Marina Pizzi : ‘Vigilia di sorpasso’

 

In attesa di leggere Il solicello del basto (Fermenti, 2010), prendo in considerazione l’inedito Vigilia di sorpasso, scritto da Marina Pizzi negli ultimi due anni e composto da 121 brani vagamente endecasillabi, che hanno per tema il morire d’ogni cosa (uomini, animali, vegetali, minerali), secondo il modello del male di vivere montaliano (ma vissuto anche nella propria carne), in un brulichio di immagini e figure in cui lo stesso mettere in scena il dolore diventa parte del quadro metafisico, con lieve riscatto per i vivi, comunque presi nella morsa del caos del mondo e di quello interiore. Qui c’è qualcuno che esce dalla comunità, morendo, e qualcun altro che vi rientra, dopo un soggiorno carcerario. Ma non sono i protagonisti del racconto, nessun eroismo postromantico: è infatti l’ordinario così come si esplica nel vivere comune il vero oggetto della poesia di Marina Pizzi, raccontato però attraverso un vedere straordinario, capace di trovare i legami segreti fra le cose, a partire da un delirio del soggetto che racconta con procedura analogica. E’ la via maestra del Novecento, come ben si sa, che nella poetessa romana segue la via del suono, attraverso rime (o finterime), spesso interne ipermetre (poesia 2.:”occaso / ciocca” e “ciocche / sciocchezze”), sillabe omofone o paronomasiche, che vanno a costituire, alla fine, l’elemento coesivo del testo, l’intreccio riconoscibile di una realtà altrimenti deflagrata in frammenti inabitabili. L’immagine è dunque sinestesica, andrebbe ascoltata più che vista, costruita attingendo dall’inconscio anziché dal catalogo delle cose note, facendo tesoro del surrealismo macabro piuttosto che dalla mimesis naturalistica. Tale complessità (per alcuni irritante), che tiene il lettore fuorigioco, è rotta da improvvisi squarci epigrammatici, luminosi (“nulla si adempie per tenerezza” e “l’orto botanico non riusciva proprio a consolare nessuno”), che portano chi legge dentro una distensione, un’ansa quieta, laddove prima gli sembrava di scendere lungo un rivo di montagna, con le strozze che impediscono di comprendere la destinazione. Il fatto è che il sorpasso dell’ora non porta in nessun eden (ciò che si trova “è solo un vuoto che rattoppa / un altro vuoto”), per cui meglio documentare la stratificazione del presente, la sua luce piena di inquietudini. Non sorprende che questa poetica – la quale, facendo tesoro delle avanguardie, senza tuttavia sprecarsi nel grottesco o nel gioco, ricava dal quotidiano la musica dissonante del dolore, la sua onda cupa e luminosa insieme, invisibile al primo sguardo e insopportabile alla prima lettura – non sorprende, dicevo, che l’autrice non trovi spazio nelle collane principali della poesia italiana e pochissimo, anche, nella critica militante, malgrado il curriculum di tutto rispetto (sulla sua poesia hanno scritto, fra gli altri, Pier Vincenzo Mengaldo, Luca Canali e Giuliano Gramigna), che forse, nel passato, ha talvolta portato sino al parossismo le acrobazie fonetiche, mascherando, senza volerlo, la maglia tragica del suo dire. Mi piace, invece, l’equilibrio raggiunto in Vigilia di sorpasso, anzi auspico un’ulteriore esplicitazione dei nessi analogici, una messa in chiaro che non sveli l’enigma, ma lo renda un poco più familiare, come insegna Baudelaire.

Stefano Guglielmin
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