L’io semifuso: sulla poetica di Cristina Annino

Pochi i commenti a Cristina Annino, qui e negli altri siti che hanno finalmente riportato alla ribalta questa poetessa sorprendentemente dimenticata. Pochi, sì, ma tutti concordi nel sottolineare la forza della sua scrittura, la quale, direi, trova la sua cifra stilistica nell’inglobare e stravolgere sfondo e primo piano, paesaggio e figura, sino a trasformarli in perturbante, in sciame materico, dove il familiare e l’estraneo, l’inabitabile e la quieta dimora, turbinano in continua e sofferta ricomposizione, mai esausta. A quest’essere-per-la-morte – a questo fantasma rapinoso che agisce anche nel profondo del lettore – l’autrice contrappone un versificare, che rompe gli argini alla misura, sovraccaricando il dato sensibile (altrove Pagliarani parlò di delirio surrealista), quasi a volerlo stilisticamente sfidare, snaturandolo per rifondarne l’essenza nella lingua. A rinforzare questa soluzione, ella chiama in causa una dramatis personae che pare curvarsi su se stessa, per divorare la propria scissione: è il «gemello carnivoro» dalla natura maschile, che invero non serve a ricomporre l’identità divisa dal perturbante, ma piuttosto, e masochisticamente, ad immergerla ancor più nell’abbraccio claustrofobico di un genere che la Annino ha sempre vissuto come opprimente. Illuminante, in questo senso, la dichiarazione fatta a Francesca Matteoni: «Mi sono sposata due volte con uomini che mi hanno fatto perdere complessivamente 24 anni di vita letterariamente produttiva, isolandomi in modo completo da tutto». Per difendersi da questo agguato, Cristina cerca di addomesticare il «gemello», liberando appunto la creatività, che è femmina, tanto da diventare essa stessa energia trabocchevole, «La Giano degli architetti, la santa patrona dei / silenzi, dei quadri da rigattiere e polvere / da sparo», la folle che ama ed odia quella la forza (l’archetipo maschile) che la vuole «quarzo», falce che impedisce «al grano di / crescere».

L’opera della Annino vive di questa luce incarnata, diventando corpo conflittualmente duale, non dialettico, bensì metamorfico, che assorbe non soltanto l’umano, ma si fa carico della «intera stirpe animale», ergendosi così ad ermafrodito zoologico, corto circuito panico dell’ «io semifuso» nel cui nucleo opera questa palus putredinis, ma il cui fiotto linguistico e simbolico rapprende nel testo, diventando poesia.


CURRICULUM

Oggi quella

montagna e due mele mi fanno

ridere allo stesso modo; eppure

le separa l’aria dal collo di lepre già cucinato.

Cioè i compiti

In cielo se li sono divisi. C’è un tempo

In cui stazioni somigliano a ospedali, a casa

di minatori, e s’annoia

persino un cimitero inglese. Penso: vorrei fosse

nota soltanto la mia opera, io dieci

figli, portare – si dice? – una croce. Correndo

sempre avanti così mi ritorna lo spirito

indietro. Dovrò ricordarlo: ne ho visti

di paradisi a vasche di pipì che lo credi

spumante o uno scherzo. C’è un tempo in cui

i miei organi, a stecche dieci, van sopra

i vestiti e reggono l’urto dei venti da abbottonare,

Divento

Docile: amo le tombe surrealiste, i dada, i quadri

neo, i palloni gonfiati. Svengo

in gran pompa e non mi dispiace

la gomma da masticare, il pesce a tavola, le

amicizie. C’è il grano sotto il sole del grano.

Direbbe Gide.



LINA

Follia, mia

madre folle e magra tra due

euforie da cui nacqui: mi fece

stendere i piedi. Fluidamente tutto già

scritto. Ho spalle

di tritato aglio più àncora di

salvezza ch’è dolore guardiano. Quando

lei ride, chi vive più di me, che ho

il biglietto di via per lo spazio?


Lì scrivo

e cancello, in lei sono

a due gambe, respiro. Vivo

doppiamente com’un gemello carnivoro.

Non ho altro

scoppio nell’aldiquà che questo

tornarle addosso, essendo io il suo

io primitivo.



LA MADRE AL QUADRATO DELLA RADICE

Ora lei, in un angolo in fondo, si crema; fa

fuoco da tutte le parti. Non

muove la testa ma piega il globo in cui

vanno al lavoro le api nel segno astrale

d’ognuno. Fa ordine

anche distesa. Dormendo. Io a caso le pesco

la schiena, e il diavolo nel suo harem, il naso

e un pezzo di carta. Questo

mi stordisce dal gelo che possa andar via

così, a forza di levitare. Nel piccolo

finisce qualcosa di tormentoso e rinasce ogni

volta crediamo d’averlo

pestato bene come un ragno. Il grande sarà

che ci ignora. Sul serio

si capisce meglio di lato; uno va

dritto e non guadagna davanti che aria. La guardo

più piano, la spengo; dico dando la mano

ai muri; poi sotto terra la pesco di nuovo “non si

dovrebbe essere tanto

ossessivi. Quest’amore per i diluvi!”



L’ULTIMA CENA

Col mio

cervello chimico ascoltavo; col mio

torpore più sereno spezzando molto piano le

pillole. Ero io

chimicamente ignaro di loro, nel

cenacolo ovale. Si

parlava e non eravamo sani; oltre la

soglia s’era beati. Vivi e

morti stavamo sullo strato terreno.


Benedetto ciò che non empie, né

occupa, che non rende secondari. La

mettevo così: chimicamente indigesto

tutto dalla z all’a, fino all’ulcera

radiografata da Dio, vedendoci

vocabolario e non alba. Tutto

velo senz’acqua, nemmeno

cibo, niente.



DOVE SI ODONO GLI UCCELLI IO NON ABITO

La Giano degli architetti, la santa patrona dei

silenzi, dei quadri da rigattiere e polvere

da sparo. La moglie

su fondo dorato, la Cimabue, percorre tutta la

vita con fianchi da trono. Una

lamiera ci lega di fulmine pensieroso; io che

sono stato già lei, e mi faccio

prigioni poi scappo da una

sedia a un’altra dove sta con me un secolo

di sirene. Così gravido dell’

idea in cubi robusti come crescono chiese.

E

Scendendo per cataratte, gettato in volo nell’

acqua con le nubi, cammino pensando

all’idea della Giano, chiodo fisso, o dell’erba, e dove

cresce vi abito solo.



L’ODIATORE

Io spesso me ne vado con la Fine; poi si

Torna, e credo che noi due siamo l’insonnia o peggio:

quel pezzo di giorno che non matura mai

in gallo. Ma odiando – questo è certo – ora il mare

e ciò che nasconde, la carne con ciò che odora, la

terra con ciò che bolle; odiando il Portavoce che perde

nell’acqua le mani e, avanti, allargando feroce

spalle piene di balena qual è, rompe al mondo le

gambe. Non so più

se annaffiare le piante o farle seccare. E che

altro, per esempio, nella vita terrena.



ANDANTE PESANTE CON ABBANDONO

(per Daniela Marcheschi)

Il piatto

filippino preferito è la scimmia. La portano in

ginocchio, il viso sulla tovaglia poi

il cervello lo segano vivo. Ci facciamo

un’idea del mondo mangiando, del modo

di fare ordine della vita, radio, giornale, d’un

patito giallista. Io

mai m’abituo; ma l’auto

sul viadotto s’allontana simile al viso ben diviso

della barista, nel mattino: triste, ben

triste, in due. Come si va

semisoli insieme giù per la strada.

Danì

capisce il chiodo nel cervello: lo batte un solo

uomo, certo, e l’inferno detto la vita. Lei ha

un diverso rapporto con la carne; ma stan

piegando la sua natura, così dentro il letto. La

stan mettendo sotto spirito: i piedi sul lato

del vetro e testa al contrario. Una foce. Leggi

fato. Anche il Nilo

si guarda da ragazzi e per primo ci prende in giro.

O quando

uno di noi s’alzò nel sonno dicendo “lo zio ama i negri!”.

Per legge

di gravità il tempo è passato. Siamo ormai

diventati, con moto

che allontana dal posto, e dai negri ci importa

poco. Ora c’è

un comportarsi da zie e tutto il resto. C’è non essere

più capaci del colmo. NOI

digeriamo QUEL piatto. Insomma oramai del sonno

c’appartiene l’insonnia.

Di lei. Che si strappa

di dosso l’io semifuso dal corto circuito d’uno

sbalzo da pressione nel sangue.

Sviene

indietro come l’acqua del Nilo va in su. Colpito

in un lampo in viso il centro della memoria. Dati.

Mentre

dal toporagno arboricolo a noi, il tempo evolutivo

è settantacinque milioni d’anni. Dice la radio.


poesie tratte da Gemello carnivoro, I quaderni del circolo degli artisti, 2001


(da “L’io semifuso: sulla poetica di Cristina Annino”, in AA. VV. Leggere variazioni di rotta. 20 poeti del blog di LiberInVersi, Le Voci della Luna, Sasso Marconi, 2008, pp.14 e ss. di Stefano Guglielmin)

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