Non certo un fiore tautologico quello realizzato con un collage di ritagli di stoffe floreali quanto una nomenclatura esponenziale che denuncia che ‘fiore’ non si ‘dice’ mai abbastanza. E per un motivo del tutto preciso: il fiore, usualmente, lo si guarda. Il fiore chiede di essere osservato per la sua bellezza, ma ancor di più perché durerà pochissimo. Immortalarlo nel quadro è pertanto operazione al quadrato, poiché realizzazione di un’opera artificiale, la quale contribuisce, però, a sottolineare il senso principale dell’operazione compiuta da Livia Liverani: che è quella di ‘cogliere’, di nome e di fatto. Il fiore che non si può cogliere, l’opera che è sempre da ricominciare.
Ora, se accade molto spesso che fiore sia accostato a libro, il pensiero non può che correre al volume contenente miniature, ancora, dunque, racemi e virgulti, boccioli e foglie, ma anche narrazione come svolgimento, e come oggetto precario in sé. Che il lavoro di Livia Liverani si riallacci a quanto c’è di più prezioso e transeunte è, d’altronde, sottolineato dal fatto che lei opera continuamente attraverso slittamenti di senso ottenuti attraverso l’uso di materie analoghe.
La seta è per lucentezza e morbidezza analoga al petalo, il ritaglio degli elementi con cui l’artista romana realizza il collage delle forme è simile alla profilazione perfetta ottenuta con l’uso degli smalti (presenti anche nelle miniature), la morbidezza delle linee tracciate evoca la scorrevolezza dell’acqua e della scrittura, i piccoli rami con le stellate foglie stanno per le ripetizioni e le variazioni della narrazione.
Si svolge così all’interno di ogni singola opera il miracolo di un’integrazione e di una coesistenza che rende l’opera ottenuta con aggiunte, sovrapposizioni, ricami e intarsi, una squisita rapsodia coloristica che ha la delicatezza di offrirsi alla vista come ciò che è da cercare nei particolari. E da cui l’unità sfugge per approfondimento.
Il ricamo su stoffe pregiate riesce ad annodare ancor più indissolubilmente la delicatissima commistione esistente tra la disposizione dei fili nella tessitura e l’alternanza esistente negli elementi vegetali, facendone lievitare l’evidenza: la posizione fortemente tridimensionale delle foglie sugli steli e degli steli nello spazio ha come sottofondo la piatta regolarità dei fili che tramano la superficie negando ogni scorcio prospettico.
L’equilibratissima e perciò raffinatissima orchestrazione di pieni e vuoti, di inserti cromatici vividi sulle superfici monocrome confluisce nella produzione di un’immagine che conduce il fruitore a partecipare a una caccia al tesoro dove egli deve attraversare spazi neutri e sfiorare con lo sguardo corolle o nubi istoriate. Sono opere che costringono alla meditazione, e non solo per la presenza in essa di elementi della tradizione figurativa buddista – i quali si vanno facendo, inoltre, sempre più paludati – riconoscibili per la presenza dei fiori di loto o delle forme vorticose delle nubi o per il volo delle gru. Quanto per il fatto che rarefazione e parossismo decorativo vanno di pari passo, ma entrambi sono contenuti, si fanno sponda l’un con l’altro, dialogano e lasciano lo spettatore immerso in una serenità contagiosa, emanata dalle opere: eccolo il tesoro: era tutto esposto!