Fabio Pedone: Lettera sulle Api


Fabio Pedone, 19 novembre 2007:

Caro Andrea,

Perché al telefono ti ho detto che le Api mi avevano ‘sconvolto’? Il verbo può essere troppo forte, ma riguardo alla mia sensazione penso di non sbagliarmi. Da quando ho avuto, con i ritardi che sai, il libro cartaceo, ho iniziato subito a sentirmi soverchiato dalla sua struttura, dagli echi che lo tramano e che si rispondono da un capo all’altro delle pagine. Ma ne avevo (ne ho, adesso, seppur addomesticato da queste minime costruzioni di pensiero che sto facendo) un senso di sconcerto, alienità: l’impressione di essere davanti ad un oggetto allo stesso tempo nuovo e antichissimo. Alla radice vi si può sentire quella vocazione didascalica della poesia che trova il suo culmine in Lucrezio e proviene da tempi in cui il poeta era sia sofòs sia scienziato, in cui indistinguibili, perché unica la vita, erano i campi del sapere, del pensiero, della religione. Vi si sente una riflessione sull’età della tecnica e sul ruolo degli individui nella macchina fallata della società. Avverto la severità della dizione dell’epos, che tu espliciti a livello cosciente non solo nel ritmo ‘calcato’ delle traduzioni da Lucano, ma anche nella tua sintassi. Ma sento anche una delicatezza di canto sommesso che si scioglie a volte nella melopea astratta. Perciò credo che il libro sia ambiziosissimo: perché è aperto a ventaglio con estrema sprezzatura, e non incagliato in uno stile (anche se assai dissimile, per quanto mi sembra, da quel poco di te che conosco di precedente); è assolutamente impensabile un’idea del genere anche per chi non sia estraneo a vari discorsi d’avanguardia, postmodernità eccetera.

Forse non ho resistito alla tentazione di leggere le Api, secondo una volta disse Brodskij, come un concerto romantico, con i suoi tempi, duetti obbligati, pause soliste e riprese di temi. L’incipit è grandioso e terribile, un’ouverture in maggiore, di timpani e archi, perfino troppo insistente: con quel terremoto vulcanico che sbatte in faccia al lettore l’elemento terra e la continua mutazione dei significanti. È un libro di elementi e fenomeni, le Api: dalla terra all’aria. Qualcuno potrebbe superficialmente liquidare il libro sotto il marchio ‘concept’, ma quello che io trovo davvero imprevedibile è il trattamento che hai fatto del tema. Se uno intende il concept come un’evoluzione dissacrata dell’allegoria, bisogna però dire che questa allegoria delle Api è in qualche modo esplosa, impazzita, perché è facile interrelarla ad un senso preciso (destino del mondo, dell’umanità) ma non si può nemmeno sottrarla ad altri sensi. Non ‘costruisce’ a priori, ma aggrega frammenti senza chiamarsi fuori dalla crisi (e qui è la sua necessaria adesione alla modernità).

L’inizio precisa subito il discorso sull’origine: se intendo bene, è il ‘non sapere dell’origine’ che perverte verso la mutazione mortale. In questo senso l’autentica feritoia da cui osservare tutta la costruzione delle Api mi pare proprio il dialogo con Lucano e quel verso villiano che allude al ‘puro generare’: dunque una discesa in un prima, un un ambiente infero-misterico che offrirà forse una rivelazione. Mi sembra significativo che tu abbia scelto proprio Lucano per un discorso sulla violenza storica: è il poeta latino che con barocca e scientifica consapevolezza ha gettato uno sguardo disilluso su storia, gloria e ideali. Ma è anche quello che ha coniato esametri di bronzo (per dirla con il pomposo Huysmans) con un sonoro e terribile passo epico (che si intuisce nel tuo verso lungo). Ed è, come uomo, una vittima di certe mutazioni del potere e della storia.

I due poli tra cui oscilla questo ‘concerto’ ideale mi sembrano un’Angst molto marcata in senso immaginale (“Saremo un solo incubo, uno strazio”, “Timpano trafitto, sangue che prilla. Incide, stride”) e una tenerezza musicale, che trovo virtuosamente caproniana (“Sei vicino. Fina. / Vieni. / Mia stellina”). Cosa mi affascina di più? Certi affondi severi e potenti: “Finirà per fame, per pena, per male, per noia, per niente” (se si potesse portare in giro la propria lapide da vivi, la mia sarebbe questa). O composizioni atonali come quella a pag. 59 (“Sentito, voluto”). E certi manifesti straordinari: “Non essere più io né noi ma pura massa; non forma ma materia, / sì, mucchio di pietre” o ancora “Non è l’amore individuale / il contrario della violenza collettiva, non la annulla; /non l’assenza di violenza / atto d’amore”. Da cosa mi sento lontano? Sicuramente da certi connettivi ‘filmici’ che servono alla fabula, ma mi lasciano freddo (non che con la poesia ci si debba fare il fuoco, eh): “si aprono a ventaglio sulla rosa a raggi sei: / 1) prodotti per la casa 2) lavatrici 3) libri e quotidiani” .

Sul piano dei procedimenti mi sono trovato subito convinto in alcuni casi, e dove ero meno convinto ci ha pensato il testo a stabilire la propria necessità. È molto bella, e molto arrischiata, la germinazione/geminazione sonora che inaugura il libro e che si propaga per tutte le sue parti in diverso modo. È una tecnica che raggiunge l’estremismo magari di un Hopkins (penso, è un esempio a caso, a The Golden Echo: “sweet looks, loose locks, long locks, lovelocks, gaygear, going gallant, girlgrace”) ma crea un doppio choc sul lettore, psicologico e cognitivo. Psicologico perché costringe a pensare alla mutazione come effetto di lingua, in cui la lingua si fa carico del male e si parla, o sé parla, diffratta. Cognitivo perché vi sono diverse tecniche che rendono il brusio (dello sciame, del mondo, della storia: come i puntini) e tagliano il normale flusso sintattico e logico (il ron-ron endecasillabico) aprendo intersezioni e faglie quasi cubiste, grazie a effetti di sincopato o a particolari dislocazioni, e sconcordanze, delle parole. Gli inciampi obliqui creano una sorpresa continua grazie al filo continuamente spezzato del discorso (penso non tanto a Porta, ma al primo Giuliani o a Zanzotto). Ora, identificato (almeno per me) il centro propagatore del libro con il dittico ‘Favola delle api’ – ‘Dialogo con Lucano’, e con la necessità di risolvere la rottura fra l'”urlo della vita” e la solitudine a due degli individui che si distaccano dalla turba dei dannati, e che difendendo sé stessi credono di difendere i molti, mi chiedo se la chiave sia nell’assegnazione della responsabilità del male (noi o il destino? Noi o il demiurgo che ha pervertito la tecnica?). “Pena”: la vita come guerra civile. Ma se tutto, anche ciò che permane solo, è vincolato al resto, la missione è capire la natura dei vincoli.

Qui vengo attratto da un altro procedimento, e cioè dal modo in cui tu intendi la pagina. Per esempio la ‘doppia pagina’ è la base per l’esecuzione di partiture minimali come quella a pag. 90 (quasi una sonatina  per gocce bisillabe). Anche qui la dislocazione, l’esplosione grafica del testo su tutto lo spazio della pagina. Come nel dialogo ‘tridimensionale’ con Lucano. Quanto sono stati importanti i giapponesi (la loro ritualità, la loro tecnica) per questo studio? O – facendo un passo indietro – quanto Beckett per certi esiti incredibilmente asciutti (ancora pag. 59)?

Niente è sicuro, ma la poesia è sempre oltre, è sempre altro, anzi già dicendo questo si tradisce la sua imprevedibilità perché se ne sta (af)fermando qualcosa. Quanto il procedimento ‘è’ la poesia, o la risolve, in questi casi? (ammesso che la poesia risolva qualcosa o possa risolversi?).

Una poesia difficile o no, quella delle Api? Comunque una poesia che ‘dice’, che non ha paura di suonare sui toni alti come di far rimare ‘raggio’ e ‘maggio’, che passa dal fraseggio massimalista al puro suono. L’idea che mi viene da libri belli e stimolanti come il tuo è che non c’è nessun oggetto poetico ‘necessario’ che nasca come tale; come crea sé stessa, la poesia crea il proprio lettore e il proprio spazio, proprio nel senso che ne apre uno nuovo. Ma se dovrà essere ancora ‘necessaria’ la poesia, non scivoleremo di nuovo verso il classico, il canone e altri blablabla?

Altra ipotesi (di pensiero debole): non sarà il caso di oggi a creare il ‘necessario’ di domani?

Avrei altro da dire e da chiedere, non meno confusamente di così, purtroppo, ma mi fermo qui con questi appunti disordinati, che ti invio (con deprecabile ritardo rispetto alla mia fresca lettura delle Api) da una situazione quotidiana abbastanza incasinata: tra gli scatoloni di un trasloco che sto facendo praticamente da solo e uno pseudolavoro infimo che mi costringe a buttar giù le cose come mi vengono; anche se si parla di poesia…

Ma è solo per il momento, spero.

un abbraccio e grazie

Fabio

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1 Comment

  • non finirò mai di ringraziare Fabio Pedone per aver permesso la pubblicazione di questa lettera meravigliosa.
    una lettera privata che si è voluto rendere pubblica anche perché la lezione di rigore e severità che se ne può trarre, di fronte all’esondazione di “contenuti” (vuoti, irrilevanti) riversati on-line in continuazione, è alta e necessaria.

    un caro saluto a tutti,

    fabio teti

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