“Nel sole, nel mare, nel verbo” – Intervista a Giuseppe Conte

«Io sono animato dal più umile dei propositi:
salvare quello che c’è di umano nell’uomo,
quello che c’è di divino nell’universo intero,
e il linguaggio è l’unico strumento che ho per farlo.»


Pochi autori riescono, pur parlando di se stessi e della propria opera, a parlare agli altri. Quando questo accade, vuol dire che ci troviamo di fronte ad un grande poeta, dalle cui parole sentiamo emergere verità profonde eppure… familiari, che aspettavamo ci venissero rivelate. È il caso di Giuseppe Conte: nonostante egli abbia sperimentato generi diversi, creando con materie sempre nuove, possiamo continuare a pensarlo come il Ragazzo che «vuole avere una voce» e che, discendendo nelle profondità oceaniche, come narra la leggenda irlandese che egli recupera ne L’Oceano e il Ragazzo, riporta sulla terra «un Canto / nato appena, invincibile».
Di questo canto, della forza e dell’entusiasmo – nella sua accezione etimologica dell’essere presi dal divino – con cui Conte crede nella poesia, della naturalezza con cui riscopre i valori più profondi della letteratura, come testimoniano le risposte che seguono, non possiamo che essergli grati.

Lei ha scritto raccolte poetiche, romanzi e opere teatrali, considerando solo l’ambito della scrittura creativa. Ma qual è la forma in cui sente di poter meglio esprimere le sue esigenze formali e spirituali?
– Ho sempre considerato il centro di tutta la mia attività la poesia. Ma sin dall’adolescenza la passione per il narrare e per la scena, il monologo e l’azione drammatica è stata fortissima. Cambiando genere, per me, non cambiano le esigenze spirituali. Anzi, è proprio l’urgere di una esigenza spirituale di conoscenza del mondo, di dar vita a un proprio mondo, a una propria visione del mondo che mi spinge a usare i differenti generi letterari a seconda dell’intensità, della durata, della forma di ciò che voglio esprimere. La poesia lirica è per il lampo divinatorio, per l’espressione rapida, quasi inconsapevole di uno stato d’animo e delle sue metamorfosi. Il dramma è per l’oggettivazione in personaggi e azione di una metafora della vita. Il romanzo è per descrivere in lunghi tempi e spazi, architettonici e sinfonici, i rapporti tra essere umano ed essere umano, tra essere umano e la società in cui vive o la storia attraverso la quale questa società è passata. Ripeto, non ho mai preso a modello romanzieri e drammaturghi, ma sempre poeti che poi hanno divagato verso altri generi, da Hugo a Pasolini.


Confrontando la sua prima raccolta L’Oceano e il Ragazzo con i vari esperimenti che compongono Canti d’Oriente e d’Occidente, mi sembra che il suo verso abbia acquistato una maggiore corposità, ma anche maggiore fluidità: un verso ricco che si fa realmente «materia- creante». Potrebbe delineare le tappe fondamentali del suo cammino poetico?
– Dall’Oceano ai Canti passano molti anni. Dagli anni Settanta agli anni Novanta. Il verso dell’Oceano è ancora toccato dalla tentazione dall’atonalità, l’endecasillabo vi è truccato, respingendo congiunzioni e preposizioni alla fine, con una pratica quasi maniacale dell’enjambement. Tutto lì è dominato e in qualche modo subordinato a un delirio metaforico che trova la sua espressione nel novenario della ballata da cui il libro prende il titolo, una musica allucinatoria, celtica. Poi ho adottato un verso più narrativo nelle Stagioni. In Dialogo del poeta e del messaggero, ho scelto per la voce del Messaggero la terzina, per l’io poetante, che poi è la mia voce propria, storica, che parla per la prima volta senza metafore, un verso libero più fluido. Inoltre si allarga l’orizzonte lessicale sino a comprendere, nel poemetto Democrazia, il linguaggio della contemporaneità più cruda. Infine nei Canti compare la mia più approfondita ricerca metrica, con il ghazal orientale e i suoi distici rimati, l’endecasillabo mobile o discorde del poemetto Ai Lari, il verso whitmaniano e la terzina civile della poesia dedicata a Bobby Sands (terzina mantenuta nella traduzione in gaelico di Padraig O’Snodaigh).


Com’è nato il desiderio dell’esperienza teatrale?
– Devo tornare all’infanzia, al mio amore goethiano per il teatro dei burattini, all’invenzione di giochi in cui aveva una parte fissa la recitazione e la finzione, i personaggi immaginari e le maschere. Per tutta l’adolescenza ho letto quasi solo teatro, e ho sviluppato per esso una passione esclusiva. Avrò scritto decine di commedie e tragedie, negli anni del Liceo. Poi la realtà delle cose mi ha fatto capire la difficoltà di lavorare per il teatro. Ma appena si presenta l’occasione ci torno. La poesia mi porta diritta al teatro.
Solo che il teatro che piace a me è un teatro del mito, della parola, della poesia. Oggi la società non sembra più pronta a ricevere il messaggio forte del teatro, che si è ridotto a puro intrattenimento o a barocca invenzione registica. Mi hanno offerto di scrivere dei libretti d’opera, in Francia mi hanno commissionato una commedia (Le Roy Arthur et le sans-logis, pubblicata in edizione bilingue), ho scritto Ungaretti fa l’amore per una rassegna di poesia (e la sua rappresentazione più felice è stata al Festivaletteratura di Mantova), e infine ho composto Nausicaa per me, e solo la maieutica di un critico finissimo e amico come Fabio Pierangeli mi ha indotto a pubblicarla.


Ungaretti fa l’amore vuole essere un’opera che riscatti il valore della poesia «esiliata nel secolo appena finito». Cosa l’ha spinta a comporre quest’opera e perché proprio la figura di Ungaretti?
– Volevo rimettere Ungaretti al suo posto, dopo trent’anni in cui si è tentato di farlo dimenticare. Volevo lanciare un messaggio fraterno e amoroso al vecchio poeta – in fondo la pièce è una mia lunga mail alla sua ombra – e ho pensato che la scena fosse il posto giusto per farlo. Ungaretti perché è lui che ha sostenuto con più forza l’idea del primato spirituale della poesia. Ungaretti perché ha mostrato l’energia dirompente dell’amore sino alla fine.


In Boine, la sua prima prova teatrale, si trovano invece degli espliciti richiami al primo Montale: Boine vive «tra chiesa e mare, in quell’orto», emblematico luogo montaliano, e sul muro che egli deve scalare ci sono «cocci di bottiglia». Che importanza ha assunto in questo caso il magistero poetico di Montale e in che modo hanno influito sulla sua formazione le due voci, così diverse ma così imponenti nel Novecento poetico italiano, di Ungaretti e Montale?
– Boine è una della figure chiave della letteratura ligure di primo Novecento, che influenza tutti gli altri, compreso Montale. L’opera su di lui l’ho composta su commissione: avevo dei limiti, una voce recitante, per un attore, parti propriamente liriche per una soprano. Ho deciso che la voce recitante sarebbe stata quella dell’autore del Peccato, e che le liriche le avrebbe cantate la protagonista femminile, la suora cantante di cui leggenda vuole che Boine si innamorò, e che nella mia opera diventa una incarnazione dello spirito della musica. I versi scritti per il Boine sono dei primi anni Ottanta. Allora ero ancora sotto una forte anche se non esclusiva influenza montaliana, tenendo conto che da lì veniva la mia formazione, dagli Ossi di seppia soprattutto, il più ligure dei libri di Montale. Inoltre l’opera si svolge in Liguria, e il paesaggio ligure è già tutto depositato in Montale. Infine si tratta pur sempre di un libretto d’opera, ed è nota la passione di Montale, baritono mancato, per l’opera stessa. Ungaretti entra molto più tardi tra i miei autori d’elezione, e ci entra per l’insieme della sua opera, per i nessi che la legano alla sua biografia.


Con Nausicaa la poesia che si nutre di miti sembra aver dato il suo frutto migliore. Come vede l’intreccio di poesia mito e teatro?
– Nausicaa è stata scritta in stato di grazia e di necessità. Sono tornato da Taormina, ho riaperto brevemente il Viaggio in Italia di Goethe, e sono partito, ho scritto sotto dettatura divina per tre giorni ininterrottamente. Spero che sia un frutto maturo. L’età della maturità ce l’ho. Soprattutto è giusto quello che lei indica, è l’intreccio di poesia, mito e teatro che agisce in questa operina. C’è la lirica, l’introspezione, l’azione, l’ironia, lo scontro, la tragedia. C’è anche una riflessione sul teatro, una specie di metateatro personale con la regia di Goethe-Conte: identificazione non frutto di immodestia ma di infinita devozione.

Dal punto di vista formale Nausicaa ragguiunge un livello molto alto: un verso leggero che crea disvelando. C’è un ideale poetico a cui lei aspira o cerca, ogni volta, nuove soluzioni, nuove esperienze poetiche che rispecchino nuove esperienze di vita?
– Il mio ideale è proprio in questa metamorfosi continua dell’obiettivo da raggiungere. In questo mi sento uno sperimentatore. Voglio sempre toccare nuovi linguaggi, come nella vita mi piace sempre toccare nuovi orizzonti, viaggiando continuamente, non appagandomi mai.


Leggendo la sua opera ho individuato due elementi che ricorrono con una valenza simbolica e mitica molto forte: il sole e il mare. Hanno effettivamente per lei un potenziale espressivo maggiore?
– Quella del sole e quella del mare sono due metafore decisive nel mio lavoro, e fa bene a sottolinearlo. La loro genesi, la loro genealogia non mi è chiara. Se lo fosse, sarei giustamente tacciabile di intellettualismo (qualcuno in ogni caso lo fa). La verità è che certe metafore agiscono come una voce del profondo che connette il tuo ego con la sua parte nascosta, infinita, divina, e con il mistero dell’universo.
La metafora è una complicata, contrastante astuzia del desiderio. Quando ho parlato del sole azteco, della mitologia di Nanauatzin e Tezcatlipoca, ero nutrito di Bataille, di Lawrence, di polemica anti-occidentale, di desiderio di fuga da una civiltà isterilita e senza futuro. La civiltà azteca era stata distrutta ma era stata viva. La nostra era in apparenza vincitrice, ma ormai in preda alle ombre più cupe della immensa crisi del Novecento. Il sole era vita, divinità, luce, bellezza: cos’è adesso per noi? Un invito all’abbronzatura, all’esotismo, quando va bene? Io volevo parlare religiosamente del sole. E questo i miei primi critici non l’hanno capito. Il mare poi è il simbolo della vita in movimento perenne, della culla della vita, delle origini, e insieme per me della sterilità più grandiosa, della separatezza e solitudine più eroiche. Ho riscoperto il mare al mio ritorno in Liguria, dopo gli anni passati nelle metropoli del Nord. Da allora intrattengo un rapporto quotidiano con il mare. Lo spio, lo adoro, lo contemplo, lo interrogo. I miei viaggi sono spesso da un mare all’altro. C’è il mare nelle mie poesie e c’è nei miei romanzi. È una presenza totale, pervasiva, magica e nello stesso tempo reale, fatto anche di porti, navi, storie, tragedie, lavoro dell’uomo, ricerca di libertà. «Uomo libero, sempre avrai caro il mare», Baudelaire comincia così una sua poesia indimenticabile. E chi ha caro il mare, un giorno vedrà il dio del mare.


Il mare, soprattutto, sembra acquistare un valore fondamentale, come dimostra anche Maria Isabella Vicentini, che nel suo testo Varianti di un naufragio[1], ha inserito l’esperienza poetica de L’Oceano e il Ragazzo all’interno della sua ricognizione del tema del viaggio marino dai simbolisti ai post-ermetici. Cito dalla Vincentini: «Per Conte il naufragio è un evento totale che corona l’impresa verso il canto, la vita, la civiltà. È un ritorno al respiro stesso degli alberi e del mare, alla vita universale che pulsa nella sua immanenza»[2].
Oltre L’Oceano e il Ragazzo, il tema del viaggio marino, anche nella variante del naufragio, compare in modi diversi in altre sue opere: penso soprattutto ai romanzi Il terzo ufficiale, La casa delle onde e l’ultimo, L’adultera. Lei dà al viaggio marino un valore particolare nella dinamica della crescita del personaggio, ha cioè questo tema un valore narratologico, oppure è uno schema archetipico che, unendo due temi così significativi e simbolici come il viaggio e il mare, in qualche modo riempie e “condiziona” le sue pagine?
– Isabella Vincentini ha scritto pagine molto belle sull’Oceano e il Ragazzo, e ha capito come nel mio lavoro mare, viaggio, naufragio sono temi tra loro connessi e decisivi. È perfettamente giusta l’idea che il viaggio marino sia anche al centro del mio lavoro in prosa, in particolare negli ultimi tre romanzi che lei ricorda. In tutti e tre, il mare contribuisce alla crescita del personaggio anche quando lo porta al naufragio, quindi ha un valore narratologico. Ma, data la mia idea simbolica, in parte pavesiana, in parte lawrenciana della narrazione, è evidente che il mare è l’archetipo più profondo e complesso e che è in relazione essenziale con l’anima dei personaggi, di Floriano di Santaflora, di Angelo Medusei, dell’Adultera. Il mare dei miei romanzi è un personaggio, i personaggi dei miei romanzi sono il mare. Certamente il mare riempie le mie pagine. Durante l’ultima stesura del Terzo Ufficiale, mi sembrava, dopo dieci, dodici ore di lavoro ininterrotto, di vedere onde uscire dallo schermo del computer e di vedere una tolda di nave con il suo rollio nel parquet del mio studio.


Ne L’Adultera il mare è al tempo stesso elemento simbolico ed elemento storico. Cornice geografica di tutte le avventure della protagonista è il Mediterraneo, bacino di miti e culture in cui si incontrano la tradizione ebraica, quella classica e quella nascente cristiana. Come si rapporta con esse e quanto hanno influito sulla costruzione della vicenda e del personaggio?
– Nell’Adultera il mare è protagonista come grande contenitore di mistero e grande tentatore, come custode di segreti e di voluttà, in definitiva come il simbolo cangiante dell’eros e della seduzione, della ricerca di sé e della perdita di sé. Ma nel romanzo è anche cornice storica, ha ragione, è anche via di comunicazione, è anche sintesi di culture, come in quanto mare è sempre stato. Ho mostrato la cultura ebraica, quella cristiana nascente, quella greca, quella romana, e ho voluto vederne le intersezioni ma anche le differenze soprattutto per ciò che attiene al campo della morale sessuale, della pratica amorosa. Ho messo a confronto una cultura monoteista con una cultura politeista, una cultura dell’amore con una cultura del potere. Ho una idea del romanzo strana per questi nostri tempi che non hanno più fame di conoscenza. Io considero il romanzo il libro per eccellenza della conoscenza dei rapporti tra uomo e donna e tra esseri umani e universo, ambiento nel passato per conoscere meglio il presente e per gettare uno sguardo sul futuro. Per certuni tutto ciò è anacronistico. Per me è semplicemente necessario. In fondo, per semplificare al massimo, ho una idea mitomodernista del romanzo.


Qual è, invece, la tradizione mitica a cui si sente maggiormente legato, per richiami sia artistici che spirituali?
– Sono nato nel mito greco. Da bambino, mi addormentavo guardando in un tondo sul soffitto della mia camera i cavalli del carro del Sole dipinti nella loro folle corsa. Il mito greco, il mondo miceneo, l’Iliade sono stati i miei primi orizzonti mitici. Poi ho esplorato la mitologia etrusca e quella azteca e pellerossa. Ho riscoperto, credo per primo in Italia, il mito celtico. Poi ho iniziato il mio viaggio verso Oriente. L’India è traboccante di miti. Anche l’Islam lo è. Sono diventato un cultore di tutti i miti del mondo, come abbraccio tutte le religioni del mondo. Credo in una nuova fraternità cosmica. Che non sarà né l’economia né la politica a produrre, ma la poesia e la spiritualità.


La sua fede nel mito le ha permesso di parlare di «mitomodernismo»: quali sono, secondo lei, le possibilità che il mito apporti, concretamente, un cambiamento nella sensibilità moderna, così poco profonda?
– Il mitomodernismo non è una scuola letteraria: è l’espressione di una corrente di energia spirituale, almeno per me, che vuole riportare nelle cose della quotidianità il respiro del mistero delle origini, i primi perché, i brividi del sacro, l’enigma della bellezza. La sensibilità contemporanea è tutta superfici e moda, denaro e effimero. Il mito autentico irrompe come una ventata, sconvolge, proietta nel futuro, dà spago ai sogni. Ci mostra tutto il divino della nostra anima e dei suoi movimenti anche più bui. Ci costringe a misurarci con la profondità abissale della vita e della morte. Ci dona il senso della luce, della nostra corsa verso la luce.


Qualche tempo fa, esprimendole alcune mie considerazioni sulla sua ultima raccolta poetica Ferite e rifioriture, le scrissi come il titolo evocasse in me immediatamente la figura di Pier delle Vigne, a cui lei, mi confessò, non aveva pensato, ma che trovava molto calzante. Cosa legge in questa figura? E più in generale, come si è rapportato nel tempo col testo dantesco? Se non sbaglio in anni recenti ha eseguito anche una Lectura Dantis, nell’ambito dell’iniziativa della Dante Alighieri “La Divina Commedia interpretata dai poeti contemporanei”.
– Il mio rapporto con Dante ha avuto fasi alterne. Sono stato un appassionato lettore della Divina Commedia, ma in particolare lo sono stato del Dante stilnovista. Che miracolo in quei versi aerei e leggeri, e insieme pieni di pensiero e di segreti. Ho riletto Dante attraverso il Libro della Scala e i mistici islamici, attraverso la angelologia islamica. Mi piace l’idea che tutto sia fatto di angeli, e che Dante e gli Stilnovisti siano stati i primi in Occidente ad accorgersene. La Divina Commedia ho cercato di leggerla come un viaggio tra le ombre, come quello di Odisseo e di Enea, o di Orfeo. Ma molto più complesso e più elicoidale, con una discesa al limite del buio e della non vita sino a progredire nella luce e a vedere, nei versi più eroici e grandiosi mai scritti da un essere umano, il corpo di Dio: un vero libro sacro. Il sonetto Guido i‘ vorrei è la poesia che dico e me stesso a memoria quando voglio mettere in fila viaggio, amicizia, desiderio, magia, mare, bellezza, gioco, amore, cioè tutto quello che mi piace della vita.


Sono collegate in qualche modo le esperienze di Ferite e rifioriture e Lettera ai disperati sulla primavera: il bisogno di scrivere ai «disperati» è stata un’urgenza per il poeta che dopo le ferite ha conosciuto le rifioriture, quasi a voler perpetuare «il dono leggero e immenso del poema»?
– Sì, le due opere nascono dalla medesima situazione esistenziale, ma in Ferite e rifioriture c’è il canto, lirico o corale ma canto, in Lettera ai disperati sulla primavera c’è anche il ragionamento, la narrazione, la riflessione, il proclama, la polemica, quello che una poesia potrebbe contenere, ma non nella mia poetica. Per questo ho scelto la prosa.


Ne Il passaggio di Ermes lei parla di un’Europa «attenta ai diritti dell’uomo non meno che ai diritti dell’anima». Come pensa che possa avvenire un incontro costruttivo tra le diverse anime dell’Europa, che proprio da questa diversità trae la sua grandezza?
– È vero, le anime dell’Europa sono molte. Il primo a sognare gli Stati Uniti d’Europa fu un poeta, Victor Hugo, che vedeva un’Europa soprattutto renana. In un suo scritto, propose che alla Esposizione Universale di Parigi del 1866 fossero erette quattro statue, di Dante, Shakespeare, Voltaire, Beethoven per incarnare lo spirito migliore dell’Europa. Quali statue si erigono oggi a Bruxelles? Trovo terribile che un processo della portata dell’Unione europea avvenga senza poesia, senza teatro, senza musica, senza filosofia. E infatti è un processo monco, non popolare, che non scalda nessun cuore. E invece un’Europa capace di stringere in sé tutte le sue energie e le sue tradizioni culminanti nella sua fede nei diritti dell’uomo e nei diritti dell’anima, nell’incontro solidale e aperto con le altre culture del pianeta, sarebbe ancora un ideale in grado di muovere le generazioni, di dare loro un futuro che non sia quello di consumatori di OGM e di televisione spazzatura.


Io credo che il nuovo intellettuale debba agire in un nuovo campo, ancor più sconfinato, che non è più quello politico. Non si tratta più di scuotere le coscienze, ma di ravvivare, se non rinnovare del tutto, la sensibilità collettiva. Faccio mia una frase di Camus in cui dice «Tutti coloro che lottano per la libertà combattono in ultima analisi per la bellezza». Se veramente dobbiamo riscoprire la bellezza, quella semplice e antica del sole e del mare, allora solo il mito può aiutarci. Qual è la sua opinione e che consiglio darebbe a chi volesse intraprendere l’attività di scrittore, senza mettere da parte l’anima di uomo e cittadino del mondo?
– Condivido quello che lei scrive, e la energia con cui lo scrive. Credo che per iniziare oggi, in tempi così travagliati e oscuri, il mestiere di scrittore sia necessaria innanzi tutto la fede di cui parla. Voler salvare nel linguaggio il segreto delle cose, tutto ciò che è umano nell’uomo, la vita sul pianeta, la bellezza del cielo stellato. E l’Amore nella sua potenza cosmica.


A questo proposito, mi sembra che la verità che attraversa con forza tutta la sua opera e che la anima dall’interno sia proprio nell’affermazione «L’arte è trasformazione etica del mondo attraverso la bellezza» e credo che la forza della sua poesia stia proprio nel difendere la sacralità della vita nella sacralità della Parola: «Sacra, sacra, sacra la Parola, la Terra, la mano che / scrive e che carezza, la nuvola, la volta del cielo». Ma quanto costa allo scrittore odierno continuare a difendere il valore etico dell’arte e, in questa, il valore sacro della vita?
– Devo essere franco: la fede nella eticità della letteratura, nella sacralità della parola, chiede un enorme sacrificio di sé in questo momento culturale e sociale. C’è in giro una tempesta di nichilismo abietto, di insensatezza, di disumanità, di violenza, di ingiustizia che non so come possano essere tollerate. C’è disprezzo per chi crede e per chi spera in un futuro possibile. Io ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, incomprensioni, attacchi, diminuzioni, emarginazione. Ma, quando arrivo al minimo dell’energia e sto per arrendermi, all’improvviso una nuova onda di energia vitale mi prende e mi anima, ancora più grande, quasi rabbiosa. Non cedo ai ricatti del mercato, non cedo un centimetro di quello che penso e sono. Qualcuno mi dipinge come superbo e con la voce sempre alta. Io sono animato dal più umile dei propositi: salvare quello che c’è di umano nell’uomo, quello che c’è di divino nell’universo intero, e il linguaggio è l’unico strumento che ho per farlo.


Infine, citando Dostoevskij, lei crede ancora che «la bellezza salverà il mondo»?
– In un suo scritto sulla bellezza, ha citato Dostoevskij anche Giovanni Paolo II. Sono contento una volta tanto di essere d’accordo, io umilissimo peccatore, politeista, giacobino, con l’eroico papa polacco. Sì, la bellezza crea civiltà, ferma la barbarie: può salvarci.


[1] Maria Isabella Vicentini, Varianti di un naufragio. Il viaggio marino dai simbolisti ai post-ermetici, Milano, Mursia, 1994.
[2] Ivi, p. 188.


(di Irene Beccarini su La Poesia e lo Spirito)

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