Parola ai Poeti: Giuseppe Zanecchia


Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?

Nei rari casi in cui i poeti sono la loro poesia, lo stato di salute è buono, anche se il riconoscimento sociale è zero relativo.


Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto? Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?

Il primo libro l’ho pubblicato con la Biblioteca Internazionale di Roma nel 1970 e il titolo ‘Gli altipiani dei sogni’; era la materia prima di ciò chestavo sognando. Ma gli anni ’70 purtroppo furono una lunga lotta utopica fallita perché avevamo ancora il tallone statunitense sul petto, e dopo Moro questo popolo si è risvegliato suddito, perché tacquero anche i cani in quel 1978. Da allora la verità ci lasciò e ancora non torna, tenuta a bada dal segreto di Stato su tutte le stragi.
Pubblicai nel 1979 ‘ I giorni fuori le mura’ – Edicoop – dichiarando il dolore di un sentimento di estraneità a ciò che mi circondava. Tacqui ferito nel dolore tutto il degrado degli anni ’80, l’illusione paranoica, il tonfo logico d’un volo folle. E nel 1993 pubblicai  ‘Gli occhi sulla neve’ che rappresentava un dolore sociale congelato dall’indifferenza del potere. Nel 2000 pubblicai ‘Ai piedi delle origini’ , edizioni – di Nicolò – in cui tentai di capire da quale cielo mi era arrivava, dopo gli occhi adolescenti di mia figlia, una diversa visione del mondo. Nel 2001 licenziai il progetto più stimolante e maturo forse:  ’Finalmente incerti’, edito dalla Franco Angeli, in cui seguendo un poco l’idea del presente questionario parlarono valenti professori universitari e di liceo, di lettere e di lingue, psichiatri, magistrati, psicologi, psicanalisti, sul ruolo sociale e sulla risonanza interiore che loro avvertivano nei riguardi della poesia. E fu davvero un bel progetto, realizzato con il prof. Matteo Loredano Lorenzetti,  che ne ebbe quasi tutto il merito, e fu un buon successo editoriale, e fu anche premiato. Nel 2007 per le edizioni ETS pubblicai ‘Come fosse niente’ in cui si snocciolano le perdite e le ferite del tempo, delle relazioni umane, ma pur sempre all’interno della mia visione del mondo più profonda: la fiducia nel futuro anche quando tutto sembra senza speranza. Da allora mi taccio pur avendo due raccolte pronte per essere licenziate.
Ho avvertito profondamente che in questi ultimi anni le parole sono state oltraggiate, tutte, e le uso poco ormai, per me e pochi altri sopravvissuti allo sterminio del senso, del significato, del riscontro esistenziale, lontani dalla tragedia della teoria che non si fa comportamento, azione, testimonianza.


Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?

Dagli editori mi aspetto inutilmente il coraggio di pubblicare ciò in cui credono, l’opera che li convince. Ma ciò è ormai rarissimo.


La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?

Il luogo della poesia è la carta, l’odore, la relazione fisica, la storia del rapporto col foglio per poi alzare lo sguardo. La macchina su schermo bianco è funzionale, comodissima, ma sta solo sugli occhi e non sui sensi e sul cuore come la carta.


Pensi che attorno alla poesia – e all’arte in genere – si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?

I critici si sono ritagliati un ruolo di censori, e spesso, non so se inconsapevolmente, coi loro giudizi fanno mercato, e quindi non mi riguardano. Ritengo dovrebbe essere altro il respiro della critica. La poesia inoltre è un mistero che raramente si afferra con una spiegazione, seppur dotta. Le comunità su internet debbono ancora dimostrare tante cose, a volte mi ricordano quelli del 27 garantito che è passata come cosa di sinistra, mentre era cosa di gioventù educata male.


Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?

Il dramma è quando si crede di poter scardinare tutto, senza conoscere il canone. E’ sempre stato  caratteristico della genialità scardinare il canone, ma ha senso solo da parte di chi lo padroneggia e lo supera, se lo supera.


In un paese come il nostro che ruolo dovrebbe avere un Ministro della Cultura? Quali sono, a tuo avviso, i modi che andrebbero adottati per promuovere la buona Letteratura e, in particolare, la buona poesia?

E’ semplice: l’esatto contrario del ruolo che viene svolto oggi. In un Paese come il nostro che non ha conosciuto l’illuminismo la poesia in particolare è stata sempre negletta perché non rappresenta un valore economico quantificabile, l’unico apprezzato e valorizzato. Quando poi trattasi di bene culturale a livello istituzionale, le cose si complicano di più. Un esempio: la sorte del nostro Istituto centrale del Restauro, il migliore del mondo e presso il qualevenivano da tutto il mondo a studiare. E’ stato sfrattato perché non non c’erano i soldi per pagare l’affitto, in un Paese con 120 miliardi di evasione fiscale. Non proseguo il pensiero per rispetto di me stesso.


Quali sono i fattori che più influiscono – positivamente e negativamente – sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?

Questa domanda mi ricorda quando Neruda recitava le sue poesie aiminatori delle miniere di rame. Una atto splendido. La poesia arriva dove non c’è mediocrità d’animo.


Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?

Alla gente interessano solo i comportamenti del Papa, dei calciatori, dei politici, dei datori di lavoro, e dei loro familiari, in generale. Il poeta se famoso, poiché indipendente e autonomo nei giudizi, può essere facilmente offeso, profondamenteschernito, come toccò al grande Mario Luzi quando fu fatto senatore, da parte di una triste figura politica. Dovrebbe, a mio modo di vedere, avere un comportamento al di sopra delle finestre del quotidiano per testimoniare che si può guardare oltre e capire meglio il mondo guardando il nostro interno, nella consapevolezza che quel che vediamo fuori è ciò che abbiamo dentro.


Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintilla e come la tieni accesa?

Ci vuole l’ispirazione e sperare che sia così profonda da entrare dentro tutti i meandri del sogno e della visione, dell’utopia che con disciplina diventa progetto.


Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?

L’emozione è l’unica cultura che ri-conosco.


Cosa pensano della poesia le persone che ami?

Tutto il bene possibile.


Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?

Scrivevo poesia anche nei bagni dell’ospedale dove lavoravo negli anni ’70, da giovane. Sono stato un sociologo nella sanità pubblica, quindi è come dire un prete dentro una moschea di fondamentalisti. Ho conosciuto meglio anche il mio Paese tra punte di bisturi perfetti e ascensori d’urgenze che non funzionavano a quel tempo.


Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?

Il mondo ha preso una piega commerciale a tutti i livelli, ma ho ugualmente speranza. Quel che manca ai poeti sono luoghi d’incontro abituali e per tutti, ma di più mancala stessa considerazione che viene loro tributata in Asia minore e in oriente in generale, dalla società civile.

 

 


 

Giuseppe Zanecchia, detto Giuseppe Aldo Zanecchia è nato a Roma il 27 luglio 1945, dove vive ed opera. Sposato con una figlia. E’ sociologo e poeta. Si è sempre occupato di problemi sociali in particolar modo del mondo del lavoro dove ha prestato la sua opera per 37 anni nella sanità pubblica.
Ha collaborato alle riviste “Psicologia lavoro e società”, “Educazione scuola”, e ha pubblicato con “Agenzia ISSOS”,  “Com Nuovi Tempi”e “La perdonanza”.
Ha pubblicato le seguenti raccolte di versi: Gli altipiani dei sogni,  Biblioteca Internazionale, Roma, 1970 ; I Giorni fuori le mura,  Edicoop, Roma, 1979; Gli occhi sulla neve,  Il Ventaglio, Roma, 1992; Ai piedi delle origini,  di Niccolò, Messina, 1999; Finalmente incerti,  Franco Angeli, Milano, 2000; Come fosse niente,  Edizioni ETS, Pisa, 2007

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