Anna Maria Farabbi: ‘Adlujé’


Adlujè

Anna Maria Farabbi

2003, 112 p., brossura

Il Ponte del Sale (collana La Porta delle Lingue)


di Gianmario Lucini

Quando si ha sotto gli occhi un testo come “Adlujè“, di Anna Maria Farabbi (è un testo del 1997, riedito nel 2003 da Il ponte del sale) viene in mente, quasi per associazione, la fedeltà di questa autrice alle sue tematiche, ma più che alle tematiche a qualcosa di molto concreto e viscerale, la terra, la sua terra natia, anche in senso fisico come terra-materia, e non soltanto come “patria” o “cultura di provenienza” o “storia personale” o altri concetti sociologici.  Terra che si rende viva nel corpo, nella materialità fisica degli uomini e delle donne che l’abitano e sempre conserva la sua primitività, la sua nota unica e irripetibile che la distingue da altre terre così come ogni persona (ma qui è la “donna” protagonista) è unica e irripetibile.  Viene in mente anche la fedeltà e quasi la perentorietà con la quale Anna Maria intende disfarsi di ogni maschera, di ogni convenzione concettuale ed espressiva, in una scrittura che cerca di fondere in un unicum il rigore del pensiero critico (e dunque la precisione e lo spessore allusivo-intenzionale) con la spontaneità e la forza dei sentimenti, quest’ultimi così partecipati in una sorta di passione che cerca un suo linguaggio rigoroso e assoluto.
Si veda nel merito anche una recente intervista pubblicata su l sito di Lietocolle a cura di Ivano Malcotti, nella quale l’autrice parla della sua poetica.
Ma qui vorrei brevemente parlare dell’ “apparato linguistico” di questa autrice, cosa che non ho mai fatto, che tento ora forse in maniera frammentaria e lacunosa, ma che mi intriga perché la lingua che usa questa autrice è a mio avviso un esempio di rigore stilistico e di ricerca semantica ed espressiva.
La prima osservazione che vorrei proporre, insieme a un testo (Ninnananna anna ntol buio – Ninnananna anna nel buio), riguarda la densità semantica delle parole, che poi è il risultato di una de-purazione della parola stessa, come l’artista che trae dal blocco di creta l’opera che dentro egli pensa stia nascosta, e non l’artista che somma creta a creta per comporre la figura.  E’ un’operazione di scavo quella che l’autrice fa.  Se mi è consentito illazionare, credo che il suo modo di scrivere consista nella stesura di una frase, magari in versi ma non necessariamente, che esprima quello ch’ella vuole esprimere; successivamente la poesia nasce da un intenso lavoro di lima, nel togliere quello che non necessita al rigore del testo, alla essenzialità del verso.  In questo modo la parola si carica di significato perché ogni ulteriore elemento linguistico, paradossalmente, toglierebbe anziché aggiungere.  Ovvio che vi è poi una sorta di coscienza critica, di misura (personale), che evita un’eccessiva depauperazione – altrimenti, per dirla in termini figurati, lo “scavo” perfora ogni spessore e oltre al superfluo si toglie l’essenziale.  Mi piace dunque pensare questo linguaggio come un lavoro di sottrazione del superfluo, un lavoro di stilizzazione come nelle statue di Giacometti o di certi artigiani africani.  E si tratta di un’operazione di estremo interesse sotto l’aspetto linguistico e stilistico, perché anche questo stilizzare e levigare tiene alto il valore della parola, la sua forza espressiva, de-banalizzandola.
Tuttavia questa ricerca di rigore non impedisce dei particolari giochi linguistici, effetti che si possono creare una volta e mai più, senza ripetersi.  Ad esempio quel “ninnananna anna”, dove la mia indecisione sta nel considerare “Anna” nome proprio (dell’autrice) oppure una ridondanza di “ninnananna”, così come si fa con i bambini per gioco.  Considerando il tema, e considerando che l’autrice, scrivendo in lettere maiuscole il titolo della poesia rende la cosa indecidibile, non possiamo fare a meno di pensare che questa ambiguità sia voluta, calcolata nel lavoro di sistemazione delle poesie.  Ma è proprio questa ambiguità che aumenta la portata semantica delle parole, le carica di una ambivalenza che allude a sensi diversi e dunque si vuole qui, come nel lavoro di levigatura delle parole, una moltiplicazione del significato, che stavolta si esplicita in un ipersegno stilistico.
Non impedisce però – il rigore stilistico – anche la ripetizione delle parole, come quel “il vento” finale (“Ivento“, molto più onomatopeico in dialetto che in lingua).  Questa ripetizione, forse proprio perché alla fine, sposta la scena, sposta anche la sensibilità del lettore, stende su tutta la poesia un che di aereo, di onirico, la allontana nel tempo e nello spazio e la fa entrare nella carne.  Un qualcosa di simile si trova anche nella poesia “La luce nella pesca“, riportata di seguito dove la ripetizione della parola “pesca” e segnatamente la seconda parola, accende questa pesca di luce, la pesca si accende nell’immaginario, in una sorte di infantile meraviglia.
C’è poi in questo stile il gusto del contrasto, non solo dell’ossimoro (che abbonda nell’intero libro) ma anche nel ritmo mentale della lettura.  Si veda ad esempio, sempre nella poesia sulla pesca, quel “si-len-zio-sa” che fa verso da solo e pare messo lì per rallentare, e il verso successivo “che rotola nella notte“, dove la sdruciola “rotola” accelera il ritmo di lettura e crea quasi l’onomatopèia del rotolare, di una frana che si muove.  Qui c’è, a livello espressivo, un contrasto di ritmi che segue e accentua un ossimoro (luce-pesca / notte): è solo con un paziente e certosino lavoro di lima che si “vedono” e si colgono queste possibilità che la lingua offre.  E’ questo che intendo quando parlo di “amore per la lingua”, non certo di un sentimentalismo italianistico.
Mi è sembrato importante fare queste osservazioni perché, sul conto della poeta Farabbi generalmente ci si sofferma sulle sue tematiche, certo da non trascurare, anche perché – credo – il “contenuto” del messaggio è l’aspetto a cui l’autrice tiene di più – ed è peraltro un contenuto complesso, che si articola in molte direzioni e che richiede al lettore una frequentazione assidua dei suoi testi.  L’aspetto stilistico però non è da meno dei contenuti, perché proprio nello stile l’autrice comunica subito al lettore la cura dei testi, l’avviso “a priori” della sua intenzione comunicativa che mira allo spessore, alla valorizzazione del dire.

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