Le lacrime delle cose di Gabriella Sica. Intervista all’autrice

Le lacrime delle cose è l’ultima di una serie di opere (quattro in poesia, due in prosa e due saggistiche) che mostrano una ricca ispirazione, ampia e frastagliata. Come nasce questa raccolta di versi e come si inserisce nel suo percorso poetico?
Guardando il mio libro dall’esterno mi accorgo che non c’è un centro né un tema unico. Una struttura stellare, qualcuno ha osservato. Le poesie sono arbusti di una stessa fascina, come le oche trafitte o macellate, i bambini uccisi a Beslan, le famiglie separate, gli amici e i poeti scomparsi, o sono tizzoni che emergono dal fuoco in cui hanno bruciato, come le torri gemelle, sono relitti del tempo passato, reliquie, come sempre è la poesia. Quando scrivo penso a una presenza e a un luogo. E quando la poesia è scritta, immancabilmente è una poesia dell’assenza e dell’invisibile, di quello che ci è stato tolto o di quello che manca o di quello che è nascosto e sepolto. La poesia è sempre un porto sepolto.

 

Nel suo libro si parla di varie sofferenze, sue personali e anche di eventi più generali: la scrittura in versi, dunque, come terapia per guarire?
Le lacrime scorrono come scorre la nostra vita. È qualcosa di oggettivo, non personale, qualcosa che appartiene alle cose, quelle che appaiono già nel titolo. Non mi piace l’io, spero piuttosto che ci sia l’oggetto, qualcosa di non retorico o evanescente. In questa oggettività soltanto intravedo una possibilità di salvezza più che una terapia o una guarigione. La poesia rinnova proprio una tradizione di salvezza, nonostante tutto. E fa prove di avvicinamento a una centralità erosa e ormai volatilizzata.

Su cosa si basa il suo multiforme linguaggio poetico?
Varietà tematica e varietà metrica: se intende dire questo, sì, è vero c’è una certa varietà. Le poesie di questo mio libro hanno ognuna un tema diverso, e ognuna una sua forma metrica, con ampie escursioni che vanno dal distico o dall’haiku al poemetto e perfino alla prosa in versi, così come ognuna comprende la suggestione di un poeta letto, un’idea, un moto dell’anima, perfino una semplice parola, a partire dalla quale ho iniziato il mio piccolo cammino. Ogni poesia è sempre un piccolo cammino. La compattezza di un libro non per forza è data da un tema, può anche essere soltanto il tono. Ai toni dedico infatti una mia poesia, i toni dei sentimenti e i toni delle parole con la loro musica peculiare. È il tono che specifica un poeta, il tono di Leopardi o di Caproni, toni indimenticabili e unici, inconfondibili.

 

La sua poesia appare semplice al primo impatto, anche se evidente risultato di un lavoro ben più complesso.
Ho un sogno: quello di una poesia chiara e sapiente, semplice, quasi popolare, e tuttavia pregnante di una tradizione. La poesia italiana è sempre stata una delle più grandi al mondo. Non si può buttare a mare tutto. Non si può scrivere, io penso, senza tener conto di quello che è stato scritto, per ricordarlo e reinventarlo, rilanciarlo verso il futuro. D’altronde è un fenomeno del secolo scorso quello di una poesia oscura, ermetica e dunque nobile, comprensibile solo agli iniziati. Un fenomeno e anche un equivoco che si è prolungato a lungo. Giustamente la Szymborska ha parlato (e praticato) la necessità di un superamento della frattura tra “il poeta e la grande famiglia umana”. Perché da troppo tempo i lettori si sono allontanati dalla poesia, si sono abituati a un’assenza che è anche una povertà.

 

Roma è ben presente nella raccolta di poesie: come vive la poesia della Città Eterna?
Una poesia che si cimenta comunque con la poetica delle macerie e delle rovine stratificate, inevitabile per chi come me è cresciuto e si è formato a Roma. Questo sentimento delle macerie l’ho provato acutamente alla fine degli anni Settanta, dopo un decennio dissestato e una poesia ideologica che ne era il corrispettivo analogo, almeno come sentimento generale, quando ho cominciato a pubblicare le mie poesie: dunque poesie come sfida alle macerie e scommessa personale di fiducia e rinascita. E sono tornata a provarlo quel sentimento delle macerie con la stessa acutezza all’inizio di questo decennio, contrassegnato dal crollo delle Torri e dallo sconquassato mondo globale. C’è inoltre il ricordo di una Roma aperta, vivissima e ricca di energie, abitata da poeti che non ci sono più, da Amelia Rosselli a Dario Bellezza, da Beppe Salvia a Paolo Prestigiacomo, da Pietro Tripodo a Giovanna Sicari, figure amiche e poeti andati via troppo presto. La Roma di oggi sembra una somma di solitudini, di case dove le famiglie sono sparpagliate, dove si respira ostilità e non c’è traccia di comunità. Tuttavia Roma è sempre una città bellissima e clemente. E Roma non è Beslan è il titolo di una poesia. Sopravvive tra i miei versi la Roma dei bar che amo e che sono per me oasi insostituibili e riparate di felicità, una pausa al camminare della giornata, una sosta dove leggere, guardare le persone che camminano, incontrare qualcuno. C’è una luce a Roma più vibrante e luminosa che in qualsiasi altro luogo.

 

Quale significato possiamo dare alle oche bianche di Villa Borghese?
Sì, a Roma, ci sono persone e animali: gli storni alla stazione Termini, che sono nel titolo di una poesia, o le oche dei laghetti nelle ville. Le oche sono bambine ancora candide, sono angeli inattesi, sono esseri dolenti e un po’ creduloni, come siamo tutti noi davanti alla vita, destinati al sacrificio. Sono un po’ le sorelle dell’agnello sacrificale, figlie innocenti di Dio. E sono anche uno squarcio di candore struggente e di luce.

 

Vorrebbe dare qualche consiglio ai “poeti in erba” che potrebbero leggere quest’intervista?
Per cominciare, leggere e leggere. Poesia e anche molta prosa. La poesia nasce dall’intreccio misterioso della vita sperimentata o immaginata e della vita letta. E poi non aspettarsi molto da niente e da nessuno. Se sarà davvero necessaria, la poesia fiorirà, proprio come un fiore alla cui nascita ha concorso la natura e la sapienza divina, l’esperienza e la tecnica. E la poesia chiede molto, è la scommessa di una vita, e non ripaga certo direttamente. Non ha alcuna funzione sociale o mercantile la poesia oggi, come del resto sempre. E i poeti sono “improtetti”, per usare un termine di Amelia Rosselli. Però hanno la rete, con le sue possibilità illimitate, la sua velocità ancora sorprendente, una palestra a volte forse ingombra ma ottima per provarsi. Anche se non ha affatto sostituito, bisogna dirlo a distanza di quasi vent’anni dal suo esordio, il libro, e tantomeno il libro di poesia, che resiste, nonostante tutto. E poi ogni generazione, ogni poeta ha la sua responsabilità. Ogni poesia è un tentativo di uscire a proprio modo dallo stallo e dalla miseria del proprio tempo.

(da Booksblog.it)

Redazione
Written By
More from Redazione

Giusi Drago: Tempo negoziato – 15 Febbraio, Torino

Giusi Drago presenta Tempo negoziato La Camera verde Roma 2014 15 febbraio...
Read More

Lascia un commento