Plegari
Es la última hora de la tarde, callados los pinos que orillan el camino alargan sus sombras, tiemblan la brisa
– es la plegaria del abandono, es el enraizarse en el viento –.
Preghiera
È l’ultima ora della sera, silenziosi i pini che orlano il percorso allungano le loro ombre, tremano la brezza
– è la preghiera dell’abbandono, è il radicarsi nel vento –.
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En la piel
A lo lejos, afuera,
cae una lluvia que tan solo huelo, una lluvia que aún no ha llegado.
Aquí en la piel, como en una página en blanco, espero que el agua, la lluvia, lo que vive y tiembla, me sea alguna vez revelado.
Sulla pelle
Lontano, fuori,
cade una pioggia che solamente annuso, una pioggia che ancora non è arrivata. Qui sulla pelle, come su una pagina in bianco, attendo che l’acqua, la pioggia, ciò che vive e trema, mi sia un giorno rivelato.
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Travesía
El viaje más lejano es el sosiego, a él vuelven todas las cosas,
como el hambre vuelve al pan y el azul al azul más profundo.
Traversata
Il viaggio più lontano è la calma, lì tornano tutte le cose,
come la fame torna al pane e l’azzurro all’azzurro più profondo.
L’ultima parola di un testo, in genere, evoca il silenzio.
Il silenzio di ciò che veniva prima della parola e il silenzio di ciò che potrebbe venire dopo.
Hugo Mújica, però, non sembra essere del tutto d’accordo: dopo, sempre dopo, non c’è il silenzio, bensì il vento. È un’immagine di rara forza, perché destabilizza la lettura, ponendola in ascolto della sua intima oltranza… E dunque, Y siempre después el viento/E sempre dopo il vento: così recita il titolo del libro del poeta argentino tradotto da Alessandro Ghignoli e pubblicato per i tipi di Raffaelli nel 2013.
Trascinato da questa immagine, l’orizzonte di lettura nel quale si cala il lettore del libro si caratterizza per l’inafferrabilità di ciò che non passa, non passa perché, con afflato messianico, è sempre sul punto di passare: Supe que el viento no pasa, / supe que siempre està llegando (“ho saputo che il vento non passa, / ho saputo che sempre sta arrivando”). Ciò giustifica il secondo principio, più volte reiterato nella raccolta, per il quale la coscienza della perdita è l’unica via possibile per il raggiungimento della saggezza. L’idea, di ascendenza socratica, si riversa sulla stessa poesia, destinata a farsi largo nell’esperienza del lettore tramite la creazione del vuoto che essa stessa viene a implicare: El poema, el que anhelo, / al que aspiro, / es el que pueda leerse en voz alta sin que nada se oiga. (“La poesia, quella cui anelo, / quella a cui aspiro / è quella che si può leggere a voce alta senza che niente si ascolti”).
Né musichetta da canzone, né aspirazione modernista, però: è il gusto del paradosso a dominare, fino a sfondare nel misticismo delle due sponde che sono sempre e soltanto una, dell’anima e della carne che sono una cosa sola. Misticismo che è nulla, a sua volta, se non si riversa, in un’etica dell’im-possibilità che chiama a sfide ardue, oltre il principio di non-contraddizione e della mediocrità della vita quotidiana: hay que regresar a la sed, una volta che si è riusciti a enraizarse en el viento, “radicarsi nel vento” e da lì “tornare alla sete”.
Poesia di perdita e di sete, dove l’acqua non c’è, a consolare, sostituita da una freschezza di vento che dovrebbe poter bastare: libro di rilevazioni (di vento) e di rivelazioni (di senso), quello di Mújica, che impone un lavoro dallo spirito altrettanto forte al traduttore e curatore. Non gli dà modo, ad esempio, di usare lo spazio della postfazione per scrivere qualcosa in più della vita e della poetica di Mújica, cosa che pure sarebbe stata utile al lettore italiano per delineare una più precisa collocazione storica e culturale dell’autore.
Dell’autore resta, però, una comunanza molto forte con la parola di grande potenza di Edmond Jabés, opportunamente citato da Ghignoli, e questo può forse bastare.