Milo De Angelis – una nota di Paolo Zublena

De Angelis nasce come Atena dalla testa di Zeus, già adulto e armato. Somiglianze è infatti libro in cui si mostra un autore già straor­dinariamente maturo, raccolto attorno ad alcuni temi che saranno le storie continuamente (ossessivamente) narrate nell’intero corso della sua avventura poetica: il confronto con la donna-amazzone e con la donna desiderata, il gesto sportivo che concentra l’apertura verso l’alterità, l’erranza attraverso una Milano vestita di grigio e di cenere, insieme distinta e confusa tanto da comprendere infinite altre città. Una mitologia, se vogliamo, ma fatta di miti poco sfiorati dal morbido dell’elegia o dallo scandito dell’epos: di miti – insomma – inesorabilmente tragici, contratti nella tensione fra finalità e finitudine. […] La soluzione stilistica adottata in questa raccolta di esordio è improntata a un ritmo discorsivo non alieno da moduli dell’oralità, rappresi però in forme di corto circuito metaforico dal senso non immediato.

In Millimetri il rigore della concatenazione delle immagini si fa più verticale, fino a giungere a un potente e ghiacciaio astrattismo. Non si deve però compiere l’errore di rubricare la poesia di De Angelis sotto l’ambigua etichetta dell’orfismo (o peggio del cosiddetto neo-orfismo di alcuni contemporanei): si legga del resto Climi, in Poesia e destino, dove si registra il “ribrezzo” per l’attributo “orfico” applicato alla poesia di visionari come Campana e Rimbaud, “due tra le posizio­ni più matematiche del furore mediterraneo”. Semplicemente, la ‘complessa sintassi delle immagini – né automatica né propriamente surrealistica, ma semmai coattivamente vertiginosa – si disegna sotto la guida di un comando che identifica tragedia e necessità, e nondi­meno vi si affida senza maschere o coperture […] Inizialmente Millimetri doveva essere solo la prima parte di un libro virtuale il cui seguito – Terra del viso – apparirà più tardi nello “Spec­chio” mondadoriano. […]

[Qui] la verticalità di Millimetri si lima leggermente, ma soprattutto viene dialogicizzata e a tratti persino inquadrata in una teoria che non esula comunque dalla tradizionale concezione della ratio. In Ritrovo una sintassi il gelo del goufjre viene affrontato con nuovo equilibrio, e la restituzione della “paura di morire” allude a un senso del tragico di virilità quasi hegeliana. Anche il suicidio di Marina ?vetava, sceneggiato figuratamente in ?istopol attraverso la diletta immagine del velocista, è interpretato come un’estrema forma di fedeltà alla propria vocazione di poeta. L’oltranza linguistica del libro precedente guadagna un minimo di distensione e affabilità, senza per questo rinunciare a una testualità semanticamente eterodossa.

Il suc­cessivo Distante un padre porta avanti la rappresentazione di un equivo­co tragicamente aporetico tra origine ed esteriorità, spesso mescolan­do il quotidiano con immagini sintagmaticamente turbate, come acca­de nel testo dedicato alla notizia del suicidio di Remo Pagnanelli (Remo del gennaio conosciuto), o in quel meraviglioso “chilometro indici­bile novecento” che chiude una poesia, L’analisi del periodo, che ha per oggetto scoperto l’esperienza della droga, così indelebilmente incisa nello Zeitgeist degli anni Ottanta, mirabilmente iconizzata in una sequenza di immagini che realizzano l’estensione della pura esistenza negata al piano dell’assiologia morale, ma non per questo diseticizzata. Di grande interesse l’esperimento, quantitativamente esiguo (otto testi in punta di libro), delle poesie in dialetto monferrino (lingua materna): dove, lungi dall’esperire il fastidioso cronachismo elegiaco e sentimentale di tanta produzione dialettale – attenta solo alla ricerca di un mitologico pre-linguaggio (presuntamente) autentico del nudo sentimento -, si tenta invece di economizzare ulteriormente i mezzi linguistici per significare in modo ancor più diretto la tragedia dell’esi­stenza nel suo aspetto più quotidiano. Sul piano della lingua, va notato che sia la coesione testuale (mai in realtà minata alle fondamenta), sia la coerenza semantica si avvicinano gradatamente ai modi della lingua standard, limitando l’effetto di spaesamento a un numero più ridotto di chocs semantici nella sintassi delle immagini.

Dopo una decina d’anni, arriva alle stampe, finalmente, un nuovo libro, Biografia sommaria. La biografia è sommaria in primo luogo perché i dati dell’esistenza sono minimi, essenziali, tanto lontani dall’impressionistica aperçu quanto inidonei a comporsi in un ordine diegetico che presupporrebbe l’impraticabile certezza di una storia ben formata. Ma la biografia sommaria è anche summa delle biografìe: con la neutralizzazione del soggetto l’esistenza indi­viduale perde i suoi contorni, l’autobiografia resiste solo come autobiografìa di un altro […] Ecco che gli episodi, quasi sempre sovrapponibili a quelli delle precedenti raccolte, scoprono il loro carattere di scene primarie – lato sensu – provenienti da un passato che è stato necessità prima che avvenimento. La lingua, da sempre orientata sull’essenzialità di uno stile semplice, si fa ancora più disadorna, semmai addirittura bordeggia talvolta un canto prima esplicitamente rifiutato. Soprattutto, si osserva un vistoso ritorno del narrato (che un poco si rinsalda al primo libro), evidente nella magnifica sezione Capitoli del romanzo. Si legga la storia di Cartina muta, dove le cose si compongono in un disegno inevitabile: ripor­tare “esattamente / i fatti e le parole” vuol dire far coincidere poe­sia e destino, essere giusti con il viso tragico della vita, ammettere e affrontare quel “dentino muto” (il finale dell’agnizione della fini­tezza paterna che si riflette in quella nostra di figli già sempre orfa­ni in Incarico annuale) il cui abisso interamente condiviso può nascondere il pensiero utopico di una inesplicabile rinascita (“ora che stiamo per rinascere”).

La raccolta più recente di De Angelis, Tema dell’addio, è un libro in morte, dedicato alla moglie Giovanna Sicari. Faccia a faccia con il lutto, Tema dell’addio non cede a riparazioni elegiache, ma coglie il risultato tutt’altro che facile di assumere in toto la tragicità e l’irredimibilità della perdita senza precipitare nel gorgo del nichilismo. L’ineluttabilità del perduto è nel contempo inesorabile presenza del passato, l’accadimento che sfiora l’evento: in uno scenario di quoti­dianità feriale e periferica – normalità abissale -, l’immagine dell’as­soluta immanenza attiva un dialogo silente con i morti. […]

(di Paolo Zublena, Milo De Angelis, in AA.VV., Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, luca sossella editore, pp.173-176

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