Nota su TERATOPHOBIA di Gaia Giovagnoli

Di questa prima raccolta poetica della giovane antropologa Gaia Giovagnoli colpisce l’irruzione entusiastica, il desiderio di stupire con personalissime originali costruzioni, tipico dell’esordiente, e pure si è trascinati da un ritmo già molto sapiente, da una sonorità nuova che si affaccia dal verso libero ma anche da cesellatissimi endecasillabi.

Sono evidenti molti richiami da poeti amati come Plath, Sexton Eliot, oltre a quelli citati nelle epigrafi, sia nello stile che nell’affollarsi  semantico delle immagini, nel gioco di slegamenti sintattici come nel gusto dei salti logici, spaesanti.  Sono elementi che testimoniano non solo il debito verso i maestri,  ma anche  un lavoro di grande cura e responsabilità di fronte al lettore, raro nelle opere prime. Teratophobia  appare come una descrizione accorata del proprio lato scuro interiore, uno scavo nell’intimo che attraversa la vita fin dalla nascita, descrive l’infanzia, le inquiete figure genitoriali ( dove appaiono versi densi di forza evocativa come: il cerchio delle forchette/ è un ringhiare di incisivi ), le figure di umani afflitti dal morbo-mostro, fino al profilo grato e luminoso del compagno cui l’autrice si abbandona come liberandosi dal buio. E’ qui che trovo più limpidamente fluide, più libere dal gioco volutamente o spontaneamente criptico, le composizioni, come scaturite da un sentire più naturale, meno elaborato intellettualmente.  Lo testimoniano versi come :  hai le dita solenni di un albero la sera  e dimentico il vuoto/ quando abbracci bufera /e la chiami ventata.

E suggestiva è pure l’irruzione di tante figure dal Mito, che prestano la loro maschera all’autrice in un gioco di identificazione originale, ma anche di messa in evidenza del senso universale del proprio canto. Spontanea e rivelatoria di una predilezione dei sacri testi è pure  la presenza di lemmi come altare, redente, ti sacrifico, salmo, Gerusalemme, che un po’ sembrano contrastare la linea di modernità dell’intera raccolta poematica. Infatti, più che un insieme coerente di singoli testi, la raccolta sembra configurarsi come un compatto poemetto in 4 scene, capace di raccontare tutta la complessità dell’essere, le sue vibrazioni  segrete, il tremore della vita.

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Annamaria Ferramosca
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