Milo De Angelis – una nota di Daniele Maria Pegorari

Dal modello mai troppo lontano di quest’ultimo prende le mosse, d’altra parte, anche il quasi coetaneo Milo (Camillo) De Angelis (Milano 1951), soprattutto in ordine alla natura propria di quel signi­ficato che la parola s’incarica di cogliere, recuperando solo con molta fatica temi e movenze della metafisica ermetica: celata dal velo opaco dei fenomeni che si accumulano nello spazio fisico, così come le cate­ne linguistiche si affollano sulle pagine perlopiù indecifrabili, algide e ostili del poeta milanese, la verità noumenica non è assolutamente inattingibile, ma coincide con un messaggio grave e tragico di cui la poesia non può che limitarsi a essere fedele trascrizione. Vi è un carat­tere costante, infatti, nella non cospicua poesia di De Angelis, dal volume d’esordio Somigliarze (1976) almeno fino a Distante un padre (1989), e consiste nella percezione di un «ordine» pregiudiziale, di una profezia mai luminosa, quasi un’ingiunzione severa che impone al tempo successivo – quello in cui si svolge la vita cosciente dell’indivi­duo e lo stesso atto poetico – un procedere immodificabile e irrespon­sabile. In questo consiste l’atteggiarsi propriamente deangelisiano del tema “mitico”, non già come estetismo di forme culturali e di paradig­mi antropologici, bensì come predeterminazione del tempo storico al di fuori della responsabilità etica dell’individuo, vittima di un destino già scritto. Per usare categorie care all’Auerbach teorico dei generi dell’antichità, si direbbe che all'”epica” cara a Giuseppe Conte (con un soggetto-poeta colto nel suo atto eroico di affermazione in una realtà di deiezione) corrisponda la “tragedia” di De Angelis, in cui il “carattere” (l’uomo) è votato al naufragio delle intenzioni, a fronte dell’aggressività di una volontà superiore.

Ritorna, dunque, il tema dell’esistenza come prigione, così caro a Montale, ma la nozione della visibilità del male o, che è lo stesso, del­l’epifania del «nulla» è ora rovesciata in quella dell’invisibilità del bene, giacché la vita, condotta come obbediente avveramento di una sentenza già scritta, perde quel valore luminoso e salvifico ch’era proprio della poesia di Luzi e Bigongiari. Non so quanto questa consuetudine con un’idea coercitiva della vita possa aver influito sulla scelta di divenire insegnante di Lettere nel carcere di Opera, nei pressi di Milano, ma certo la tragica sorte della moglie, Giovanna Sicari (1954-2003), poetessa tarantina, pure lei insegnante nelle carceri (ma in quel­le romane di Rebibbia), sembra l’esito funebre atteso da sempre, annunciato dalle ombre misteriose stagliate dalle cose e dalle sensazio­ni trascritte nei libri degli anni Settanta, Ottanta e Novanta e tragica­mente realizzato in un ospedale di Roma, dove alla poesia non resta che assecondare la necessità del racconto di uno strazio, come avviene nel sesto e per ora ultimo libro, Tema dell’addio (2005), tanto più bello quanto meno “deangelisiano”. Mi sembra, insomma, che il dolore incommensurabile per la morte della sua compagna di vita assuma il medesimo valore, sia pur

“ridotto” alla dimensione privata, che gli ermetici avevano attribuito alla guerra, l’evento terribile che diede pal­mare evidenza e concretizzò il senso di vuoto di cui si era nutrita la poesia degli anni Trenta e, insieme, proprio nel suo essere incarnazio­ne di un oscuro presentimento, acquietò l’ansia dell’ignoto e ridonò fiducia nella colmabilità almeno provvisoria di un’attesa altrimenti indefinita e atematica. La guerra, in altri termini, in quanto attentato diretto contro l’esistenza dell’individuo e della collettività, impose di dare finalmente un “nome” all’assenza e al terrore e sollecitò una soli­darietà umana che si tradusse anche, sul piano stilistico, in una più distesa comunicatività. Allo stesso modo, il prolungato aggirarsi di De Angelis nei territori dell’annuncio irrevocabile, di un tempo acronico popolato da fanta­smi e sensazioni impalpabili di inospitalità e solitudine (espresso, appunto, con un linguaggio deliberatamente enigmatico e indecodificabile), dinanzi all’immane tragedia della perdita della persona più cara si trasforma nella perlustrazione di un ambito non meno inquie­tante, ma certo più riconoscibile e ordinario, come per una resa (a mio parere, una felice resa) all’umanità di Orfeo che chiede udienza per il suo lamento in morte di Euridice. A dare coerenza all’intero percorso di De Angelis sono alcune costanti stilistiche che si dispongono sia sul versante retorico, sia su quello semantico e scenografico. Sul piano della connotazione, infatti, il poeta milanese predilige una scrittura martellante e ossessivamente ripetitiva, sia nell’ambito dello stesso testo (con geminazioni continue di singole parole o sintagmi, o con più sottili riprese.foniche, quali allitterazioni, rime esposte e soprattutto interne), sia da un testo all’altro, addirittura persino nello svolgersi di libri differenti (come forse solo in Piersanti si è visto fare nei decenni più recenti), come quello «stridere delle lenzuola» della tredicesima lassa di L’oceano intorno a Milano (in Biografia sommaria, 1999), poi ripetuto nel terzo frammento di Hotel Artaud (in Tema dell’addio).

Già quasi in apertura di Somiglianze fa capolino il tema della predeterminazione dell’individuo, colto nella frustrazione della ricerca di sé: «[…] non incontrerà mai / la sua invocazione, l’imperativo / a cominciare, il bacio semplice I… I… I… si fallisce sempre / a un sof­fio dalla sintesi […]» ([^immunità avara; si badi che la serie di puntini sospensivi nel passaggio centrale è già nel testo, come a indicare una lacuna ab origine, un nascondimento di senso nel quale si annienta il soggetto, ed era già un uso campaniano, dunque orfico); e ancora: «[…] non c’è più tempo per fare l’attimo I […] quante volte è successo / dentro questi ordini complicati / nel mondo rivelato / a chi si volta dal­l’altra parte /[…] conta solo ciò che esce per primo /[…] è sempre tardi per precisare-» (i versi, in corsivo già nell’originale, ma alternati ad altri in tondo, sono tratti da una lirica dall’eloquente titolo Le cause dell’i­nizio). Si noterà, dunque, un impedimento quasi claustrofilico deter­minato dall’impossibilità di sciogliere un voto inconsapevolmente con­tratto e dall’obbligo di eseguire un ordine ascoltato: non credo che sia casuale che i tre libri successivi, Millimetri ( 1983 ), Terra del viso ( 1985 ) e Distante un padre, inizino ciascuno con una poesia sull’obbedienza a un’ingiunzione: «Chi genera il tempo / ha il volto arato e con pazien­za ripete / che noi ubbidiamo» (I bastoni); «nessuno, ve lo ordino, nes­sun abbraccio […]» (Le squadre); «[…] Mezzogiorno / che nel suo ordine si rovescia» (Anno). Terra del viso è forse persino più esplicita, laddove fa udire a un alter ego femminile la sua stessa voce che intima un ordine ormai dimenticato: «Era questa – tra i salmi / della legge -la voce / che hai ripetuto all’inizio, / la potente sillaba, prima / di te stessa» (Lettera da Vignale), o quando ne fa l’esecutrice di una condan­na a morte: «[…] Tu che / compi l’esecuzione» (Nella storia). Una variante si avrà poi nella lirica incipitaria di Tema dell’addio, martella­ta per quattro volte

dall’enunciato «è avvenuto», che esalta il compi­mento e la chiusura del tempo, anziché la sua trasformabilità, come due poesie più avanti, laddove il rimpianto per un tempo perduto è espresso dalla triplice ripetizione della frase «Non è più dato».

Come si può vedere, nulla è cambiato nella poetica trentennale di De Angelis, se già in Millimetri il tempo appariva reciso e archiviato nel silenzio: «e si compiono gli anni, a manciate, / con ingegno di for­bici», si legge in Ora c’è la disadorna. Basterà aprire proprio il volume einaudiano del 1983, per il quale, prestando fede a qualche confessio­ne disseminata qua e là in prose e versi, si è sospettato il ricorso agli psicotropi, al fine di aumentare la concentrazione del verso e l’azzar­do delle immagini, e il lettore comincerà a familiarizzare con un reper­torio di lemmi-chiave che avranno fortuna nelle raccolte seguenti, come «camion» o «segnatempo», per non dire di quell’ingombrante e quasi onnipresente scenario milanese (e siamo al secondo ordine di coerenza lungo l’opera di De Angelis), di quella metropoli che in biografia sommaria, libro-cerniera fra l’astrattismo della prima lunga stagione e le temperature più alte di Tema dell’addio, viene apprezza­bilmente definita «Nostra Signora degli insonni» o «Nostra Signora delle nebbie perenni e del minuto»: ora De Angelis appare attratto da una concretezza molto “lombarda”, nella speranza di catturare nei particolari topografici perlopiù periferici o popolari, dall’Idroscalo a Rho, da Lambrate a Greco, fra vie camionali e capannoni industriali, i segni di un “oltre” misterioso, di un «silenzio che chiama le cose»   (L’oceano intorno a Milano, V).

(di Daniele Maria Pegorari, Critico e testimone. Storia militante della poesia italiana 1948 – 2008, Moretti & Vitali, 2009, pp.179 – 183)

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1 Comment

  • Finalmente un critico dotato di sguardo storico! Molto utile – anche nei suoi rilievi stilistici – questa esegesi di Daniele Maria Pegorari!

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