Altre Voci n.3: Fine d’identità


Il brano che si presenta è tratto da Corona (di prossima pubblicazione per le edizioni de La Camera Verde), libro di Luigi Severi imperniato sulla figura della mistica duecentesca Angela da Foligno[1]. È questa a parlare in prima persona nel testo fine d’identità:


sentirmi addosso le curve del seno
madide di una carne,
di un proclama

il taglio genitale è prima ferita
contrafforte scoperchiato degli opposti
strazio che libera vita, piacere che gesticola
in sangue e strappo
servaggio di sé e liberazione

seconda ferita è la bocca che si impregna
di una strada inspirata, o della morte morbida
di cenere esalata

terza ferita è l’occhio che cattura
il segno in un lampo,
stanco poi si rimargina

o s’impiaga


Il testo si può dividere in 5 parti:

– i primi tre versi introducono non soltanto il prosieguo del testo, ma uno degli snodi semantici del brano e forse dell’opera tutta. L’endecasillabo posto a esordio denuncia subito una carnalità subìta (sentirmi addosso), esibita ma non del tutto rinnegata dalla sineddoche successiva (le curve del seno) che nel pudore del corpo accennato (non il seno, bensì le sue curve) cela un erotismo accolto, sia pure in chiave penitenziale;

– le tre stanze successive denudano l’oggetto, dichiarano apertamente (una confessione?) tre possibili aperture al piacere (organo genitale, bocca e occhi) in un climax discendente (a questo proposito si potrebbe azzardare che a compiersi è un orgasmo colto dal suo apice al progressivo rilassamento della carne) che coinvolge una sensibilità femminile (il pudore velato/svelato della Santa) e la confonde alla ripartizione (e dinamica) maschile delle tre fasi di godimento. L’iconografia offerta dai tre momenti di liturgica passione (il numero 3 non sarà scelto a caso), sono restituiti al lettore con fedele osservanza ad un immaginario consueto, quasi a non voler sforzare lo sguardo che, assuefatto al quadro, può entrare al suo interno e scorgere quanto esso nasconde per rivelare. Di qui la sola rima del testo: una rimalmezzo – ferita/vita – in cui è esplicitato il primo nucleo metaforico;

– è nel quinto ed ultimo passaggio (o s’ impiaga) che si compiono le due azioni successive: la prima, circolare, rimanda all’incipit e realizza una sorta di chiasmo erotico; la seconda, verticale, scende nell’intima percezione dell’umanissima Santa che oltre alla salvifica rimarginazione della ferita oculare contempla il più laico (si oserebbe dire blasfemo) persistere del segno, che non passa, che non trova espiazione (ecco la contraddizione al dogma, la vera rivoluzione che alcuni Santi incarnano in quanto eccezioni alla norma).

Sembrerebbe, quindi, accendersi nel testo non tanto una lotta tra dimensione spirituale trascendente e dimensione secolare immanente, quanto un’accettazione del compromesso, una sorta di lucido abbandono alla coesistenza di umori, trasporti e affidamenti in apparenza opposti, ma che forse rappresentano volto simbolico e volto reale, volto terreno (peccaminoso) e volto sublimato (penitenziale) del medesimo archetipo: l’eros. Nell’accostamento a tale incandescente e pericolosissima materia l’autore trova l’unica via concessa, ovvero la testimonianza. Pur adottando la prima persona, Severi narra un’immagine e lo fa in tono a-temporale, senza fratture o deviazioni rispetto a ciò che l’immagine stessa, così come l’autore la inquadra, offre. È uno slow-motion che registra la bellezza di quel momento confidenziale, cristallizzato e quindi senza tempo, con l’ulteriore beneficio del dubbio, del dopo-immagine che non è dato sapere e che conduce in un verso (si rimargina) o nell’altro (si impiaga) dissolvendo l’immagine nel nero senza risposta: non casuale l’omissione del punto a fine testo, a dissolvere nel bianco la lettura.

Cogliamo l’ultima notazione, ed il contrasto bianco/nero in essa sintetizzato, per richiamare un fermo immagine che forse spiega meglio di queste parole le intuizioni e gli spunti colti nel testo. In una sequenza dell’Andrej Rublëv di A. Tarkovkij il protagonista si trova nei pressi di un fiume e assiste di nascosto ad un rito pagano in cui donne nude si immergono nell’acqua. Il monaco Andrej è sconvolto, eppure il suo sguardo è tentato. Isolando il fotogramma da ciò che precede e segue nella trama, si può osservare la presenza del testimone (Andrej), l’armonia del quadro in cui campeggia la simbologia religiosa (l’albero, ovvero l’Albero della Vita o della Conoscenza) e omogenea al quadro, immersa in esso e solo lievemente sfocata, la donna denudata, immagine dell’eros che non fa violenza all’equilibrio dell’immagine e che in qualche modo, lievemente, si nasconde e allo stesso tempo si protegge in essa. Compresenza di spiritualità e carnalità, liturgia e blasfemia, si diceva a proposito del testo.

Citando proprio A. Tarkovskij: “La verità, manifestata dalla bellezza, è enigmatica; essa non può essere né decifrata né spiegata con le parole, ma quando un essere umano, una persona si trova accanto a questa bellezza, si imbatte in questa bellezza, sta di fronte a questa bellezza, essa fa sentire la sua presenza, almeno con quei brividi che corrono lungo la schiena. La bellezza è come un miracolo, del quale l’uomo diventa involontariamente testimone”. Al cospetto della Santa e del suo erotico rapimento attraverso il proprio corpo, di fronte alla sofferenza del pentimento che ne consegue e alla sua inspiegabilità (per questo l’ultimo verso è annunciato o sospeso da un a capo, da un bianco così pesante?), posto davanti ad un’immagine tanto attraente quanto densa di inquietudine, l’autore registra, si interroga e osserva a sua volta il lettore, così come il monaco Andrej che non si spiega la nudità eppure, dopo averla osservata, volta la testa e condivide con lo spettatore il medesimo sguardo.

 

 


[1] Da una nota di Luigi Severi: “La voce della Corona appartiene ad Angela da Foligno. Nata intorno alla metà del Duecento, di casato ignoto; sposata bene; segnata dal’improvvisa morte di marito e figli, in seguito ad un’ignota ma certo rapida successione di eventi; convertita nel 1285; da questo momento in poi, povera per scelta e immersa in una vita penitente di aspra radicalità. La sua mistica (testimoniata dai suoi scritti, sopravvissuti solo nella traduzione latina dell’originale umbro) è insieme intellettuale e carnale, visionaria e terrestre. Vi si legano la percezione feroce del male e il tentativo di compensarlo attraverso la follia dell’estasi, aspetti mediati dalla volontà di bere fino in fondo della sofferenza umana, attraverso un contatto continuo con i reietti di ogni società”.

Giulio Marzaioli
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