LITANIA PER CLAUDIA (RUGGERI)

le origini

Pochi capiscono che esiste un rifiuto che non ha nulla in comune con la rinuncia.
Non posso che partire da qui, da questa struggente epigrafe di Camus. Perché ha in sé tutta la liquidità di un mistero oracolare, la sensuale ferocia della vera letteratura quando comunica direttamente con le nostre profondità e non si rende immediatamente comprensibile.
E’ una frase che ritrovo ne Il rovescio e il diritto, libro che mi capita spesso di sfogliare a mo’ di piccola bibbia privata, un vangelo di frasi che auscultano un futuro che ho la certezza non essere solo il mio. Leggo questa frase e penso immediatamente a Claudia Ruggeri, e a quel 1996 nella sua terra salentina. Poche pagine più avanti incappo in un’altra ‘sentenza’, anche questa sottolineata: Questo dev’essere la giovinezza, questo aspro colloquio con la morte, questa paura fisica dell’animale che ama il sole.
Allora mi sembra tutto perfetto, come un cerchio che si chiude. Riprendo in mano il volume di poesie di Claudia, edito nel 2007 da Pequod (Inferno minore). Lo sfoglio a caso, e ogni frase si ricollega a quello che ho letto in Camus.
Claudia si uccise una notte d’autunno del 1996. Aveva ventinove anni. Eppure noi sentiamo che non c’è nessuna rinuncia in quel gesto, era tutt’altro che un modo per abiurare alla sua vita. Leggiamo una pagina a casa del libro e siamo percossi da certi piccoli versi che mettono radici negli occhi (Tutto stranamente brusco / anche la bellezza)
Una donna sospesa. Oscillante. Nelle sue origini ad esempio, tra Lecce e Napoli. Dal Salento barocco alla città natale di cui ebbe memorie tattili, sfocate. Perfette per ritornare ad ondate nel suo essere poetessa. In una sua lettera indirizzata a Franco Fortini descriveva la sua incertezza: “Ora riprendo a studiare, a scrivere non ancora, a vivere ed a fuggire da questa maledetta città per ritornarvi tuttavia; riprendo riprendo ma non riprendo tutto, forse. Oggi ho 22 anni… “ La maledizione della fuga, tormento tipicamente adolescenziale, in Claudia era malattia sensuale, scheggia che insidiava le asimmetrie dei versi (questa che ora t’interroga, t’arrovescia / l’inizio; t’avviva a questo Inverso / cui un dio non corrispose; tu sei / l’oggetto in ritardo, l’infanzia persa / su tutte le piste, l’incrocio rinviato; sei l’amnistia). Il tormento della fuga si traduceva in una vocazione imprescindibile della sua psiche – e tra andare e restare i versi proliferavano. Era bloccata su una soglia labile – sul confine. Sospesa.
Nell’eterno istante in cui non decidiamo e rimandiamo all’istante successivo la possibilità di dare una direzione alla nostra esistenza. In quell’istante saliva fortissima nella sua anima quella che era un’ancestrale vocazione al sud, una luce che si riverberava nei suoi gesti, e premeva contro la guaina delle parole. Una disperata vitalità che bruciava lo spazio tra i settenari e lo spazio bianco della pagina.
Claudia era una donna che disperatamente voleva dire si, voleva affermare la bellezza della vita. La bellezza persino di quell’indecisione. Non voleva rinunciare alla vita. Ma era anche figlia di quella terra che ha generato la Sibilla, discendeva da frasi che non si lasciano immediatamente sentire ma si ricompongono nell’animo di chi le coglie. Doveva parlare per ambiguità perché solo nell’ambiguità poteva aderire alla totalità della creazione a cui aspirava, e in quell’ambiguità è rimasta di nuovo sospesa. Non a caso si uccise con un salto oltre il balcone di casa, il modo più esatto per superare la sospensione.

  1. Rimbaud, il silenzio e l’inferno

Bambino, certi cieli hanno affinato la mia visione.
Così si raccontava Rimbaud in una lirica de Le illuminazioni. Era una celebrazione del proprio apprendistato visionario all’esistenza e al suo infinito deragliare. Le illuminazioni sono le poesie che precedono la stagione all’inferno. Oggi sappiamo che da quella stagione all’inferno non ne saremmo più usciti. Non c’è poeta che non lo senta con l’intima forza del proprio spaesamento. E così è stato anche per Claudia Ruggirei, che ha affinato la propria visione guardando i cieli del Salento, e ha confrontato le immagini sfocate della realtà con quelle ipermetropi, violentemente a fuoco, della sua percezione. Non a caso il titolo del suo libro è Inferno minore, dove l’aggettivo designa un riverbero temporale, e un’esiguità di componimenti, ma non ha una voluta modestia né una valenza comparativa con il capolavoro del petit maudit.
Certo gli inferni della poesia sono molteplici; e sono anche essi delle soglie. Ci sono poeti – pochissimi – che riescono ad attraversarle quelle soglie, e a scoprire la vita che c’è oltre, la realtà del mondo che vive autonomamente, intangibile da metri e settenari. La realtà dove si fa eco il silenzio abissino di Rimbaud (altro inferno?). Altre soglie invece assomigliano a quelle porte girevoli da grand hotel, che rimettono sempre nello stesso punto. È esattamente questa l’immagine che ci viene addosso alla fine della lettura. Un movimento che non sfocia mai verso l’esterno, ma che si strozza continuamente, si occlude. Una fuga impossibile, da superare una volta di più con la maniacale violenza dello slancio nei polpacci, il salto letterario nella realtà. Da un inferno all’altro.
Libro tragicamente novecentesco, che si iscrive in un ulteriore inferno, ancora più vasto e tutto declinato al femminile, tanto da costituire una sorta di categoria a parte nella storia letteraria del ‘900. Virginia Woolf, Sylvia Plath, Anne Sexton, Sarah Kane, Antonia Pozzi. Tutte straordinarie scrittrici; e tutte suicide.
Eccola allora la verità. Il punto di giuntura che colloca Claudia Ruggeri nel Canone, e che si impone alla nostra sensibilità grazie all’atto per eccellenza, l’unico capace di illuminare retroattivamente ogni istante di una vita. Il suicido è un gesto che interroga la nostra fede laica nell’ insondabilità dell’animo umano, chiede un’adesione emozionale che non abbandoni mai i furori della logica. Tra le pagine di questo volume non appare mai come un accidente casuale, ma, al contrario, avanza verso il lettore come un’onda, una mareggiata che monta verso dopo verso e si manifesta con la forza di un orizzonte inseguito a nervi scoperti, foss’ anche per eccesso di amore letterario. C’è in questo scorrere tra le poesie la stessa angoscia che ti bagna, quando avanzi tra i frammenti de Il mestiere di vivere di Pavese. La consapevolezza di trovarsi faccia a faccia con una fine ineludibile, che ogni scarto d’ansia od ogni esaltazione intellettuale non hanno fatto altro che preparare.

  1. le origini (due)

Dunque chi era Claudia Ruggeri? Poetessa sensibilissima, assai colta e straordinariamente capace di fondere versi di pura istintualità lirica con stanze molto pensate e sintatticamente sofferte. C’è nella sua poesia l’eco raffinata e duttile di tante voci differenti che si sono impastate lentamente nella sua; accanto al suo amato Dante ritorna più volte Montale. C’è Shakespeare, e c’è anche il Pound compulsivo dei Cantos.
E sorprende innanzitutto questo, l’accostamento di origini così differenti che pure riescono a modularsi in un unico suono, in una voce che vibra di pagina in pagina con sofferta impetuosità. Ed è in questo melting pot culturale tutta la modernità di una poesia che slitta continuamente e non offre l’ appiglio di una facile categorizzazione
Paradossalmente l’unica certezza è quel sud che come abbiamo visto marchia a fondo i suoi nervi; ed è un sud che lungi dal porsi come dimensione socio-politica tradizionale è soprattutto luogo dell’anima. E’ l’incanto verso la terra, elemento molto presente nei suoi versi. E’ l’esoterismo di una tradizione difficilissima da piegare e che Claudia evoca sotto forma di figure del tarocco: il matto, l’amante, lo straniero.  C’è davvero magia in questa voce che ha dentro di sé la possanza di un sud assolato e inquieto eppure capace di farsi glaciale per irrequietezza, e che sa guardare gli altrove della tradizione culturale europea. E cosa c’è di più bello e impossibile di uno slancio che ti porta mille chilometri avanti al punto tuo di origine e contemporaneamente non spezza le tue radici? Questo miracolo che è solo dell’arte, e dell’arte quand’ è tutta piena e densa, in Claudia Ruggeri è traboccante.
Claudia era nata a Napoli, ma aveva vissuto quasi tutta la sua vita in Puglia. A Napoli dedicò una delle sue poesia più belle (Napoli l’ebbi strana ed il porto / e le sbronze testuali dove il verso inscenò / cose strette e altissime…). Lo stupore è una delle due polarità dominanti dei suoi versi. Stupore per la forza viscerale e rabdomantica della sua parola. E stupore per la propria forza vitale, animalesca e tutta tesa a raccogliere versi e ad inscenare il colloquio con la propria morte. La seconda frase di Camus dunque ritorna a indicare una direzione in questa biografia.
Leggere le sue liriche trascina in un vortice di interrogativi: viene da chiedersi che cosa dovesse essere il Salento alla metà degli anni novanta. Si ha voglia di mettersi in auto e andare a rintracciare i luoghi amati dalla ragazza, andare a cercare i piccoli pub invernali dei sabato sera, le strade percorse in auto e che si snodano tra ulivi e paesini di poche migliaia di anime, lontani anni luce da ogni centro, e assopiti in una millenaria sfinitezza. Cosa guardava quando sgranava la sua iride impazzita; dove sognava di fuggire Claudia per provare a sbloccare l’impasse, la sospensione? Aveva già realizzato che l’origine geografica che ci marchia nel profondo non la possiamo mai più barattare.
Era quasi coetanea di Sara Kane. Negli stessi anni in cui l’inglese esplodeva nei teatri più cool di Londra, osannata da pubblico e critica per un pugno di drammi barocchi e violenti battuti in faccia ad una scena sempre affamata di novità e di scandali, a Claudia era toccato lo scandalo più alto, il sole che si interroga fissandolo con sguardo da matto, la ninfolessia che ti prende nei meriggi estivi. Quella sensazione di morte del corpo nella morte del pensiero, che Stazio aveva già descritto splendidamente. “Quando un’afa greve incombe sui campi che si spaccano e tutti i boschi lasciano passare la luce…”
E’ la metà degli anni novanta. Sara Kane, Claudia Ruggeri e due anni prima Kurt Cobain che cantava in All apologies “Cos’altro potrei essere / Tutte le scuse / Nel sole / Nel sole mi sento come unico”. Poi ognuno, senza troppe scuse, ha seguito la propria strada. Si è messo in coda nella fila che porta all’inferno.
Inferno minore è un libro sicuramente imperfetto, perché postumo. Dato alle stampe dopo la sua morte e senza il tempo di una risistemazione. Ma proprio per tali ragioni ricco di una fragilità spiazzante e dolorosa. La verità è che la poesia di Claudia Ruggeri nasce già postuma, totalmente fuori sincrono con tutto: con la Puglia di un altro grande postumo qual’era Carmelo Bene; fuori sincrono con le avanguardie novecentesche e con i conseguenti ritorni all’ordine.
Non è semplice la poesia di Claudia, apparentemente disseminata di aperture e squarci verso la luce, verso qualche possibile uscita dal cono rovesciato del suo inferno; e che spesso si rivelano come detto falsi movimenti, uscite che non portano all’esterno ma al contrario immettono di nuovo nel circolo urgente delle parole. E allora è tutto un rifare il cammino verso altre direzioni, come in quei giochi da cruciverba, dove avevi una sola possibilità di tracciare con la penna una linea per penetrare il labirinto e raggiungere il centro. Il labirinto di Claudia Ruggeri è il labirinto di un intero novecento che per magica condensazione rivive sulle sue labbra piene di sangue di disperante rivolta. C’è il lei pienamente realizzata la profezia di Nietzsche: “Di tutto ciò che è scritto io amo soltanto quello che uno scrive col proprio sangue. Scrivi col sangue e apprenderai che il sangue è spirito.”
Poesia disperatamente imperfetta anche perché sempre sbilanciata. Ma in fondo è proprio in questo il suo cuore pulsante. Perché viva nonostante la paralisi di un eccesso che ne ingolfa sensazioni e metri, quasi che furiosa si addensasse sulla punta dei polpastrelli e non desse tempo alla mano di calmarsi e alla mente di rifiatare, di trovare il punto di saldatura e di equilibrio tra le stanze che andava componendo. E allora, nell’incessante premere delle parole sulla vertigine delle dita, capita che talvolta si siano urtate, ammassate una sulle altre e fuse assieme in un corpo di densità vischiosissima.
Finché fu in vita, le sue poesie circolarono tra un ristretto gruppo di lettori, semplici amici o appassionati come Franco Fortini e Dario Bellezza. Fece qualche comparsa su riviste underground ma non approdò mai all’editoria nazionale. Fortini che era rimasto evidentemente spiazzato dalla forza visionaria e iconoclasta della giovane ragazza, seppe solo consigliarle di sfrondare un po’ di più, levare un po’ di più. Calato nel suo ruolo accademico, non seppe capire che quei versi nascevano così, prendere o lasciare, e che se cerchiamo nella mente un posto dove collocare un linguaggio che ci appare esuberante e complesso, non sempre conviene chiedere a quel linguaggio di farsi spazio adatto a noi. Qualche volta bisognerebbe fare il contrario. 
Come fece bene a non accettare quei consigli Claudia! Questo imperativo costante, a trovare una disciplina nella propria furia metrica, è uno dei grandi abbagli di quella critica che considera più importante leggere ciò che manca piuttosto che farsi trasportare da ciò che è evidente. Come fece bene a seguire la sua strada, tragica e assoluta e a cui non possiamo che rivolgerci con occhi imbarazzati ma anche grati.

  1. non-scelta

Ritorno di nuovo a Camus e alla frase che pose ad esergo de Il mito si Sisifo, libro tutto dedicato al tema del suicidio e alla sua possibile soluzione in termini filosofici: “O anima mia, non aspirare alla vita immortale, ma esaurisci il campo del possibile”. Certo, per chi sceglie lo filosofia come guida intellettuale dell’esistenza, questa esortazione di Pindaro può essere possibile. Ma la poesia, se è vera poesia, non può in nessun modo conciliare quei due opposti che pure le servono. Non può superare la sospensione. Ha bisogno di esaurire il campo del possibile, verbale ed emotivo, per provare a soddisfare in minima parte la sete di immortalità che la spinge a muoversi. Ha bisogno di restare sulla soglia tra i due inferni e avere il coraggio di avere paura.
E’ da quel brivido che chi legge può in qualche modo ricomincia

(di Luigi Pingitore su Claudia Ruggeri)

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