Umberto Fiori: Voi – una nota di Massimo Gezzi

Voi

Umberto Fiori

2009, 90 p., brossura

Mondadori (collana Lo specchio)

 

Il poeta che più ha condizionato la poesia lirica degli ultimi settecento anni, Francesco Petrarca, scelse di iniziare il suo canzoniere con un pronome che è anche un vocativo assoluto. Non “io” o “tu”, però, ma “Voi ch’ascoltate”: così l’io lirico si distingue immediatamente dal suo immaginario uditorio, che sarà spettatore e giudice del suo “giovenile errore”. Non è che Petrarca c’entri poi tanto, con l’ultima raccolta di Umberto Fiori, intitolata proprio Voi (Mondadori, € 14). Eppure la trovata dell’ex-cantante degli Stormy Six in qualche modo nasce anche come dialogo con una tradizione e un genere che da quelle parti trovano le loro robuste e longeve radici. Il libro di Fiori si configura come un poemetto insieme coerente e imprevedibile (un canzoniere?), in cui dialogano (o monologano) due personaggi, o meglio due persone, ovvero un “io” e un “voi” che si escludono ma anche si fondano a vicenda: “Senza di voi, / io sarebbe una spinta vuota nel vuoto”, scrive Fiori; oppure: “Voi siete tutti. // Meno uno, è vero”. Il poemetto scava a fondo in questa dialettica: l’io fronteggia un voi indefinito che con il solo fatto di esistere, nel mondo e sulla pagina, rinfaccia alla prima persona la sua colpa indelebile: “Ecco l’accusa: il muro, / la strada, il glicine, brillano / negli occhi di qualcuno. / Io. Uno. / E uno è troppo poco”. Di fronte a tale presenza anonima e mutevole l’io si sente braccato: è “senza amore, senza gioia”; al bene è capace appena di fare il verso; è “un vizio, / un muro cieco, un mostro”. Sono gli altri, al contrario, ad essere “umani, così miti e comprensivi”, incarnando il “bene” o la “potenza”, che in un paio di testi assume persino attributi cristici (“L’acqua diventa vino, il male bene, / la morte vita”). Sicché la sottile e ambigua soglia che separa “io” da “voi” è in realtà un abisso che si vorrebbe attraversare: “Potrò essere mai / dalla vostra parte?”. Se il libro di Fiori fosse tutto qui, però, sarebbe ben poco. Il fatto è che, invece, l’io parlante complica di continuo le cose: non solo perché, nel mondo come nella poesia, ogni “io” è a sua volta un “voi”, solo che muti la prospettiva da cui si guarda, ma anche perché l’atteggiamento con cui si provoca il dialogo, che a volte si infrange contro il muro tipografico dei puntini sospensivi, cambia a ogni voltar di pagina: così questi anonimi signori, che nei versi iniziali disprezzano chi li interpella, diventano a loro volta “pezzi di merda” (la poesia di Fiori pullula di risse!), palesano le loro disperazioni domestiche, o deludono l’osservatore che vorrebbe tremare “di sgomento e di gioia” davanti a loro. Succede persino, a un tratto, che chi parla ricordi con nostalgia un inattingibile “prima” in cui le due persone sembravano fuse in un’armonia di voci e di presenze, quel Tutti che dava il titolo alla terza raccolta di Fiori (1998). Una delle dimensioni nascoste del libro, infatti, è il tempo: il “voi” metamorfico (passeggeri, degenti, spettatori di un concerto…) può anche assumere le fattezze di bambini mascherati per il carnevale, pronti a rinfacciare all’io-compagno di giochi il suo muso di scimpanzé, o il costume troppo grande. A poco varranno allora, verrebbe da pensare, la preghiera finale (“prendetemi, liberatemi / di me”) e l’offerta estrema che l’io fa di sé (“Solo la faccia mi resta. // Eccola: è vostra”): il lettore chiude il volume con il ragionevole dubbio che iovoi, come Clov e Hamm nel beckettiano Finale di partita richiamato in epigrafe, non potranno mai davvero fondersi, né fare a meno l’uno dell’altro.

(di Massimo Gezzi su Il Manifesto, 13 Settembre 2009)

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