Mariangela Gualtieri: scorticate parole ad un Dio assente


Scrivere «a ridosso della scena», comporta l’adozione di una singolare gabbia extratestuale che, sommandosi ai vincoli retorici canonici, condiziona fortemente la materia poetica. Si pensi all’allestimento di Fuoco centrale, opera in cui il cerchio e la diagonale danno movimento semantico, retorico e simbolico ai monologhi, sia in grazia della loro presenza e sia attraverso i corpi, le maschere, le luci e le musiche che in essi agiscono. La geometria dello spazio e l’allestimento scenico, dialogando dunque sinergicamente con il testo scritto, lo nutrono e da questo sono nutriti, per non dire del confronto stretto con gli attori, sempre vivace nella Gualtieri (1951), vero crogiuolo depistante per la libertà creativa individuale eppure, nel suo caso, massimamente proficuo per l’opera.1

Date le premesse, la difficoltà di uno studio critico rigoroso sono evidenti: se si prescinde da Senza polvere senza peso (Einaudi, 2006), che contiene poesie «del tutto indipendenti dal lavoro teatrale»,2 non si tratta, infatti, per il resto, di una poesia meramente performativa, bensì di creazione a cui manca l’univocità dell’autore, essendo questi volutamente dividuum, «moltitudine», luogo di ricezione mediana, che addensa in una voce plurale un sentire comune (definibile nello spirito che anima il Teatro Valdoca). E tuttavia, il nucleo indivisibile e profondamente gualtieriano, rimane il medesimo ed è quel «sentimento della mancanza» a cui si sente consegnata l’autrice, il quale spinge e scalcia, ma senza «scacco né stallo perché – ella ci riferisce – la parte che manca ha sempre a che fare con me».3 Uso il corsivo proprio per sottolineare il disargine che slabbra l’auctor, che ne corrode il limite sino a scioglierlo, quasi, in una dimensione più grande, che comprende anzitutto lo “spirito Valdoca” e, in seconda istanza, tutti i viventi, ai quali la Gualtieri dà voce, per rendere grazia (e nel contempo interrogare, chiamare all’appello) ad un Essere supremo panteisticamente inteso – ma per nulla pacifico sotto il profilo teologico –  dell’immensa bellezza del creato.

La questione della trascendenza – che va slegata dall’orizzonte prettamente cristiano, pur comprendendolo – è decisiva sin da Antenata (Crocetti, 1992) e trova fondamento nell’idea che essa sia «presente quotidianamente dietro le cose, dentro le cose e dentro» la creatività individuale, ma in modo da mantenere aperta «una sete, una ferita inguaribile» verso il trascendente stesso.4 Questa «mancanza», questo scarto insanabile dell’io dal sentirsi fra le braccia della totalità costituisce, appunto, il nucleo originario della poesia della Gualtieri, quella cifra proprio sua, originalissima nella sostanza e nello stile, che legittimamente la dovrebbe collocare nel canone italiano contemporaneo.5

Ne consegue che il canto, in lei, si «fa preghiera» di ricongiungimento, nei modi non lontani dalla recita dei mantra, suoni che sciolgono l’illusione del mondo cangiante delle apparenze, per far entrare il meditante nel Brahman, nell’immutabilità dell’essere infinito, come recita la Bhagavad-G?t? e come il finale di parlami che, in Antenata, ripete con chiarezza: «mi esercito continuamente/ mi esercito al niente/ fino al mio colore puro» (in stampatello maiuscolo nell’originale). Un esercizio che ha i tratti della tensione-verso, di un sentire la necessità di appartenere al vero cosmico, ad un’origine senza differenze necessariamente esistita o possibile nel futuro, ad un «colore puro» a cui consegnarsi, non sapendo tuttavia quale sentiero intraprendere, se non, appunto, quello che ha nella «mancanza» la sua cifra ontologica; scrive infatti nella sezione “Formula perché cresca la vigna” del libro del ’92, in una quartina che porta la parola «enigma» in incipit: «io sono la mancanza – la mancanza che sono – sono ciò da cui manco – sono tutta la mancanza – e non c’è nostalgia – neppure lontananza – essendo ciò che manca – adesso e sempre – io».

La prima acquisizione, complessa e apparentemente contraddittoria, è la seguente: «mancanza» va letto, come in quest’ultimo testo, quale fede nell’identità io-Tutto, dove anche il non-essere appartiene ad una regione dell’Essere, ma anche in quanto «ferita», sentimento tutto terrestre di lacerazione («io sono spaccata»), espressione di una distanza che mai sarà colmata sotto il profilo dell’episteme6 e che troverà nella figura inattuale di Parsifal il suo avatar, l’incarnazione eroica del suo spaesamento quotidiano. Le due dimensioni sono distinte: il piano ontologico concepisce fideisticamente l’unità del tutto quale verità suprema, mentre quello esistenziale avverte uno sfasamento da quella certezza, un non-sapere che tuttavia non getta l’io narrante nella disperazione o nell’assurdo, bensì, forse sulla scorta di Nietzsche, lo spinge «caparbiamente [a] trovare armonia in mezzo» ai «cocci» additati dalla cultura della crisi novecentesca, in specie da Beckett.7

Tutta la poesia della Gualtieri rimane fedele a questo assunto, riconoscendo nell’Amore «la forza onnipresente, onnipervadente»8 che stana il finito, che spinge i mortali a riconoscersi senza dissolversi nel Principio, sanando così la frattura tra ontologia ed esistenza: «L’Amore benedico/ che d’ognuno di noi alla catena/ fa carne che risplende» recita una terzina di Chioma. Per questo, la gioia di ciascuno diventa «la preghiera più alta»,9 e sostiene la fiducia cieca verso il destino, come fa Parsifal quando, «al culmine della disperazione, molla le briglie del cavallo e lascia che sia lui a decidere» la rotta. «Le briglie mollate da Parsifal – continua la Gualtieri – sono il suo “fiat voluntas tua”».10

In tal modo, la poetessa cesenate porta in scena il sacro, drammatizzando la frustrazione di chi vorrebbe la pronuncia assoluta, senza incrinature, del Vero: «io non sono mai tutta, mai tutta, io appartengo/ all’essere e non lo so dire, non lo so dire, io/ appartengo e non lo so dire, non lo so dire,/ io appartengo all’essere, all’essere e non lo so dire», rivela la quarta strofa di io sono spaccata, in Fuoco centrale, in un recitativo mantrico che ci riporta alla verità induista prima accennata e, più in generale, alle culture arcaiche, con quell’impossibilità della parola di avvicinare la grandezza del divino di chi sta fuori dal cerchio magico dove il fuoco, caro agli dei, arde imperituro. Fuoco centrale è il poema di chi chiede ospitalità al senso necessario, all’ordine universale, a ciò che giustifica dolore e gioia, dopo che il «ridere largo» dello stato originario, così simile alla beatitudine divina, è diventato «peso», nascituro che stringe i «piccoli/ pugni» e dorme, cresce e parla (Ossicine). Un vivente che sa d’appartenere a quel fuoco («Una bassura/ tiene nella colla il mio fuoco centrale»), ma non riesce a consegnarsi totalmente ad esso, distaccandosi dalla materia, perché egli ama le increspature di quest’ultima, gli umori, il «piano piano del sangue» che muove i terrestri sulla crosta geologica. E proprio perché – come scrive Meister Eckhart – «Dio è una Parola. Una Parola inesprimibile»,11 la fiumana di parole che l’io narrante riversa sul cerchio di fuoco non bastano mai, sono appunto «fallimentari», «deludenti», «parole correnti» che non avvicinano la purezza del silenzio originario; eppure, esse sono offerte in sacrificio nella pienezza del corpo che le pronuncia e ciò è massimamente avvertibile nell’ascolto del recitativo gualtieriano, della sua voce, di volta in volta, implorante, minuta, sensuale, infantile, sempre in bilico sulla soglia e pronta a saltare nel rogo come se, chi parla, fosse una «guerriera tutta composta d’urlo/ e di sostanza acida» (Caro ba’) o un Jacopone da Todi femmina, che s’umilia e mendica sulla scena l’Amore di Dio. Come il monaco guerriero, anche la Gualtieri si muove tra l’esaltazione mistica dell’inavvicinabilità divina e l’evidente miseria della condizione umana. E fame e sete sono ancora doni di Dio, della sua immensa e imperturbabile offerta, celebrati con pietas francescana e con una lingua espressionista – diagonale, come il tratto di scena che unisce fuoco e pubblico in Fuoco centrale – stando «affacciata alle ore in presente attimo sanguinante», «sgusciata», mossa dal sole, come scrive nella prima parte del libro, quel sole che, a propria volta e dantescamente, è mosso dalla «gran potenza» dall’Amore primo. A differenza di Jacopone, ella tuttavia non chiede sofferenza e punizione, bensì accoglienza e, nel Parsifal, «perdono» a nome dell’intera umanità.

Cavaliere derelitto, «eroe che contiene il disordine, lo sbandamento e lo sporco di ogni vita attuale»,12 egli agisce «in questo covo rivoltato/ in questa fossa con gli orchi attuali/ in questo lato barbarico della specie» che è la Storia (Monologo del Non so), caricandosi del dolore dell’Occidente, come un Cristo redentore. E può farlo perché, ci spiega la poetessa, egli non partecipa della divisione propria al pensiero calcolante, del sapere che recide la coscienza dall’anima mundi, bensì possiede la feconda debolezza del «principe Arjuna nella Bhagavad-G?t?» e l’innocenza del Principe Myskin dostoevskijano, egli insomma è uno splendido idiota, come quelli «dell’Antico Testamento, a cominciare da Mosè», è un «folle», un «ebete», un «martire» e, finalmente, un «savio».13

Se nella leggenda di Chrétien de Troyes e nella conclusione di Wolfram von Eschenbach, Parsifal è un giovane straordinariamente bello e forte, seppur ingenuo, che infine compie il proprio destino salvando il regno di Anfortas e recuperando il Sacro Graal, la Gualtieri vuole in scena un «vecchio», non estraneo al Re Lear interpretato da Laurence Olivier, che monologa balbettando, delirando sulla propria inadeguatezza, ma anche «entusiasta» per «amore» nei confronti dell’aperto, di quello stare animale che non patisce il tempo della finitezza ed abita l’incrinatura dove le cose accadono, in un non sapere tutto affacciato sull’agire. La sua ingenuità è totale e, appunto perciò, capace di ascoltare «l’alleluia delle cose» che in Occidente è andato perduto, capace di credere, sin da bambino, «in un respiro che tiene/ tutto nel pugno, come sostanza/ messa nelle forme, sostanza partorita/ da una pancia sola» (“Parsifal da piccolo e i suoi animali guida”). Intorno a lui ruotano altri personaggi, tradizionalmente destinati ad arricchirne l’esperienza e qui, invece, colti nella loro solitudine (e che diventano titoli di sezioni: “Anfortas”, “Coro delle Bestemmiatrici”, “L’irsuta Cundri”, “Sigune innamorata e dolente”) oppure pietosamente ritratti nella loro amorevole natura (“L’Eremita”, “Biancofiore”, “La Madre”).14

In Chioma non cambia quasi nulla, se non la consapevolezza dì avere focalizzato le proprie ossessioni, anzitutto quella di non accettare il dolore del mondo e comunque, cantandolo, di volerlo centuplicare «in bene» (C’è dolore), in un disegno danzante, ma forse meno incisivo dei libri predenti, se si esclude Solenne, la prima sezione, che stilisticamente primeggia con le altre prove gualtieriane, governata com’è da una «lingua concreta» e «terrigna» dove i verbi agiscono violentemente sul nome o sull’oggetto, mentre le immagini sgusciano improvvise, brevi quanto un sintagma, ma disvelanti, come in questi versi: «Volevo tutte le sbandate/ essere viva fino allo scortico/ essere tavolo pietra bestiale essere/ bucare la vita coi morsi/ infilare le mani in suo pulsare/ di vita scavare la vita scrostarla/ sfondarla pericolarla battermi con lei fino/ ai suoi sigilli./ Per amore – per amore – tutto per amore» (Siete voi?). L’eccessiva iterazione, la pluralità non sempre necessaria del registro linguistico, una metaforicità talvolta sghemba (per es. «manovre che mi sfinivano con tutti quei lati di spigolo») e la ripresa di temi già sviscerati altrove indeboliscono la seconda sezione (“equestre”), che apre alle due successive, minori perché già consumate dalla forza messa in gioco nel Parsifal e in Fuoco centrale.

Arriva dunque a proposito Senza polvere senza peso, un centinaio di testi scritti «lontano dalla scena», ad integrare un percorso concluso, riprendendone i temi. Ecco allora il mondo «tutto carbone e cenere», culla tuttavia della gioia, attraverso la natura, che qui diventa maestra, guida spirituale, assieme all’Oriente («il mio punto/ d’appoggio principale»), ad Amelia Rosselli (già nominata in «appunti e note di lavoro», nel Parsifal), a Dante e al Teatro Valdoca, ininterrotto riferimento ricco d’umanità e intelligenza. Anche la poetica della «mancanza», del «non», è centrale ed esplicitamente tematizzata («la forza del non è quella che chiedo»), coerentemente con l’amore per il valore supremo del Wu-wei taoista e confuciano, così come il dialogo-monologo con Dio, in particolare nella sezione “Acqua rotta”, dove Egli è «attesa e segno», presente amore, colui che «scassinerà la morte», dimostrando il «niente» che questa è; non-essere, appunto, che appartiene all’Essere, alla Vita.15 La novità del testo, che raccoglie poesie scritte tra il 1994 e il 2004, sta nello spazio dedicato agli affetti familiari, tutti portatori di gioia, nelle aperture al dolore privato («Adesso sto con una morte dentro./ Ho cent’anni adesso”), allo smarrimento umorale («Oggi non salvo. Sono io la bufera/ che rovina») e nella luce che ammanta alcuni paesaggi, un impasto di colori che ricorda Giovanni Fattori o i francesi en plein air. Certo questo libro rimane scritto nel vuoto che l’«esercizio terrestre» impone, ma una parentesi dal lavoro teatrale, che pretende una scrittura nel solco del Teatro Valdoca, dove la contaminazione fra le arti, la sperimentazione, la musica, il corpo e il gesto sono – tanto quanto la poesia –  la cifra caratterizzante, tanto che Chioma torna originale nella sua realizzazione, mostrando la protagonista in veste di madre natura dirompente eppure sconfitta, «povero Prometeo donna che non gliela fa»,16 così come “Predica ai pesci” (sezione conclusiva di Fuoco centrale e altre poesie per il teatro), portata sulla scena da «due acrobate, una cantante ed un’attrice»,17 per nominare un mondo che s’increspa e l’appartenenza dell’io narrante alle creature non umane («Io sono dei vostri, alberi, sono dei vostri/ animali eleganti/ sono dei vostri. Credetelo»). Concetto ribadito in Senza polvere senza peso e in Paesaggio con fratello rotto, opera in cui si rimette sull’orlo della visibilità la ferita che abita tutta l’opera gualtieriana, ossia «la spaccatura micidiale fra noi e l’anima del mondo, quell’energia intuita e sempre tradita, che ci tiene vivi»18 e della quale abbiamo discusso in questo saggio.

L’aggettivo del «fratello rotto» già s’intravedeva nelle «macchinette rotte» in Se la parola amore è e – quale fondamento –nel distico morantiano «forse sono i bambini a sostenere il mondo/ e gli animali, i cuccioli d’ogni specie» (Siete voi, entrambi in Chioma); acquisterà ulteriore definizione in Senza polvere senza peso, quando, mancando «il rispetto» per i più deboli, «il bambino è rotto […]/ è spento» (è mancato il rispetto del poco e del niente). Tuttavia, in Paesaggio, «fratello» è l’uomo colto nella sua dimenticanza originaria («Che cosa abbiamo dimenticato?/ Nella micidiale corsa, nella micidiale/ notte. Come siamo soli! Perduti!»), è il pubblico che assiste alla messa in scena della propria lacerazione e spera così nella «catarsi», anche ascoltando le voci degli animali, con «la loro forte anima», che gli fanno sentire che cosa sia la pienezza.19 Animali che, con un atto di straordinario omaggio, attingono le parole da La corsa dei mantelli di Milo De Angelis.

Il trittico si apre appunto con la dichiarazione oracolare che noi siamo «un grumo nello/ splendore del mondo», dimentico dell’origine, verso la quale quest’opera risale, di ramo in ramo, di capello in capello, sino a riconoscerla dentro di noi, qualcosa che rimane pascolianamente «intatto» e che dobbiamo riconquistare, proprio perché «l’umano» non è, come si blatera in giro, una «bestia zoppa» e il mondo «una palla alla fine». L’uomo-grumo gualtieriano custodisce dunque la formula della propria salvezza, a patto che sappia fare un passo indietro, nel cuore delle tenebre, là dove l’animale e l’angelo si abbracciano, per diventare «lo stesso pane»,20 l’arcaico e la profezia fatti respiro, l’autenticità della presenza, personificata dai gemelli siamesi della terza e ultima parte del libro. Deformi e regali,21 essi vanno colti nel duplice movimento del diventare uno e dello spezzarsi, dell’identità plurale che si specchia, scoprendosi arsa dal desiderio di incontrare l’«antico me», la sua «eterna danza», che ricorda quella mistica di Shiva Nataraja, che crea e dissolve l’Universo in un eterno presente metamorfico pervaso dalla vibrazione divina shabda. Questa danza, che nel libro einaudiano trovava nel fuoco centrale il suo fulcro generante (in singolare coincidenza con la rappresentazione induista di Shiva, colto al centro di sedici fiammelle ciascuna rappresentante una sillaba sacra) nel Paesaggio s’incarna nell’unità paradossalmente scissa del corpo gemellare, uno e trino, essendo quel «me», il punto terzo che mette in relazione la morte del finito e la luminosità eterna dell’origine: «Qualcosa in me/ è più vecchio di me/ e ora mi pilota/ in un’uscita entrata/ verso luminescenze viste appena nel sogno» (I due siamesi).

In mezzo a questi due momenti, tra il lamento dell’oracolo e l’invocazione dei siamesi, troviamo il Canto di ferro, corale per sette figure – mosse «da energie tremendamente antiche» – e un organista, «che scrive il suono dal vivo», sottolineando l’accadere sul palco.22

A parlare per prima è una «Geisha», che capovolge l’annuncio del Gallo silvestre leopardiano, sottolineando che «noi non siamo fatti per andare alla morte», ma per dare ascolto all’unità radicale con il Tutto, di cui siamo parte. Il concetto, già espresso in Antenata, trova nella lettera d’amore della «ragazza uccello» il suo punto cruciale e la conferma che l’amore ricompone l’unità, ma in modo assai diverso dalla volontà di dominio dell’androgino platonico: se nel Simposio, infatti, questi mira ad insediarsi nell’Olimpo, attaccando gli dei, l’androgino potenziale della Gualtieri non è altro che l’espressione armonica della cosa con il suo agire, della sostanza con il suo destino, all’interno di un ordine universale condiviso. L’amore tra due esseri, infatti, è come «il patto che lega la rondine al suo volo, la rosa al suo profumo, il vino al suo colore» (Ragazza uccello).

La danza mitica della terza parte, qui viene affidata a «due ballerine», non ancora capaci di creare il mondo, ma sapienti nell’usare una parola che ne canti lo «splendore», malgrado le apparenze.

Anche in questo libro, Dio, il Grande Assente, è invocato, così che «facci il suo lavoro di creatore», come dice – nella prima parte – il Macellaio, malmenando i congiuntivi; un «maestro del silenzio più duro», lo designa in Senza polvere senza peso (Tu, Dio, mi hai perduto –), che, così facendo, ci dà «una batosta» da reggere «senza indurire»; un «”chi” pericoloso/ amoroso tempestato burrascato», che dovrebbe «partorirci nella luce// sorprenderci», lo definisce l’oracolo di Paesaggio, invitandolo a produrre lo scarto che ci liberi dal tempo della povertà, «fino al pericolo di smarrimento», dentro il quale sentire che Dio e Uomo sono la stessa ferita, la medesima domanda radicale, cui rispondere scegliendo la prassi, il molteplice, l’etica che ci rende attori dell’evento. Come il teatro Valdoca, appunto. Non siamo lontani dal sentimento che abita la distanza immedicabile fra Dio e Uomo nell’ebraismo,23 e da Deleuze, allorché, indagando la serie di paradossi che appartengono alla logica del senso, fa implicitamente incontrare Spinoza con Nietzsche, il Dio-sostanza assolutamente infinita con il pastore che, recidendo la testa al serpente e sputandola lontano, sceglie l’istante che rigenera, il divergere continuo e creatore che l’essere è.

 

(in Stefano Guglielmin, Senza riparo. Poesia e finitezza, La Vita Felice, 2009)

 

Note

1.         Fuoco centrale e altre poesie per il teatro (Einaudi, Torino 2003) «raccoglie gran parte dei versi scritti a ridosso della scena, sotto forte influenza di quel mondo», dichiara la Gualtieri a Maurizio Casagrande, in Id., In un gorgo di fedeltà. Dialoghi con venti poeti italiani, Il Ponte del Sale, Rovigo 2006, p.164. Ancora, a p.169: «Sono molto grata al Teatro Valdoca e al suo regista, Cesare Ronconi, a tutte le attrici e attori per i quali ho scritto e che sembravano gravidi delle parole che poi ho fatto mie. […] Senza quell’esperienza la mia scrittura non sarebbe stata la stessa». Inequivocabile l’introduzione alla seconda parte di Fuoco centrale: «Ho dovuto riscrivere per gli attori e per le attrici, sotto la loro influenza battente e lieta» (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 1995, p.23). Si veda anche Mariangela Gualtieri, Paesaggio con fratello rotto, Sossella ed., Roma 2008, pp.87-92. Esemplare quanto ella affermi nella Premessa a Chioma (Teatro Valdoca, Cesena 2000, p.7): “Chioma è scritto per Gabriella Rusticali e per Cesare Ronconi che la ha diretta. Non solo è scritto per loro, ma è cresciuto insieme al loro lavoro, durante quattro mesi di prove blindate»

2.         M. Casagrande, In un gorgo di fedeltà. cit., p.164.

3.         Ibidem, p.164.

4.         Ibidem, rispett. p.164 e p.169.

5.         Fatto che sorprendentemente non accade se diamo credito alle innumerevoli antologie uscite negli ultimi dieci anni.

6.         «Io non so spiegarmi l’mperturbabilità/ di Dio, e non mi spiego di non udire il/ suo grave lamento…/ […]/ io non so invocarlo né bestemmiarlo che/ è troppo nella sottrazione e troppo/ astratto per i miei chili umani» in M. Gualtieri, Parsifal, Teatro Valdoca, Cesena 2000, Monologo del Non so, p.19.

7.         «Solo in parte sono d’accordo con Beckett. […]. Credo che il sentimento della “mancanza” sia il nostro ultimo baluardo di umanità, una memoria di bellezza da cui poter partire, per quella “sola possibilità di rinnovamento” di cui lui parla. Penso al rinnovamento come ad un ritorno a casa». Ibidem, pp.101-102.

8.         M. Casagrande, In un gorgo di fedeltà, cit., p.165.

9.         Ibidem, p.167. In Chioma, p.18: «Forse la gioia è la preghiera più alta».

10.      M. Gualtieri, Parsifal, cit., p.104.

11.      Passo citato da Marco Vannini nell’Introduzione a Maister Eckhart, La via del distacco, a cura di M. Vannini, Mondadori, Milano 1995, p.11.

12.      M. Gualtieri, Parsifal, cit., p.103.

13.      Ibidem, pp.105-116.

14.      Tutti portano comunque una profonda traccia della storia originale, la cui conoscenza è necessaria per comprendere le loro voci querule. In tal senso, consiglio la lettura di Claudio Risé, Parsifal, l’iniziazione maschile alla donna e l’amore, Red edizioni, Como 1988. Interessante il rilievo critico dell’autore in merito al valore simbolico di Parsifal (che potrebbe spiegare il fascino esercitato dal Cavaliere nell’inconscio della Gualtieri): «Parsifal, in quanto processo individuale di realizzazione del Sé, e cioè [junghianamente] della totalità psichica, è anche una vicenda di infaticabile ricerca e consolidamento di relazioni tra polarità opposte: uomo-donna, Occidente-Oriente, potere-amore. La successiva storia della cristianità europea ha tagliato di netto questa ricerca di unione, scegliendo senza mezzi termini per uno solo dei poli: l’uomo, l’Occidente, il potere» (p.140).

15.      Questo pensiero, in Occidente, mi pare sia assimilabile al parmenideismo di Emanuele Severino.

16.       M. Gualtieri, Chioma, cit. p.52.

17.       Vedi Scheda spettacolo nel sito della Compagnia (http://www.teatrovaldoca.it/)

18.       M. Gualtieri, Paesaggio con fratello rotto, cit., p.15.

19.      Ibidem, p.19. Scrive la Gualtieri a p.9: «Sono stanca di un’arte che inscena tragedie senza catarsi». La quale «trasforma il dolore in pietà e la pietà in energia riparatrice». Ibidem, p.94.

20.       Le citazioni sono rispettivamente a pp.67, 81, 63, 85.

21.      M. Gualtieri, Paesaggio con fratello rotto, cit., p.73.

22.      Ibidem, pp.47-48.

23.     Si pensi alle interrogazioni di Edmond Jabès, al «pensiero dialogico» di Martin Buber, al misticismo di Cershom Scholem, in cui l’inafferrabile parola di Dio trova nei segni tangibili la sua manifestazione fenomenica. Si confronti anche, nel presente libro, il saggio su Harold Bloom.

Stefano Guglielmin
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