Chi è passato a Sesto Marelli, tutte le mattine, per anni, e ha assistito allo smantellamento delle grandi acciaierie, fino alla creazione dei centri commerciali della modernità e dei casermoni lussuosi per ricchi, forse ha provato, come me, l’impressione di un cambiamento epocale, di senso delle cose. Noi non possiamo veramente sapere, noi che abbiamo assistito senza conoscere. Noi possiamo, però, e dobbiamo, ascoltare chi ha buttato sudore dentro quegli spazi, chi, per sopravvivere agli ingranaggi, ha dovuto usare la forza dell’arte per raccontare e raccontarsi. Io posso dire dell’angoscia di andare a prendere qualcuno a mezzanotte, imprigionato in un magazzino a incassettare verdure; dei miei studi interrotti per senso di colpa e debolezza, di un mondo perduto per sempre, già a 25 anni, e ancora perduto, doloroso, che affiora ogni tanto dalle macerie di ciò che non abbiamo potuto realizzare fino in fondo e che mai splende limpido, se non in qualche ricordo dell’infanzia dove i grandi non potevano entrare.
Non conosco, non ho conosciuto gli operai. I contadini sì, la loro pesantezza, la loro testa diversa dalla mia. Ma forse, contadini e operai sono stati accomunati dallo stesso destino della scomparsa di un mondo, certo crudele, ma forse ancora vivo, fatto di cose che si devono fare e dire per necessità, una necessità che accomuna chi scrive e chi legge, chi parla e chi ascolta, chi subisce contro chi ferisce. Mangiare un pezzo di pane e un’insalata appena strappata alla terra, dopo la fatica, in cerchio: questo sì che me lo ricordo bene.

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Sebastiano Aglieco
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2 Comments

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  • Dico questo per un fatto molto semplice:
    per parlare del dolore bisogna aver provato dolore
    per parlare della lotta bisogna aver lottato
    per parlare della rabbia bisogna essere stati arrabbiati
    per parlare degli operai bisogna essere o essere stati operai.
    Io non potrei. Non mi permetterei.
    L’operaio poeta Fabio Franzin, operaio per necessità di sopravvivenza, parla da dentro per testimonianza, ma anche per necessità. Lui lo può fare, i poeti che fanno la cronaca no.
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    E invece su questo punto,su cui poi è costruito tutto il resto, dissento,perché lo trovo settario, lo trovo barricante, lo trovo clientelare alla pari di quelle altre scritture che si criticano.
    La parola è un bene di tutti, ed è un campo in cui non ci sono padroni, come non ci sono padroni nei territori della mente, coltivabile o avvelenabile.
    La parola è una casa che ospita alla pari del silenzio.Trovo che non è da questo punto che si deve guardare per costruire insieme un percorso tra le tante difficoltà fino ad oggi patite. So benissimo cosa significhi lavoro, distacco,distanza, emigrazione, perdita addirittura di quella lingua,il dialetto, che prima mi metteva  lo stesso colore del sangue addosso e di cui non faccio uso per rispetto, di tutti coloro che mi hanno spinto a studiare, a fare, per tornare a portare qualcosa anche da loro,fosse solo un rigo di bene da tenere nella tasca, un peso senza aggravio.
    Dunque un percorso di apertura,non un cancello, maestranze lo si è tutti nella vita e anche nella parola, senza trovare re-leganti situazioni.
    fernanda f.

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