Recensione a Alessandra Carnaroli: Femminimondo

In Postkarten, nel pieno degli anni Settanta, Sanguineti inseriva una ricetta «per preparare una poesia». La ricetta, la “cartolina” 49, è famosissima: «per preparare una poesia, si prende “un piccolo fatto vero” (possibilmente / fresco di giornata): c’è una ricetta simile in Stendhal, lo so, ma infine / ha un suo sapore assai diverso […] / conviene curare / spazio e tempo: una data precisa, un luogo scrupolosamente definito, sono gli ingredienti più desiderabili, nel caso (item per i personaggi, da designarsi rispettando l’anagrafe: /da identificarsi mediante tratti obiettivamente riconoscibili)». Con la consueta ironia, che era il suo modo di trattare il tragico, Sanguineti puntava ad ottenere «una pietanza gustosamente commestibile, una specialità / verificabile», passando per uno stile Gramsci (quello dei Quaderni e delle Lettere) reso piccante con qualche spezia della cucina di Marx, e intendendo «verificabile» nel senso che la parola può avere nell’Arbeitsjournal di Brecht. Nei nostri anni Duemila, Alessandra Carnaroli, che non possiamo riferire al magistero di Sanguineti, per scrivere una poesia prende, anche lei, «un piccolo fatto vero», ma il risultato non è per niente «gustosamente commestibile». Al limite è – sinistramente, dolorosamente – «verificabile». I testi del suo Femminimondo sono durissimi, indigesti sempre, difficilmente fronteggiabili nell’orrore che dicono e nel tono, nell’andamento ritmico e nelle armoniche delle singole voci che quel dolore incarnano. Femminimondo è troppo vicino – non soltanto nel titolo – a un apocalittico “finimondo”, per essere digeribile, e troppo vicino alla fine, anzi alla «Fine» e al «Nulla», come scrive Tommaso Ottonieri nella sua molto ispirata postfazione. Unici punti di contatto con la ricetta sanguinetiana sono il «fatto vero» e l’«effetto V», il brechtiano Verfremdungseffekt, lo straniamento del lettore che in Sanguineti scaturisce dal distacco ironico e in Carnaroli invece dall’adesione tragica. E tutto il resto è distanza, tra Sanguineti e Carnaroli, perché Carnaroli non calca affatto il terreno dell’ironia, e probabilmente non crede a questo tipo di ricette. Ciò che le urge è il vero – l’orrifico vero –, quello che sembra non potersi dire e lei fa dire alle voci convocate sulla pagina, a una lingua plasmata in modo da scavare il lettore, da tagliargli il fiato tanto procede da un basso universale. I testi sono amari e le voci spezzate anche quando sembrano fluire noncuranti, perché fluiscono nella agghiacciante naturalezza della violenza, nei dettagli esigui, vulnerabili – colori, odori, sapori – percepiti in punta di morte, punta di spada affilata, acuminata. Femminimondo ha un sottotitolo che non è crepuscolare, anche se potrebbe sembrarlo – Cronache di strade, scalini e verande –; potrebbe sembrare mite, leggero, e non lo è. Sono tutte cronache di morte. E le Sfilate – come recita una sezione – sono figure che “sfilano”, certo, in una passerella oscura, in una galleria di ritratti nati dalla cronaca buia, ma insieme sono grani – persone, vite – sfilati via da una collana, da un rosario, grani tutti sparsi e persi. Le posizioni sono dichiarate: «i fatti a sinistra, le colpe a destra, le donne nel mezzo». Ogni testo è un testo a fronte: a sinistra un succinto, rastremato fatto di cronaca di cui non si danno dettagli identificativi ma solo una scarna data e un nudo evento – «mercoledì / cinque maggio / duemiladieci / romeno uccide / lamoglie / a coltellate» – a destra il suo sviluppo, o meglio la sua voce poetica, un “io” che riferisce per minuzie ed ellissi, permettendo tuttavia di ricostruire l’orrore nella sua integrità. Più spesso chi dice “io” è la vittima, che provoca in noi straniamento perché parla mentre muore o dopo morta, pronuncia un monologo interiore a caratura povera, esprime la sorpresa di fronte a un assassino che arriva fra pentole e strofinacci, alla stazione della metro o al ristorante dell’Ikea, racconta gli ultimi sguardi sulle cose in una pietosa (e commovente) epoché di giudizio morale. Meno spesso – ma non per questo con esito meno straniante – chi racconta in prima persona è chi usa violenza o chi uccide. Effetto raggelante, perché anche queste voci si tengono, per ragioni opposte, lontane dal giudizio: «eri davanti all’agip e non dovevi fare benzina stavi con lui / stavi abbracciata e io ho fatto a metà / come si fa con le pasticche del cuore / mezza la mattina e mezza all’inferno / sei caduta come l’olio / che muore piano sugli scalini». Anche le pulsioni omicide e brutali sono viste dall’interno e tanto sono distorte in naturalezza che pretendono di negare la violenza: «cosa t’importa / se con tua figlia ci faccio l’amore / la prendo sul letto / cosa t’importa se lei sta buona lascia fare / […] se una ci sta anche se ha otto anni dieci anni quindici va bene». Il ribaltamento logico è immediato, il crimine palese, insostenibile. Quando a parlare sono voci esterne, spettatori popolari, i testi stigmatizzano luoghi comuni attraverso un basso corale che cuce in modo illogico lunghe teorie di pregiudizi. Questi versi di Alessandra Carnaroli, denunce intime e insieme gridate, non possono che chiedere e ottenere adesione emotiva e morale. Il corpo «sfinito, infinito, piantato sulla crepa stessa del mondo, e dato «in pasto al sacrificio, è corpo femmina», ha scritto Ottonieri. Vittime sono «lamoglie», «la verginità / della figlia», «duedonne», «lafilippina», una «turistafrancese» violentata, una «tunisina» segregata con la figlioletta, una «prostituta». Vittime compattate in oggetto, reificate in una categoria socio-culturale, assolutizzate dal saldarsi di articolo e nome o di nome e aggettivo. Bersagli del libro sono costumi di sopruso e cultura retriva, istituzioni che mancano al proprio compito, reticenze e silenzi che diventano correi. A fare «memorabili» le parole, le poesie di Femminimondo – questo poi era il senso ultimo, mutatis mutandis, della ricetta sanguinetiana – sono il trattamento poetico della lingua e l’articolazione della sintassi e dei versi. La cultura popolare preme con tutta la sua immediatezza e vira in metafore o similitudini, spesso con oggetti quotidiani, di grande impatto: l’osso si spacca «come pane secco»; i pugni lasciano «i timbri con le nocche come le facce di pucci»; la donna morta si spande a terra come l’olio per vedere se si ha il «malocchio»; e «la pelle è un foglio che finisce subito / ti resta tra le dita solo la carne» se muori ustionata e l’aria ti diventa «una gonna di carta vetrata». La fisicità preme, come è proprio della percezione, dello sguardo femminile, perché, diceva Virginia Woolf, inevitabilmente diversi sono gli occhi di una donna e di un uomo davanti alla stessa fotografia di guerra. La fisicità si fa tattile e minuta, casalinga e sinestetica; sceglie un piano metaforico che deve essere elementare nella sua originalità, e deve scendere alle radici: «non mi dare ventotto coltellate / che mi confondi la destra con la sinistra / la maglia di lana con la pelle / mi giri il cuore nelle tasche». Se versi di altri poeti compaiono, qui, hanno statuto di materiale scolastico e servono solo ad amplificare (se possibile) trauma e pena, come avviene dell’ungarettiana Soldati, là dove si narra della donna ecuadoriana soffocata: «casca dal letto come le foglie / stava / la puttana / in autunno / marrone». I fatti sono esempi da intendersi come «spunti»; la loro peculiarità non ha bisogno dei nomi delle vittime: azzera il voyeurismo morboso che intorbida i giornali e si risolve, di caso in caso, nel lavoro sulle partizioni versali e sul linguaggio che dalla quotidianità dell’uso si fa strappo inedito e continuo, da mandare a mente. Il risultato è un’anticronaca che si oppone al tempo e alla consumabilità, perché vive (non solo rende) ogni fatto come una mediazione, per noi, nella conoscenza del dolore.

(già su Puntocritico)

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Cecilia Bello Minciacchi
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