Lecomte, la vita che manca in un’autobiografia

autobiografie non vissute

Sin dal titolo, Autobiografie non vissute, Mia Lecomte ci suggerisce una sottile «questione»: come può un’autobiografia non essere vissuta? Come può un’autobiografia, non dico essere falsa o menzognera, che già sarebbe comprensibile, ma non «sorgere» dal vissuto? È come parlare di un sé inconsumato e remoto, e queste poesie, effettivamente, sembrano parlare di un sé nascosto, di una parte dell’interiorità che non si è mai scontrata con l’esperienza e con il vissuto. Forse sono sogni, o percezioni, o sensazioni, o magari intuizioni sensoriali: ognuno saprà dare un nome appropriato a questa parte remota di noi.

È una sorta di sismografo della «periferia di te stesso», questa raccolta di poesie. Predrag Matvejevic, nella bella nota introduttiva, scrive:

«(Della poesia di Mia Lecomte) ammiro la concisione, il gusto della litote, il modo di procedere per scorciatoie, di lasciare da parte il superfluo o l’eccesso. Il suo rifiuto della retorica come delle acrobazie e delle accumulazioni».

Tutto vero: in questa raccolta non ci sono né acrobazie né furbizie stilistiche né retorica di sorta. Il tratto distintivo di Autobiografie non vissute è la delicatezza verbale, che però sa essere decisa, come chi dica una cosa forte a bassa voce, quasi sussurrando: si vedano gli incipit del bellissimo poemetto Periodo ipotetico. Anzi, a mettere insieme i nove incipit del poemetto si ricava un’unica poesia, quasi un attraversamento paradigmatico dell’amore (proviamo: «Puoi guardarmi ora, posso guardarti ora, puoi annusarmi ora, posso annusarti ora, puoi toccarmi ora, posso toccarti ora, puoi prendermi ora, posso prenderti ora, possiamo tacere insieme»).

Scrive Mia Lecomte: «Vita è quello che rimane / quando si è perduto tutto. / È il cane a tre zampe / tutte e tre dritte e forti / e una quarta strappata dall’inguine». È una parte della poesia che apre il volume, una dichiarazione sul senso complessivo della vita. Come scrivere dopo un naufragio. Come provare la consistenza delle parole dopo il dolore, e quello che rimane è tutto, è la verità essenziale che conta.

L’atmosfera che si respira in Autobiografie non vissute è sognante, come ascoltare il racconto di un sogno dalla viva voce di una persona ancora assonnata. C’è anche un andamento come di filastrocca, in queste poesie: si va in profondità, tutto è verticale, i sogni sono immersi in un liquido caldo, ma a raccontarli è un’anima discreta, che parla con l’incanto e la fiducia dei bambini.

(Pubblicato su L’Unità del 17 April 2004 )

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Andrea Di Consoli
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