L’ombra del Minotauro. Intorno al moto apparente del sole di Flavio Ermini


Il moto apparente del sole. Storia dell’infelicità

Flavio Ermini

2006, 301 p.

Moretti & Vitali (collana Andar per storie)


di Tiziano Salari

Intorno a Il moto apparente del sole-Storia dell’infelicità di Flavio Ermini

È uscito recentemente un grosso libro del poeta e saggista veronese Flavio Ermini, Il moto apparente del sole. Storia dell’infelicità, per l’editore Moretti & Vitali. Costituendo questo testo il culmine di una lunga attività poetica, saggistica ed editoriale, e quindi venendo ad essere una specie di summa del pensiero  dell’autore, esso va salutato come un evento importante nell’attuale dibattito sui rapporti tra poesia e filosofia. Sembra che finalmente ci si sia spostati in un’altra prospettiva rispetto al secolo che ci ha preceduti. Il passaggio  dall’800 al 900, invece, visto retrospettivamente, sembra aver subito un ribaltamento. Il libro che aveva avuto una grande responsabilità nel separare poesia e pensiero dalle analisi critiche, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. teoria e storia di Benedetto Croce. era uscito nel 1902 e a poco a poco aveva egemonizzato la critica letteraria. La lenta penetrazione della concezione di uno spirito suddiviso in Estetica, Logica, Economia, Etica, era stata fatta propria dai critici letterari e dagli storici della letteratura con la classica formula di poesia e non poesia, in cui non poesia era tutto ciò che non rientrava nell’intuizione sensibile e aveva a che fare con il concetto, a cui veniva delegata la filosofia. Sotto tali gravi limiti interpretativi cadevano i grandi poeti che sono stati anche grandi filosofi, come Dante e Leopardi. L’egemonia di Croce è tramontata da più di mezzo secolo , ma solo da poco sembra essere definitivamente caduto il più fondamentale degli assiomi crociani,  e cioè la separazione tra conoscenza logica e concettuale e conoscenza intuitiva o sensibile. Che  anche la poesia sia pensiero, e come tale vada interpretata, nel senso di gettare un fascio di luce, di conoscenza, sulla nostra condizione ontologica e temporale, è ormai una convinzione fatta propria sia dai poeti che dai filosofi  e che  a poco a poco imporrà una revisione anche nei canoni consolidati degli studi accademici e delle storie letterarie. Secondo Severino “nella sua essenza la filosofia contemporanea è la distruzione inevitabile della tradizione filosofica e dell’intera tradizione dell’Occidente” (L’anello del ritorno). Ma anche la poesia è giunta alla stessa fase  della distruzione inevitabile della sua tradizione occidentale. E anzi mai, come nella nostra epoca, filosofia e poesia sono state implicate nelle stesse problematiche, che partono dalla constatazione delle differenza tra concetto e sua espressione linguistica. Ora questo scarto irriducibile è quello che ha indotto il linguaggio filosofico a diventare metaforico e a cercare nella poesia risposte alle problematiche del senso della vita. E il linguaggio poetico a interrogarsi sulla sua portata conoscitiva. Si tratta di capire come la vita tenti di farsi intelligibile attraverso il linguaggio, e come procedano unitariamente Poesia e Filosofia in questo compito di trasparenza ,in cui tentano di ritrovare la loro unità originaria, presocratica. Il libro di Ermini è un capitolo importante di questa ricerca. Sia la Poesia che la Filosofia sono nate  dalla necessità che la vita umana  ha di trasparenza, di visibilità, di senso  , ed è proprio questo concetto di vita,  che entrambe hanno  nel loro centro,ed essere allo stesso tempo problematico e fondamentale nell’interpretazione sia dei testi poetici che dei testi filosofici.

Nel Moto apparente del sole, Ermini si fa carico di queste nuove problematiche attraverso un ampio ventaglio di scritture (brevi trattati, aforismi, poemetti in prosa, apologhi) e offre un contributo originale alla discussione intorno al rapporto tra scrittura poetica e scrittura filosofica.

Due citazioni, da Vico e da Leopardi, precedono l’ingresso nel testo: in entrambe siamo rinviati a un’antichità favolosa, siano quella dell’antica giurisprudenza che tutta fu poetica di Vico, sia all’equivalenza tra l’infanzia dell’uomo e l’antichità in Leopardi. Due situazioni di inconsapevolezza e di felicità ci introducono, dunque, nella Storia dell’infelicità.

E, fin dalla Premessa, Ermini, enuncia che “la dimensione dell’essere nel mondo è costituita dal dolore dell’esistere”, ma, citando  Leopardi, che il cuore può aprirsi e ravvivarsi  anche di fronte al dolore  “veduto nell’imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio”. In altre parole, se la vita  non è altro che l’esposizione di una fenomenologia dell’infelicità, la parola in cui cerca di rappresentarsi è la via  attraverso cui  essa diventa conoscenza (verità).

Con questo rapporto, tra il dolore e il suo rimedio, Ermini si ricongiunge all’antica saggezza tragica di Eschilo, dell’”Inno a Zeus”nell’Agamennone, così richiamata da Emanuele Severino ne Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo,  nella traduzione di M. Untersteiner: “Zeus vuole avviare i mortali a saggezza poiché ha stabilito la norma che un’assennata esperienza diventi efficace ad opra di tutti gli umani dolori. Quando nel corso del sonno goccia davanti al cuore l’affanno che desta il ricordo del male commesso allora anche senza il volere degli uomini sopraggiunge un profondo sapere. Questa è dunque una grazia soave dei demoni che con violenza stanno seduti sul sacro seggio”.

Le molteplici strategie con cui Ermini insegue il dolore che attraversa ”l’esistenza di ognuno, così come il cammino dell’umanità”, imprimono a questo libro una struttura labirintica  di passaggi, palesi e segreti, lungo “ le tracce di un pensare che si affaccia per combinazioni e rimandi, per richiami e visioni” (dalla Premessa). “Ecco uno spiraglio d’ombra nel compatto mondo delle idee: è la variante degradata della figura del Minotauro nel labirinto”.(p.45) Il labirinto, dice Benjamin, è la patria dell’esitazione. Ma, più che esitazione, l’indugiare di Ermini nel labirinto è il sapere che  solo nell’Intrattenimento infinito (Blanchot) dell’insensato gioco di scrivere , e non più in Zeus, è riposta la speranza di trovare un rimedio al dolore.

Ma se i sentieri che ci conducono nel labirinto  non sono due, come i sentieri del giorno e della notte di Parmenide, o della persuasione e della rettorica di Michelstaedter, ma variegati ed erranti nella circolarità infinita dell’esistenza,  il filo d’Arianna  che Ermini ci offre  sulla soglia dell’opera è “una faticosa discesa lungo sentieri a spirale, attraverso l’oscura notte dell’anima  – una specie di caligine psichica, estenuante e ambigua -, fino a uno spazio vuoto destinato alla trasformazione: una nuova nascita, in verità” (p. 25), ma non a mani vuote, bensì con la consapevolezza di essere alla fine della tradizione filosofica e poetica dell’Occidente e della necessità di un nuovo pensiero che infranga “la differenza dei codici”.

“La Poesia si è separata rapidamente dalla Filosofia. Che velocità vertiginosa nello spazio intercorso tra il venerabile Poema di Parmenide e l’antipoetica prosa di Aristotele! Ma la Filosofia, pur sempre figlia della Poesia, riuscì a creare nei suoi momenti di maturità, nella piena padronanza di se stessa, una forma in cui ricompare l’antica unità, sebbene irriconoscibile a prima vista”(M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima). Ma questa di Ermini non è solo la ricerca  di un ritorno alle origini, alle interrogazioni heideggeriane del detto di Anassimandro o della poesia di Hölderlin, ma qualcosa di più arrischiante e di diverso del “pensiero poetante” o di una commistione tra poesia e pensiero.

“Va assaltato il pensiero – dice Ermini – per accedere alla lingua muta delle cose”. Ma non è, questa   “lingua muta delle cose” quella da cui Lord Chandos, in Ein Brief di Hofmannsthal, attende che ci si palesi la rivelazione (“un innaffiatoio, un erpice abbandonato su un campo, un cane al sole, un povero cimitero, uno storpio, una piccola casa di contadini”), e neppure il mistico di Wittgenstein , che mostra sé, e cioè non come il mondo è, ma che esso è. “Quel negativo ante rem che rifiuta di articolarsi nella sintassi della ragione”, di cui parla Ermini, è il dolore che si è cristallizzato nelle cose, creature e cose  sono parole arrestate, cadaverizzate prima di essere dette, e che aspettano da noi di essere pronunciate fuori dall’incantamento in cui sono rimaste prigioniere.

Il punto di partenza della prima parte, Dietro il paesaggio, è  L’antro, “in cui regna il silenzio da cui ogni essere proviene e a cui ritorna”, cioè un luogo da cui si deve essere separati , come il neonato che si separa dal grembo materno, ma al quale si ritorna, con  la morte, quale grembo del nulla in cui finisce ogni cosa.

L’antro di Ermini, la nascita  dietro il paesaggio, è  simile alla caverna platonica. “Immagine della caverna. Immagine terribile della miseria umana” scrive Simone Weil “Noi nasciamo in castigo. Idea pitagorica. Non si parla d’una colpa originale, ma una tale colpa è implicita, tanto questa descrizione ha un colore penale, un colore di prigione” (S. Weil). Anche l’antro di Ermini ha un colore di prigione. E sappiamo che, per noi, non è altro che l’ingresso nel labirinto. Ermini aggiunge dunque un capitolo alla speleologia filosofica inaugurata da Platone.

Ma trattenersi nell’antro è anche la condizione estrema d’inconsapevolezza. “Uscita dall’antro, l’umana forma s’imbatte nella propria trasformazione”(p. 47). E la trasformazione non è altro che un succedersi di vane illusioni, fino a conoscere, leopardianamente, la nullità delle cose e l’illusorietà dell’esperienza. Non ci sono vie d’uscita dal labirinto del mondo vero. Dunque  è necessario individuare il luogo di un altrove , saldato insieme a questo mondo come il suo rovescio. Se il nulla si trova identificato nell’esistente, nella parola poetica si tramanda  l’ idea del mondo alla rovescia (p. 85).

“Poesia è passione per la verità che si apre al sottosuolo della storia e alle sue creature, ovvero all’essenziale dell’evoluzione umana compiutosi nell’antro” (p. 94). Quindi  i nomi che convoca Ermini nella Premessa, quali numi tutelari del suo attraversamento del labirinto , sono quelli decisivi nel  provocare quel rovesciamento di prospettiva rispetto al mondo dato e alla logica del senso comune: muoversi da Eraclito a Celan, da Dostoevskij a Nietzsche, da Hölderlin a Heidegger, da Leopardi a Zambrano, da Petrarca a Zanzotto, è come tenere acceso costantemente un fuoco che  rivela le parti nascoste  delle cose e dell’esperienza umana. Scrive Ermini, nel paragrafo Il viaggiatore della  Seconda Parte “Mettersi su ogni strada offerta dal paesaggio significa accogliere tutto del paesaggio. Significa non scartare alcuna possibilità e riconoscere l’oscillazione di senso propria dei fenomeni di cui viene fatta esperienza”(p. 163). Che significa? Significa che il labirinto, dai cui dedali, direbbe Nietzsche, non c’è via d’uscita e nel quale incombe la distruzione per opera del Minotauro, è meta e destino dell’uomo della conoscenza. La ricerca della verità non fa altro che condurci nel labirinto e in balia del Minotauro. Ogni pagina di questo bellissimo girovagare nel labirinto di Ermini ci dimostra che l’uomo della conoscenza ha anche un fine completamente diverso. “Un uomo labirintico, scrive Nietzsche, non cerca mai la verità, ma sempre soltanto la sua Arianna – qualunque cosa egli possa dirci.” L’Arianna di Ermini assume molteplici facce che sono le facce della verità, “ ma  spinte verso  il suo altro, che è esso stesso come la verità ma non è nessuna di quelle verità che vengono concepite come verità” (Jaspers, nel suo Nietzsche).  O come scrive lo stesso Ermini: “Non è nella verità chi ritiene di possederla. E nemmeno chi la cerca. È nella verità chi sta sulla sua soglia, sapendo di non poterla inventariare se non in modo frammentario (p. 221). Aggiungere a questa terra un’altra terra, l’Antiterra della poesia, è far irrompere nella trama illusoria della nostra storia […] un frammento di verità”(p. 282). La poesia sta dunque al centro della geografia labirintica  come fiamma  di pura intuizione che risveglia le parole arrestate nelle cose e cristallizzate nel dolore, in “un processo cognitivo mai concluso” (p. 293) in cui si rende intelligibile  quella trascendentalità della scrittura  poetica rispetto al reale  che rappresenta l’estremo rifugio della theologia platonica della caverna, quale analogia della condizione umana di cattività, esilio, infelicità.

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