Un fecondo interrogarsi. Nota su “Il giardino conteso” di Flavio Ermini

Flavio Ermini - Il giardino conteso - Copertina

A “Il giardino conteso”, Flavio Ermini aggiunge quale sottotitolo “L’essere e l’ingannevole apparire”: forse tale “ingannevole apparire” è una delle molteplici fisionomie dell’essere?
Forse l’essere è un continuo modificarsi (talvolta illusorio) dell’umana espressione?

Si legge a pagina 39:

“C’è la necessità di [ …] un geografo che operi una rivoluzione della cartografia per una cartografia senza confini”.

L’autore non intende riferirsi specificatamente alle frontiere tra stati, poiché in un ipotetico mondo privo di nazioni esisterebbero comunque i confini dei continenti, delle isole, dei mari e degli oceani.
Qui è l’idea stessa di perimetro a essere messa in discussione.
Potremmo esistere qualora fossimo privi del concetto di confine?
Sì, ma saremmo diversi da quello che siamo.
L’essere, dunque, è anche possibilità?

Si legge a pagina 65:

“Il nostro è il tempo del fuoco che abbacina per un istante e scompare. Nella fiamma non può insediarsi qualcosa di durevole”.

La durata del tempo viene negata: ogni fulmineo attimo non può essere assoggettato all’ordinamento cronologico.
L’essere è anche non persistenza?

Procedendo nella lettura, s’incontra la pronuncia:

“Lo sguardo dell’essere linguistico è minuzioso, percepisce con esattezza forme, colori, distanze.
[ …] Va incontro senza pregiudizi alle cose che lo circondano e lo comprendono.
Penetra negli interstizi più nascosti dell’anima”.

Come si vede, linguaggio e sguardo sono congiunti in una sorta di attento osservare capace di rivolgersi all’esterno come all’interno: simile integrazione è tutt’uno con il sentirsi legati al mondo e a se stessi fino al punto di avvertire l’esigenza di comunicare.

Dopo aver denunciato, con preoccupate e condivisibili parole, il sempre più diffuso dispotismo della finanza e della tecnica, dice il Nostro:

“Di qui l’ingiunzione, più o meno garbata, che ogni tiranno rivolge ai poeti, ai suonatori di flauto e agli acrobati di lasciare la città e di spacciare da qualche altra parte la loro filosofia di vita”.

I “poeti” sono assimilati “ai suonatori di flauto e agli acrobati”, ossia a musicisti capaci di produrre melodie tramite uno strumento che volge in canto il loro stesso respiro e a ginnasti che, sfidando il pericolo, spingono fino all’estremo le loro possibilità atletiche.
La poesia viene vista come un fatto fisico, un peculiare linguaggio intimamente connesso all’esistere inteso quale totalità distinta nelle sue parti.
Le parti, senza dubbio, costituiscono l’intero, ma quante e quali devono essere?
Qual è il fondamento delle nostre classificazioni?
Sbaglierebbe un’ipotetica comunità che riconoscesse un colore soltanto se collegato a una forma?

È scritto a pagina 164:

“In conclusione, vi parlerò di poesia e filosofia, amici miei. Vi parlerò della loro possibile alleanza e del tanto auspicato loro matrimonio”.

Poesia e filosofia sono alleate?
Di più, sono congiunte nello stesso dire, poiché, non più disposti ad affidarci all’assolutistico svolgersi di tecniche discorsive incapaci di ammettere stili diversi, siamo inclini a ritenere che

“Il rapporto tra essere umano e mondo va pensato all’interno di quel vincolo che lega l’essere umano all’ascolto e all’appartenenza della parola”.

D’altronde

“è impossibile raggiungere una fondazione certa del conoscere umano esclusivamente attraverso le categorie”.

L’uomo è, soprattutto, desiderio espressivo.
Qui il cerchio, lungi dal chiudersi, si apre, anzi mostra di non essere nemmeno una figura, poiché è vita.
Qual è l’immagine o, meglio, la fisionomia della vita?
Ecco il coinvolgente quesito, privo di risposta definitiva, attorno al quale ruota l’articolato svolgersi dell’intensa scrittura di Flavio Ermini.
Talvolta una domanda può essere feconda quanto (e più) di una risposta: lo sa bene un poeta che ha vissuto e vive la passione per la parola con sincera originalità.

Marco Furia
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