Antonio Devicienti su “Ciclica” di Annamaria Ferramosca

ciclica-copertina

I movimenti ciclici, curvilinei e sinusoidali rappresentano il fluire della vita, il suo essere movimento e bellezza, il suo nascere ed abitare cavità accoglienti, spazi che si dilatano secondo forme sferiche; da Other Signs, Other Circles a Curve di livello, fino a questa ultima raccolta dal titolo Ciclica, Annamaria Ferramosca continua con coerenza un discorso poetico che, tramite un linguaggio a sua volta musicale e sinuoso, vuol riaffermare proprio con la scrittura-canto la sacralità (in termini laici) della vita, la bellezza insita nel movimento, nella capacità generativa, nella spontanea tendenza all’incontro che caratterizzano la vita sia umana che animale e vegetale.

Le sezioni in cui il libro è articolato (Techne, Angelezze, Urti gentili, Ciclica) scandiscono un percorso calibrato ed armonioso che parte proprio dall’esperienza ormai “normale” della “techne” (computer, social networks, telefoni cellulari e via enumerando), attraversa la naturalezza della nascita e della crescita, poi esperisce anche il dolore, la morte, l’amore e si distende nel canto finale che accoglie in sé  poesia e vita.

Il primo testo di Ciclica a pag. 11 esplicita subito un leitmotiv della raccolta, ovvero l’urto, il venire ad un contatto non superficiale e non occasionale tra due persone, l’incrociarsi di due esistenze che costringe a prestarsi attenzione reciproca al di là dell’apparente velocità e immediatezza di contatto permessa per esempio, da facebook con i suoi “mi piace”; altro nucleo tematico è il “farsi plurale” del singolo, continuando la tendenza presente fin dall’origine nella poesia di Ferramosca, che aspira alla coralità e che vuole radicarsi dentro la comunità.

E da Fioriture, alle pagine 14 e 15 (scalare la doppia elica / dei perché dei quando     fino alla vetta / scavare nel mio nulla senza scampo / nucleotidi a brandelli su cui inciampo / cercando nel mosaico la mia tessera / di terra cruda     nuda / fragile come appena abbozzata) al Natale che ritarda nelle due pagine seguenti (nascita che ritarda     ancora / se l’ibrido stenta a farsi mosaico / se un’ultima perfezione resta / ancora intatta nella foresta: / uomini rossi fanno segno alla civiltà / di allontanarsi    all’occidente di non diffondere / il contagio di un tramonto / senza ritorno di alba), alle Architetture alle pagine 19 e 20 (è il mio balcone a consolare / in lingua di menta e geranio / potrei non avvertire la voce / di quello in fibra al titanio / traslucida bolla che sporge d’orgoglio / sulla città con muso di nuvola // non è quello il giardino pensile / che insieme a me ridepiange / da olle di terracotta e sostegni / dove lego l’angoscia a tremore di foglie / dove insieme tendiamo / mani e rami alla notte) la riflessione di Annamaria Ferramosca tocca temi legati alla genetica, alla biologia, all’urbanistica, oltre che all’informatica, entro una consapevolezza che salda la nostra contemporaneità, spesso innaturale e disumana, capace di ritardare la rinascita pur necessaria, con la profondità storico-culturale, per cui la conoscenza dell’elica del DNA non ci sottrae agli interrogativi e alle angosce che ci accompagnano da sempre, il costruire giardini pensili con le tecnologie ed i materiali più moderni non toglie necessità e sapienza all’antichissima arte di coltivare le piante dentro vasi di terracotta (arte, quest’ultima, fondante delle nostre civiltà, raffinata e terrestrissima, per legame d’argilla, acqua e fuoco). E c’è la protesta contro lo sperpero di vite:

così assurdo il fiume degli uccisi
l’inarrestabile insulto alla terra

(da Inviti, pag. 23);

una terra e un profilo abbiamo
che vorrebbero splendere solo di parole
di orti e case di pietra e arti
(………)
terra offesa mille volte risponde
come sa rispondere una madre
nella sua lingua dei frutti e dei ripari

(pag. 24)

Il tema conduttore è quello della terra-madre e di una poesia che, consapevolmente posteriore alle fasi d’industrializzazione e ipertecnologizzazione, cerca una dimensione umana e in armonia con l’ambiente, inteso quest’ultimo come delicatissimo equilibrio continuamente ferito e minacciato. Ma la connessione tra essere umano ed ambiente si può rintracciare nel passato di ogni civiltà, per esempio nell’arte tradizionale della cartapesta, già vanto del Salento e di Lecce in particolare (Cartapesta, pag. 33). Qui la poesia è anche dita che lavorano la polpa d’albero, fantasia che s’inventa raccoglitrici di frutta e pastori di cartapesta, tentativo di attraversare il tempo, carta che vuol diventare Carta, via, approdo. Il termine verso ovviamente indica e il verso poetico ed il verso dell’andare e il verso dove  è l’essenza stessa, migrante e nomade, di questo come di tutti i libri di Annamaria. Il nomadismo infatti non è solo quello dello spostarsi del corpo nello spazio, ma anche quello della mente (l’instancabile irrequieta) e, di nuovo, quello del corpo che cambia col passare del tempo. Ciclica è, fin dal titolo, libro in movimento, lucrezianamente cosciente del moto perpetuo insito nella materia stessa. Ed anche l’immagine della linfa – mi accorgo – riconduce a quella del ciclo e del moto, della luce e del crescere. E continuando a leggere Un’adolescente un campo di girasoli un presentimento, alle pagg.37e 38, troviamo adolescenza, vita, arte, luce, linfa vitale, bellezza, amore, pensiero, parola, emozione d’essere viva, primavera ed estate: tutto questo sembra essere colei che parla in prima persona in un musicalissimo flusso di pensieri, emozioni e movimento ritmato soltanto dal salto di verso, dalle parentesi tonde e dalle pause interne. Fuochipensiero, paroleidee sono composti ottenuti per saldatura diretta di due vocaboli che costituiscono un marchio riconoscibile della poesia di Ferramosca (altrove vignarinascita, drogamore, urtoaroma, e via enumerando); e Van Gogh sembra essere uno di quegli artisti che, nel suo tentativo di “dipingere il vento”, continua a rimanere attuale e decisivo.

Annamaria Ferramosca definisce la lirica Erica delle domande (pagg. 39 e 40) “una poesia che si è quasi auto scritta mentre riflettevo sugli interrogativi che si pone una scelta di vita comune a molti giovani”:

è lei la girovaga? o è l’orizzonte che le gira intorno?
È lei che cerca o è il mondo che non la raggiunge?

E, dopo il cambio di strofa, leggiamo con ammirato stupore:

come portando lanterne sugli zigomi
lei sorride e va
da sé facendosi luce
a ogni terra chiede un incontro
a ogni deserto una risposta

La luce viene dal volto e dallo sguardo, dunque, l’immagine, originale e sorprendente, delle lanterne sugli zigomi ci suggerisce l’idea di una ragazza curiosa ed aperta al mondo (Erica sorride, chiede ad ogni terra un incontro), perché l’intera Ciclica è anche il canto di un’utopia che, tengo a sottolineare, nel caso di Ferramosca non significa “ideale irrealizzabile”, ma esattamente l’opposto: l’u-topia  è, qui, il luogo che non è ancora, ma che verrà ad esistere proprio grazie all’impegno di persone come Erica, al dispiegarsi della poesia, al dialogo, tema, quest’ultimo, da sempre presente nell’opera dell’autrice di Tricase.

(…)
Erica che cammina     simbolica
lei va     lei solo aspetta
che giorno dopo giorno le parole
soltanto le parole
mostrino i passi delle cose giuste
lei vede armoniche fiorire
negli occhi di Abdul che le offre il pane
o sulle labbra di David che rifiuta
ferite a Gaza sempre aperte
(l’uomo indemoniarsi     a quando
il ritorno in sé?     la quiete?)

Erica infatti cammina e quel simbolica (in posizione predicativa ed isolata anche graficamente) raccoglie su di sé tutta la pregnanza semantica ed etica del camminare, del successivo lei va e lei solo aspetta; la vita (che coincide con la poesia) si esprime con parole che dovranno mostrare i passi delle cose giuste, dal momento che quella di Annamaria Ferramosca è una ricerca sia poetica che etica, sia umana che civile.

Erica scalza che attraversa
i ponti saldi dell’amicizia
regale nel non possedere
se non parole come incontro     ascolto
vita come una larga gratitudine
casa che mai rovinerà
                                    per silenzio.

L’essere scalzi indica il contatto diretto con la Terra-Madre, l’essere disarmati e pellegrini, il recupero di una tradizione che significa fiducia nella terrestrità propria ed altrui, il voler aderire col proprio corpo alla terra (scalzo dovrebbe essere il poeta nel suo peregrinare, cioè sensibile e permeabile ad ogni umore della realtà); e non può passare inosservata la regalità di Erica nel non possedere (eraclitea, socratica e francescana povertà) se non parole come incontro e ascolto.

Uno dei pregi di questo modo di scrivere è l’apparente semplicità e spontaneità del dettato poetico, l’apparente assenza di sforzo nel raggiungere un risultato espressivo così rimarchevole; certamente c’è, dietro, un indefesso labor limae, una consapevolezza culturale e storica complessa ed alta, e c’è pure questa rara sapienza nel donare versi cristallini ed armoniosi, che subito raggiungono e commuovono la mente del lettore e che, a letture successive, si aprono ancora ed ancora, provocando nuove riflessioni ed associazioni, come fossero essi una sorgente inesauribile.

Vita come una larga gratitudine e casa significano anche radicare e custodire, accettare e parlare, come è detto nel Dialogo con un piccolo albero di limoni sul balcone (pagg. 42 e 43):

(…..)
uguale la nostra devozione
nel custodire le radici
(guardando verso il cielo)
parlare o stormire accettando
il ritmo lento dei corpi
i miei capelli-esuvie
le tue foglie a sfogliare.

Esiste una comunanza di questa poesia con quella di Farabbi e infatti la sezione Urti gentili si apre con una citazione da Abse: Rimettiamo alla stessa tavola / l’ora della cena in un’unica scodella / dentro una sola tenda; parlare in questo caso di “poesia femminile” sarebbe definizione superficiale e falsante, un altro modo (l’ennesimo) per chiudere il femminile in un ghetto, in un recinto all’interno del quale tutto sembra sotto controllo e normalizzato: si tratta invece di una consapevolezza profonda e non subalterna, di una coscienza storica, sociale, culturale, politica che hanno un progetto ed una visione del mondo alternativi a quelli imperanti che sono, lo sappiamo, capitalistici e maschilisti.

E leggiamo ora:

mai più riproducibile o seriale
questa lingua vorrebbe solo arti-colare
bellezza     tornare alla prima neve
all’origine sillabica del fiume
puro occhio

con la lingua vorrei solo esultare
soffrire delle cose     sulle cose far luce
anche feroce – sventagliando laser –
o velarle le cose     di compassione
coprirle scoprirle interrogarle
romperle corromperle
ammalarle infettandomi     guarire
restandomi nella voce – irrimediabili –
io segni del contagio e della cura

(pag. 47).

La poesia è anche attraversamento della terra d’origine e la poesia è canto. Come già nelle raccolte precedenti il Salento, terra mediterranea e di antichissima civiltà, incrocio di migrazioni e di destini individuali e collettivi, è memoria e pure presenza concretissima, presenza del presente e nel presente, se mi è concesso il gioco di parole, e, nello stesso tempo, oggetto di nostalgia, infatti si legge:

mi manca la lingua     mi manca
quella timidezza di vocali aperte
di zeta dolce nel grazie
un incurvarsi della voce in gola
come a piegarla fossero le pietre
salentine del ricordo

(…..)

urti gentili
questo annodarci annodando

i cesti della fiducia con antiche dita (pagg. 48 e 49). Riconosciamo qui la tradizione millenaria del canto femminile e dell’intrecciare, annodare, tessere, legare, filare: storie, stoffe, cesti, merletti, canti, relazioni, parentele, memorie, affetti.

Un ricordo d’infanzia dice il nascere della vocazione alla poesia:

è la voce bambina che affiora lontanissima
allo scoccare dell’ora della favola
la parola d’ordine segreta
zìnzuli!
(sugli stracci salivamo leggere

come sospese     solo orecchio essenziale) (da Stalattiti, pag. 50). Esiste una grotta che s’apre tra Castro e Porto Badisco, la “Zinzulusa”, termine salentino che significa “piena di zìnzuli, cioè di stracci appesi” che sono le stalattiti che pendono dal soffitto, ma il “salire leggere sugli stracci” suggerisce l’idea di un volo magico, stregonesco delle bambine-poete ed infatti esse sono “solo orecchio essenziale” e “come sospese” perché la poesia deve essere contemporaneamente immersione e volo, un librarsi nella luce ed un attraversare cavità, grotte, luoghi segreti:

fosse un arcano di grotta la
biblioteca chiara dove riconoscersi
deprogrammarsi nudi
oltre il tempo
un rampicare insieme lungo pareti sdrucciole
verso un tetto carsico
cercando l’aggancio al pieno     il cavo da saziare

fosse questa dalla grande madre
la risposta in lingua stalattitica
lente parole da dire lente da elaborare
sedimento che edifica pietra
contro ogni legge di gravità
come a scan-dire una costanza
sempre sarò qui per te
nonostante

(pag. 51)

Ciclica possiede una continuità di temi e d’ispirazione che, in questo caso, rimandano anche alla Sardegna e alle Grandi Madri di Malta presenti in altri memorabili testi di Ferramosca; la pietra e la Dea sembrano essere epifanie che recano in sé anche il senso ed il modo del fare poesia: lenta sedimentazione, paziente attesa.

Ma non si dimentica il male, quel che continua ad accadere nel Mediterraneo, inascoltato mare:

al largo
monta un fragore mediterraneo     cupo
come di gorgo
si annega ancora sotto la nuova luna
in quel mare-di-mezzo che mediava
un tempo tra buio e luce

(da Sotto la nuova luna,pag. 53)

Ogni vocabolo, lo sappiamo, possiede una sua profondità filologica, storica e culturale: qui è Mediterraneum, mare-in-mezzo-alle-terre che mediava e la nota amara è dettata dall’espressione un tempo, come se quella capacità di congiungere e di far incontrare le persone fosse andata perduta. Non è allora strano che torni anche in questa raccolta il leitmotiv del balcone da cui si guarda il mare (vale a dire la scrittura dalla quale si guarda il mondo) in Rifondazioni a pag. 54, dove il balcone, non a caso di tufo, materiale caratteristico di molte dimore tradizionali salentine, guarda verso Oriente, perché sono l’Adriatico ed il Canale d’Otranto i plurimillenari luoghi d’incontro e di tragedia, di separazione e di unione tra le due sponde:

essere qui nell’alba
sul balcone di tufo
la pietra ancora calda del sole di ieri
l’oriente che sfolgora
immobile il tempo
solo un’ala di vento a suggerire
deciso risponde il corpo     si sottrae
punta verso il mare
verso più felici città da rifondare
ecco a Enea s’apre un porto
un tempio appare sulla rocca di Minerva

Leggiamo ora a pag. 56:

quando gli oceani saranno prosciugati
le rive opposte fuse in continente
per la felice usura del cammino
per l’incontro acceso

quando faremo festa con poco
noi tutti divenuti campe-sì-nos
con flauti di legno e candele
a spartirci un solo sole
che basta a scaldare rischiarare
e il colore dalle vesti abbaglia
disperde l’incertezza

Capiamo subito che stiamo leggendo di una consapevole e programmatica proposta radicalmente in antitesi con tutte le tendenze economico-finanziarie, sociali e politiche in atto; non bisogna cadere nell’errore, però, di credere che Ferramosca ci proponga un ritorno ad un’era supposta felice pre-industriale ed agraria: non si tratta di un ritorno, ma di un progetto per il futuro, poste le basi di un modo altro di concepire se stessi, la società ed il rapporto della civiltà con l’ambiente; la stessa sillabazione del termine castigliano campe-sì-nos fa riferimento al campo, che interpreterei come ambiente e quindi ecosistema dal quale si trae il proprio nutrimento, evidenzia l’avverbio quale sillaba dell’assenso alla vita, della gioia e dell’apertura ed infine il nos (nosotros), cioè il noi, la collettività, l’appartenere alla comunità (lo spartirsi un unico sole).

quando il bambino indio schivo
sulla soglia della casa donata
splende come un re appena incoronato
mostrando felice l’ultimo mattone
come fosse il suo primo quaderno

quando chi non può offrire
altro che dignità e non chiede
se non di cercare – insieme – la vera traccia
e immeritata riconosciamo la
nostra fortuna
se fortuna è il buio d’occidente

allora, comprende il lettore, allora sarà giunta un’era nuova e solidale in cui un mattone è anche un quaderno, in cui avremo preso coscienza di quanto buio l’Occidente dilati sul pianeta.

Il tema del corpo appartiene al ventaglio dei temi della terra, della femminilità, della nascita, dell’andare incontro alla morte. Si tratta del corpo bambino, poi adolescente, quindi adulto e che poi invecchia, un corpo che è anche paesaggio da contemplare, ponte, cattedrale, nesso tra la mente ed il mondo; la biologia ha sempre posseduto nella poesia di Annamaria Ferramosca una presenza privilegiata, essa stessa poesia per quel suo essere inesauribile stupore e bellezza.

sì     decido     accolgo
voci sussulti     onde     arranco
nel volerle restituire
più intense     telluriche
sì    decido     ascolto
amo risuono canto
mi lascio cantare
a volte piango
per troppa voglia di tradurre il mondo

(pag. 61)

I versi che ho appena citato testimoniano in modo esplicito la tendenza assertiva di questa scrittura che splendidamente si autodefinisce troppa voglia di tradurre il mondo e che continua a cantare la nascita e la vita: alcune pagine più indietro la Nascita (pag. 34) offre infatti questi versi conclusivi: soffio il tuo nome intorno / – battesimo di sillabe nell’aria – / veglio il tuo sonno arreso che trascina / fiumi di stelle alla mia notte, e Adozione (una rinascita) e a pag. 36 si conclude a sua volta in questo modo: così a me s’apre / questa porta d’aprile buona sorte / nella casa che canta di pienezza / qui le radici / da qui muovere il cammino. “Buona sorte” riecheggia un augurio tipico dei dialetti salentini e il dire il nome, l’aprirsi della porta sono accadimenti che significano assertività e disponibilità ad accogliere, ascoltare, andare.

Da pagina 65, dove si apre l’ultima sezione (l’omonima del libro, Ciclica) con una citazione da Saramago, la poesia di Annamaria Ferramosca tocca il tema amoroso e quello della morte:

(…)
potremmo avere ali per un volo nuziale
largo e regale
solo se la traiettoria disegnasse
anelli aperti e confidenti     dita
che sfiorano ogni giorno una rinascita
raschiano al fondo la bellezza
         instancabili
fino alla coppa ritrovata
lucente nelle mani

(da Eventi d’amore trascurati, pag. 68)

Come si può osservare, la felicità è spesso rappresentata come possibilità concreta se non si fosse vittime più o meno acquiescenti di situazioni o scelte che quella stessa felicità impediscono o differiscono; in Perimetri d’insonnia (pag. 69) l’uovo (…) s’innalza / trasparente e pieno / liberi     senza scampo / destinati a inseguirci in quella significativa, apparente contraddizione dell’essere liberi (pausa) senza scampo, ma forse anche senza scampo destinati a inseguirci.

La morte può essere quella violenta in Zapatos rojos, testo che ruota attorno al tema del femminicidio e alla città Ciudad Juarez, per antonomasia città della violenza e dell’uccisione sistematica ed impunita a danno delle donne, oppure il chiudersi naturale (ma non per questo scevro di malinconia) del ciclo vitale.

Le specchie sono monumenti presenti sul territorio salentino, risalenti al periodo neolitico, eretti a scopo funerario o astronomico e, come spesso accade in tutta l’area mediterranea, segni architettonici del passato che stabiliscono anche in Terra d’Otranto una continuità col presente e tra le generazioni, per cui

due amiche
come tra madri ci parlavamo
la maternità estesa
ai nostri vecchi padri – son tornati bambini –

riflessa da acqua viva
anche la roccia as-sentiva
nella sua cecità sazia di luce
torre-vedetta che vede lontano
con la sua bianca congiuntiva a stelle
                                     di fioricappero

Tutto il paesaggio salentino è costellato di muri a secco, specchie, torri d’avvistamento, roccia a picco sull’acqua con i ciuffi del cappero precipiti dai muraglioni ed esso sembra partecipare dei discorsi e dei sentimenti delle due amiche

noi immobili di pietra e pietas
– lapidità senza rassegnazione –
di fronte a un segretissimo mare
nel fondo dei loro occhi la consegna
ora è la nostra ora
nel sorriso indicibile il velo del saluto

– la poesia di Ferramosca non ha bisogno di frasi ad effetto, ma si dispiega come un canto capace di diventare altissimo e catturante grazie a scarti minimi: pietra e pietas, accostate ed allitteranti, assumono una pregnanza indimenticabile proprio in riferimento al congedo dalla vita, a quel recupero della dignità del morire che la contemporaneità ha cancellato:

udire socchiudersi la porta
un rapido scalpiccio a riassumere due vite
due amici     eroi senza odissea
scoccato l’arco
contro questo disordine che dilapida
fuochi gesti racconti
riconsegnati ora alla madre
che non tradisce
accoglie nascite e congedi
gli olivi già disposti in processione
e la specchia     alta sull’orizzonte
piramide modesta a custodire
segni e silenzi

(Specchie, pagg. 79 e 80)

L’eroismo è dei giorni, silenzioso e discreto, connaturato al vivere coltivando amicizia ed affetti. La civiltà contadina, scomparsa o degenerata in un presente senza memoria e senza più dialetto, offre ancora dignità e nobiltà, custodisce (verbo sacrale nella poesia di Ferramosca e di altre poete che condividono il medesimo punto di vista) i segni e i silenzi, le due sponde entro le quali scorrono la vita e la poesia, i termini dialettici necessari del vivere e dello scrivere. Rocco Scotellaro è, in tal modo, interlocutore privilegiato in Terrantartide, il terzultimo componimento della silloge:

(…)
immutato il nostro giocoenigma
che vince per primato d’ossa
senza attrito è la pista
cosparsa di petrolio
e volontaria cenere dispersa
marcito il cesto con i pani
zittito il cerchio     il ritmo
sprofondato nei pozzi 

scrive Annamaria facendo pensare, ad esempio, al Golfo di Persia in fiamme o all’aria cancerogena lungo centinaia di chilometri quadrati attorno all’Ilva di Taranto, ai campi di grano divorati dalle cavallette (e non si tratta di una citazione biblica) e al Sahel che si dilata. Il dialogo avviene con quelle albe nuove e con l’immagine della capretta lucana / e le mandrie all’addiaccio di scotellariana memoria, che mugghiano ancora di domande fino all’ultima strofa:

una terrantartide
conta le sue albe ferro-livide
sempre più flebile il guaito
solo pietà di pietra a trattenere
per noi un’ultima acqua ultimi semi
germoglieranno ancora il fango il ghiaccio?

(pagg. 81 e 82)

Un punto interrogativo, forse il segno d’interpunzione più ricorrente in Ciclica, sigilla il dialogo con il sindaco-contadino che ha combattuto proprio contro il “gelo” che vorrebbe cancellare la vita e il pensiero, fare della terra un deserto ghiacciato senza sentimenti e senza affetti.

E i versi di Ciclica si chiudono con un altro interrogativo, coerenti e precisi: ci sarà un punto da cui far leva / (…) / da cui spiccare il volo / nella chiarità o nell’abisso? (pag. 84). La chiusa è dunque un’apertura ulteriore all’enigma del vivere ed un’arcata di ponte verso il prossimo libro.

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