La filosofia cerca “una” verità, mentre la poesia cerca “la” verità.— Roberto Carifi

Altre Voci n.9: Tra i colori di uno specchio


di Marco Ercolani

1.

«Agli antipodi della poesia, buio inverno, / quando gli alberi brillano di ciò che li spoglia»: l’epigrafe di Wallace Stevens, che Bonacini appone a Il limite (Book, 1993) è illuminante. Brillare per una nudità, per una spoliazione: risplendere di un’assenza. Il  progetto di questa poesia, tanto necessaria quanto misteriosa è rendere visibili, con le parole, delle immagini che il senso comune definirebbe impossibili. Ad esempio, una notte fatta di luce.

 

«Luce, incredibilmente luce
l’esile passaggio della notte:

niente di me, le parole»

 

Questi versi descrivono la notte buia come luminosa e le parole come un “niente di me”, un niente in cui il viaggio labirintico nella scrittura può finalmente accadere. Bonacini contempla il paesaggio interno delle cose esterne dalla prospettiva del proprio sguardo, ricreando il vivente con quello che chiama un “intelletto innaturale”. Nessun infinito è più “infinito” di quello leopardiano, semioccluso dall’ostacolo della siepe. E Shakespeare già scriveva: «Però che beffa formidabile è questa: che si debbano avere degli occhi acutissimi per entrare in un vicolo cieco».

Questo “viaggio in un vicolo cieco” è il viaggio crudele della poesia contemporanea. Ma, come scrive  Niva Lorenzini nella postfazione a un altro libro di Bonacini, L’edificio deserto, «Il viaggio è, per tradizione, il luogo della poesia. Perché implica attesa e desiderio, consente incontri e distacchi, scambi e metamorfosi non prevedibili». Nella poesia di Bonacini il viaggio è sempre presente, anche se come fenomeno rarefatto, vago, alla soglia del dicibile. Parafrasando Handke, si potrebbe dire che i libri migliori sono quelli da cui si può alzare gli occhi, guardare il paesaggio e farsi irradiare dal sole, anche quando non splende.

«Nessunissima cosa è più vaga:
i viavai che stordiscono
appena e il deserto del sonno
[…]
Entro il confine
di un ascolto era possibile
confondere il tuo pregio –

in questa stanza
d’invisibili sapienze

d’improvvisi calibrati mutamenti».

 

Bonacini parta proprio della sua intenzione di abitare “il confine di un ascolto”, di percepirne gli “improvvisi, calibrati mutamenti”, proprio come accade al vento di spostare una nuvola, e quello spostamento non era previsto, ma accade, e mentre accade trova le parole per descriversi. Scrive Stefano Guglielmin: «Questa intenzionalità ci conduce davvero nel cuore della poesia di Bonacini, giacché, a suo dire, proprio in questa permanenza ai bordi dell’io e del mondo (nel margine e in bilico, appunto, d’ogni volgare certezza) risiede il senso della scrittura, quel suo diventare aletheia, forza che disvela, che focalizza il vero quale luogo del fecondo cercare: “La poesia – ha scritto recentemente l’autore (“Capoverso” n.7, gennaio-giugno 2004) – esiste qui, ma ancora non sappiamo se qui sia effettivamente il suo luogo, vero e reale, di scorribanda o di meditazione. Qui c’è la nostra visione, il nostro sguardo finito che, proprio in virtù di questa sua limitatezza, riceve e avvalora”».

 

«[…]
Qualche volta
il ripiegarsi incorruttibile
consegna alla parola
appena il tempo del dilemma.
[…]
Essere còlti nell’istante
del pensiero: la metà bianca del sole
abbandonata al vuoto».

 

Di questa “metà bianca del sole”, avvicinata per analogia al pensiero, Bonacini parla ancora in altri versi: «I pensieri allora / vanno cercati nella povertà della mente». L’oggetto-poesia, appena sfiorato dalle parole, è paesaggio astratto, che ricorda il Klee degli anni maturi, oggetto bianco, luminoso, musicale e impenetrabile come il muro davanti la quale il Patriarca Bodhidharma siede per nove anni in meditazione. Tutto, in questa poesia, accade come dentro una sospensione ad libitum dalle ansiose definizioni del mondo: «e con la stessa / lucentezza indifferente / sentiamo il peso / di una simile illuminazione». Vengono in mente le parole di Blanchot, che Bonacini userà come epigrafe per una silloge ancora inedita: «Quando tutto si è oscurato regna l’illuminazione senza luce che certe parole annunciano». Il pensiero corre ancora alle opere di un raffinato artista visivo come Fausto Melotti, a certe sue sottili e filiformi sculture in ottone, come Rondò delle idee galanti e La battaglia sul greto.

La poesia di Giorgio costruisce una figurazione del mondo che ha una leggerezza non trasfigurante ma concreta, attenta a descrivere un paesaggio che attraverso il senso evidente delle parole cancella e attraverso l’enigma della parola poetica costruisce. Attratta da “quel poco di vuoto sensato”, si avvicina alle forme linguistiche in modo delicato e musicale ma non povero, sempre radicale nel suo pudore, con accensioni improvvise, illuminazioni, stati di grazia espressivi: “Erbe con petali / e con fiori sono i teneri aldilà / chiusi in un punto”. Lirica e distante, in apparenza, sigillata in un suo gelo sereno, questa poesia è incrinata da una pietas indefinita, senza oggetto.

 

«È triste la crudeltà
delle pietre

Alla fine è la pietra
nella sua pioggia estrema»

 

Chi potrebbe dire che questi versi non esprimano una gentile immaginazione surreale? Ma nello stesso tempo sono assenti forzature ed enfasi. Sembra naturale e possibile che la pietra si trasformi in pioggia. Il poeta ci racconta l’impossibile come un moderno Basho che, nei suoi haiku, parli ancora della neve, della pioggia, o di altri luoghi. «I miei luoghi – scrive Bonacini – sono “fughe” e “rifugi”, ma non nel senso di scappare o di nascondermi, ma perché credo che la voce della poesia (la mia in particolare) abbia bisogno e crei essa stessa nel suo andamento in avanti (fughe) e nelle sue pause (rifugi) la vita ulteriore che percorre una doppia esistenza: quella della scrittura poetica e quella di chi scrive. Ci sarebbe anche quella del lettore (che può anche essere il poeta stesso), ma il discorso sarebbe molto lungo: bello ma complesso».

L’oggetto, il paesaggio, sfugge sempre in un “buio astuto, un buio/ senza oscurità ma senza luce”, in una zona neutra. Bonacini è attentissimo a non entrare mai nella regione del senso e descrive il suo paesaggio interno delle cose esterne come  “l’avventura / tra i colori di uno specchio” con la nitida e luminosa “oscurità” che gli è consueta.

 

«È per la farfalla che possediamo
una pelle sensibile – per quanto crediamo
si fermi e si addormenti sulle dita» (Fallefarfalle)

 

Qui il reale diventa limpido e buio, nello stesso istante. Il sonno si intreccia alla veglia. L’io ha rapporti con un mondo volatile che però si addormenta sulle dita sensibili. Scrive ancora il poeta: «Il tema o problema della presunta “oscurità” della poesia è un argomento antico. Per alcuni la poesia si deve “capire” per altri si deve “sentire”, per altri ancora qualcosa d’altro, e ognuno è fermo a quella propria parzialissima “verità”. Ma il senso della poesia non sta, credo, nella sua facilità o difficoltà di lettura, ma nella capacità della parola (la materia della poesia è la parola, così come il colore è materia della pittura, i materiali plasmabili della scultura, il suono della musica, ecc.) di uscire dal pensiero e dalle sue manifestazioni (felicità, dolore, conoscenza, emozioni, sentimento, sogno…) con una voce che sia il suono fondante e vitale, con forma e sostanza, di una scrittura vera, di intrattenibile sforzo e leggerezza, che spacchi il reale per reinterpretarne i segni e le fatiche. Alla fine per vivere e non far morire. Perché (è stato detto, e ogni poeta lo sa, anche inconsciamente,) la poesia non ha il compito di svelare o di nascondere, ma di indicare… Poi tutto dipende dal nostro sguardo, che non è uno, ma molteplice, indefinito…».

 

«I PESCI sono il sintomo del genio
dell’estate -
formidabile
la tecnica del caldo

mentre tutto si concentra
tra le branchie, l’emozione
di un’incognita rimane
[…]
Per i pesci il mutamento
è un’esperienza

ineccepibile  – il dispendio
di una lingua inesistente

in questa forma surreale»

 

Esempio di questo sguardo molteplice è proprio questa poesia, tratta da Sotto la luna, dove Bonacini descrive la vita dei pesci con l’innaturale e naturalissima ingenuità della semplice ri-creazione verbale di quel mondo. Vuole “enunciare l’interiorità senza concedere l’intimità” secondo l’indicazione barthesiana. Vuole affacciarsi sul mondo come un Michaux meno tragico, quasi divertito dalle curve del linguaggio e delle cose. A chiusura del già citato L’edificio deserto scrive:

 

«E pensando di scrivere
poi mi rannicchio: richiamo a sorpresa i miei
libri, le pagine molli, interdette,
raccolte
da un vento, da un topo»

 

Questo evocare un libro di “pagine molli, interdette” richiama alla vocazione sperimentale di Giorgio e a un’attenzione visiva all’oggetto-libro (la sua frase sembra evocare qualche scultura contemporanea). Allo stesso tempo esprime la sua “interiorità non intima”, il suo andare alle radici dello scrivere come se la sua biografia fosse solo il viaggio sempre nuovo dentro le proprie parole. «Togli alla gente le metafore quotidiane» suggerisce Handke. L’apparente astrazione delle scene richiama la presenza sotterranea ma lieve del corpo, delle sue pulsioni emotive. L’astrazione non si limita al gioco tra linee e superfici, alla mentale esasperazione delle forme. Il corpo si mantiene sempre vivo, nell’antro lieve della scrittura, e si misura con la vita animale, minerale, vegetale, del mondo. Direbbe Nanni Cagnone: «e quel sonnolento / andarevenire / entro invincibili metafore, / chiuse al tempo, / senza rovine». Come dentro una cripta Bonacini attinge, attraverso vie oblique, accenti di commozione, di pietà, di tenerezza, senza che i significati del suo dire siano del tutto esplicabili. La sua poesia mantiene un’”aura” di mistero, simile a certe “aure” presenti in Cesare Greppi, ma siamo lontani da quell’arcadia enigmatica ed esoterica, si respira un’atmosfera più rilassata e curiosa, nelle evocazioni e nei ritmi, come accade in Fallefarfalle.

L’arte del poeta è spensierata e misteriosa, come un oracolo che manda sussurri senza enunciare.

 

«Forse l’acqua è felice –
pronuncia la sua sottigliezza
e risuona»

 

Il suo libro più recente, Quattro metafore ingenue, termina con la poesia Chiusura:

 

«Un segno, un piccolo
preciso, indelebile segno

È da qui che dovremmo
partire – e qui ritornare

Se cadono i suoni?
E li nomina l’acqua?

Le parole, ora scrivono
là – nel fantasma del sole

Un salto e un ricordo –
un cespuglio di segni

L’inizio oltrepassa così
l’illusione e la fine

È qui che dovremmo
tornare – e da qui ripartire»

 

Ma qui dove? Forse in quel dove le parole si scrivono da sé, assente l’autore e assente il sole? Bonacini non scioglie l’enigma e il lettore resta in attesa. Ma ha il tempo di assaporare una un’essenzialità che sovverte il “tradizionale stare nel mondo, spaccando i mattoni della lingua ordinaria, ma anche della lingua di una certa poesia bloccata in sé, nelle sue presunte verità”, come lo stesso poeta osserva in una sua nota critica. La sensazione più intensa che prova il lettore è quella di trovarsi di fronte a un poeta visionario che tende a “silenziare” le sue visioni, a non farle mai protagoniste della scena, disseminandole con intelligenza come a costruire costellazioni sempre nuove con movimenti lenti ma precisi, avvicinandosi a un proprio nulla zen con parole sensibili e concrete.

 

«Dalla concentrazione pura
le prime parole emergono con una velocità
senza fretta – come se si dovesse
contemplare l’estraneità dei fiori
nella ripetizione
di un principio insoddisfatto»

 

Questa poesia, Pensiero iniziale (da Quattro metafore ingenue), ci illumina sull’oscurità di Bonacini, su questa ripetizione insoddisfatta della parola che, anche se parlasse all’infinito, troverebbe sempre un “fiore estraneo” di cui, sempre all’infinito, evocare la natura.

 

 

2.

In alcune inedite poesie recenti, “poesie che non trovano pace”, scritte fra il 2003 e il 2010 e che hanno come titolo provvisorio Stelle inseguitrici, Bonacini prosegue coerente, la sua ricerca, affinando un’ancora maggiore leggerezza di tocco. Come nota Daniele Santoro, queste poesie sono ricche di una «sorprendente fluidità espressiva; si respira in essi una musicalità che avvolge il lettore, in forza anche dei dodecasillabi, versi – come noto – fortemente ritmati, “declamatori” e componenti ampie volute musicali […] per effetto dei frequenti e bellissimi enjambement che il poeta usa con abilità nell’architettare le grandiose cornici sceniche della sua poesia». Le “volute musicali” mi ricordano alcuni versi di Emily Dickinson: «L’Ebbrezza è il Vento / Quello ci solleva da terra, quello, / Ci getta in un luogo altro, / Che non è mai stato creato…». Ancora una volta Bonacini, come Szymborska, parla di qualcosa che, non essendoci, turba per la nitidezza della sua presenza. Descrive «l’ombra di una vita in un insieme / di valanghe che non c’è».

In attesa di leggere il suo prossimo libro, lasciamo la parola a Giorgio con questi versi inediti:

 

«La poesia scritta per essere una pietra
freddo e luce in un avviso

Niente e nessuna poesia: né poetica
persa o esiliata o trovata ad offendere
i bordi di un marmo di ghiaccio: esaltata
per niente e nessuno, un taglio per ciò
che in se stessa resiste e in un altro consuma.

Nemmeno se avessi poesie da grattare
su un duro di pietra, potrei sollevare
o costringere al tuffo chissà quali idee
di pronomi virtuali, contesi da un forse
in balìa di un tormento o in poesie come se.

Ma il linguaggio, l’errore, il dolore
ossessivo che cede d’inverno, ci porta
a conoscere un dono nel buio che scoppia:
e a riprendere fiato, a una nuova visione
di roccia abbattuta, di sabbia ingannata.

Allora poesia nel disagio, poesia nel contagio
poesia in ciò che lascia e distrugge: e non
chiama nessuno, non canta, ci inonda
e ci attacca, e raccoglie nel dubbio una sola
mania: derubiamo scriviamo, è poesia».

 

 



Antologia


se non fosse che è impossibile
l’azzurro anche la trama
di quest’unica poesia

verrebbe accolta
a fondo spiano –

a fiato intero si tramandano
i ricordi, i mezzi fiori immaginifici
e sicuri…

gli impassibili hanno
un ritmo – un fiume stridulo, snervato,
accartocciato e tipico, ogni tanto


(Teneri acerbi, IV/6, Anterem Edizioni, 1988)



***


Sei il genio di un’ombra
totale  –  musetto che ispiri, a vederti non sai
che io credo si mormori tale
una cosa di veli
che formano un viso

______________________

e pensando di scrivere
poi mi rannicchio; richiamo a sorpresa i miei
libri, le pagine molli, interdette,
raccolte
dal vento, da un topo


(L’edificio deserto, Edizioni di Parol, 1990)




GLI UCCELLI hanno esaurito
le distanze – nell’esatta dimensione
di una curva anche l’effetto
delle nuvole scompare.

Niente vola per magia,
quando gli uccelli

si dispongono a partire
la sveltezza dell’intuito
è impareggiabile, il crepuscolo si perde

Sono gli alberi
a decidere l’inizio

a interrogarsi sul’estendersi
del cielo o l’invenzione delle foglie


***


Dopo tutto
la struttura dei richiami

è capovolta – ci si illude
che respirino, che ascoltino

i pensieri essendo in alto


(Sotto la luna, con Giovanni Infelise, Book editore, 1991)




Aria al posto dell’aria –

L’abbandono in sé, meticoloso
e fine, è un’andatura senza eventi

un varco inarrivabile e accurato
dove l’aria non traspare:

idee, ripercussioni
anomalie – niente sostanze


***


Addio strumentazione
e inutilmente addio
contesa mano, concisione.

Io, che sono un io
non curativo e rispondente
vedo solo affinità, trucchi
e passaggi –

e la bellezza del richiamo


***


Fili che fossero d’erba
avrebbero in me un precursore.

Io non fui mai collisione. –

ma tu, alberissimo tu
tu che vieni da un fiume inasprito
abbandònati al sogno iniziale:

nell’intimo è febbre
e silenzio – è solo ondeggiare.


***


Il disincanto mi orienta –

Io ricordo
di molti ricordi impossibili
molto impossibili.

Ora scorgo l’stante
ora l’altro –

ora scena freddissima:
l’ansia.


***


Il vento non parla
è bianco –

Io, scrivendo,
ne recupero l’usanza.

Come avvengono follie
vengono inutili anche i suoni
nei dintorni:

frasi che s’innervano
nel mondo
e disinnescano il mio dire.


(Il limite, Book editore, 1993)




È per la farfalla che possediamo
una pelle sensibile – per quando crediamo
si fermi e si addormenti sulle dita


***


Falle farfalle
puoi farle
farfalle
imitandone il volo
guardando
tra l’erba
che scrive da sola
o pensando
a far more
a far fare
falistre
di un pensiero
di fuoco


(Fallefarfalle, Anterem Edizioni, 1998)




Apertura

La saggezza
dei sogni è diversa
trascorre
la sua nitidezza
e dilegua

Nel sonno
la perdita è tutto
la dissipazione
stupenda
lo squilibrio abissale

Il chiarore mi piace
moltiplica l’aria
e sgualcisce

Immancabile
scorre inesausta
la sapienza
dei sogni


(Quattro metafore ingenue, Manni, 2005)




Quando gli alberi si stancano di dare
siamo noi a contemplarli nel respiro

Le foglie: il martirio di tutte le foglie
è un perché inaccessibile e duro: qualcosa
che addensa nei tronchi, un groviglio di rami
che restano lì a ricordarci di un altro
che parla e dispera, e concede a chi pensa
una grandine accesa e una spenta.

Ma noi, indecidibili e affranti
sgranati da un filo di vento, pensiamo
a ingoiare un respiro dovuto all’inverno
e alle foglie: il dolore di tutte le foglie
in un volto smarrito, sfollato, perduto
nel tempo e il ricordo infangato.

Così è contemplare, così è impallidire
pensando a una goccia che va inoffensiva
a bagnare più in là, dove è stanca
di prendere, avvolgere e dare: e conosce
da sempre l’ipotesi assurda
di un bosco di nuvole oppresse dal mare.

Eppure un odore atmosferico e lieve
è concesso alle foglie: l’inganno in cui
tutte le foglie resistono al tutto di un tronco
isolato, legato a una strenua corteccia
che sembra davvero inventare pensieri
che sono più alberi a volte degli alberi veri.

(inedita)

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