Marina Pizzi: ‘Dallo stesso altrove’


Dallo stesso altrove

Marina Pizzi

2008, pag. ?

La camera verde (collana Felix)


[“già dal titolo il paradosso entra nel libro di Marina Pizzi: in uno stesso/altro che non è Borges ma semmai marcatura materiale di assenze: «un sillabario vuoto», maschera o calco che viene pianto. ogni ipotesi di «nuova vita» finisce=inizia allora in «perimetri di pericoli», nel «torto di vederci». ma in questo nastro che si rovescia su sé, e che sarebbe una serie di espedienti (il)logici se mancasse di buio (e davvero non ne manca), scatta una forbice a tagliare ogni facile attesa o formula del buio stesso. anche il nero, che pure arriva sempre, è sfatato, e l’infinito del verbo è un imprevisto: un impervio «morire per non morire / così come fan tutti»” [m.g.] ]

 

di Giovanni Nucis

Chi si avvicina alla poesia di Marina Pizzi, da ultimo leggendone questa silloge dalla fine veste editoriale, Dallo stesso altrove, intuisce subito (o dovrebbe intuirlo, se lettore di poesia contemporanea) di avere a che fare con un percorso poetico ed esistenziale tra i più originali e autentici, nell’attuale panorama letterario, e dal segno inconfondibile. Un percorso saldamente radicato che se da un lato esprime un elevato grado di strutturazione formale, d’altro lato lascia filtrare dal testo tracce importanti dell’impasto di lingua, invenzione e weltanschauung che dell’autrice riassume il tratto identitario.
L’inscindibilità della dimensione etica da quella puramente artistica, in Marina Pizzi, si può già cogliere dal titolo dell’opera: il poeta (la stessa autrice e/o i poeti in generale), questo il possibile senso, sta in altro luogo, è diretto in altro luogo; ed è dallo stesso altrove che derivano le poesie di questa raccolta e le precedenti; un altrove da cui il poeta si osserva e partecipa (o non partecipa) fisicamente, intellettualmente ed emotivamente agli eventi del mondo. L’altrove è dunque il luogo-non luogo dell’alterità per eccellenza; per l’artista, forse, l’unico spazio possibile.
Il primo componimento della raccolta (Con servitù al séguito), tra i più belli e commoventi, ci permette alcune riflessioni. L’espressione La servitù al séguito definiva un tempo, in modo infelice, il personale di servizio al seguito di famiglie facoltose durante i loro spostamenti; ma qui il senso è altro, o altri, supponiamo allertati dalla lettura di altre opere dell’autrice: la coazione a continuare qualcosa di iniziato (la poesia? la vita?) a cui non è possibile rinunciare; l’obbligo, a mal grado, di andare avanti, di non fermarsi. Il primo verso, fu che pianse un sillabario vuoto, s’avvia a comporre un quadro drammatico e di forte tensione emotiva. Il sillabario vuoto, con queste premesse, non può che essere sinonimo di impossibilità/difficoltà di esprimere/cantare il mondo, per assenza o inadeguatezza delle parole, irreperibilità delle sillabe-mattoni che le compongono; assenza che nei versi successivi (un baricentro senza corpo/una camicia senza petto) si estende al corpo e al petto in cui la vita si manifesta(va) ictu oculi. Del soggetto – indicato con la terza persona e con l’uso del passato remoto – emerge negli ultimi quattro versi la dimensione eroica e resistenziale (fu che resse una baracca/in mezzo al lusso delle residenze) e quella più intima e sofferta di uno sfruttamento, con conseguente disinganno per l’amore, la disponibilità e la fiducia mal riposti, traditi… (per farsi chiamare quando occorreva); con una chiusa che fonde ironia pungente e disillusione circa l’umano destino… (il disguido delle giostre sulle tombe).
Aspetti, quelli anzidetti, che ci mostrano, pur dentro uno scenario disperante, la possibilità di una postura dignitosa e composta, seppure non salvifica, di cui si fa accenno anche in altri testi della silloge (appena di sconfitta l’ilarità del viso/ma comunque un dolore), soprattutto nell’ultimo: a terra questo dolore a terra/che va a moria tettoia contro grandine/al lusso delle stasi.
Questa mia breve e parziale lettura della raccolta – una tra le molte possibili – lungi dal voler ridurre e semplificare l’intuibile complessità del percorso poetico, o anche solo di questa raccolta, non può che rimandare alla lettura del libro, e delle altre opere di Marina Pizzi. (GN)

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